Stefano D’Arrigo – L’Omero siciliano

“Quando mi chiedono che cosa sono, e il senso della domanda è chiaramente che cosa so fare davvero, allora rispondo che sono un lettore. Non solo un linguista, non proprio un letterato, e nemmeno un critico. Che cosa scrivono i letterati, i critici, e persino i linguisti, tutti lo sanno. Il problema, invece, è che cosa possa scrivere un lettore, e questo neanche il lettore migliore davvero lo sa.
Il lettore, infatti, ‘naviga’, e il solo testo che possa scrivere è un libro di bordo, un diario cioè che racconti che cosa gli accada d’incontrare sulla sua rotta. Ma la rotta del lettore è fatta di pagine di scrittura, file sterminate di parole… Raccontare un viaggio fra le parole d’altri non è impresa codificata, trasparente, familiare. E può risultare massacrante per il lettore al quadrato, che, non contento del libro, voglia leggere anche le pagine di un altro lettore”. (Fabrizio Frasnedi)

Se io uscissi per strada e domandassi alle persone se conoscono Stefano D’Arrigo, credo che probabilmente la maggior parte delle risposte sarebbe un secco no. Avrei detto la stessa cosa anch’io tempo fa. Però, nella vita ci sono delle occasioni in cui mi piace assaporare quel momento in cui i Professori con la P maiuscola ti illuminano e ti trasmettono la propria passione. Questi sono i momenti che passano, ma che non moriranno mai e probabilmente sarò debitrice a vita nei riguardi di quei Professori che mi hanno cambiata.

Il mio primo incontro con Stefano D’Arrigo è stato in un aula dell’università, un incontro di carta e di parole proferite da uno dei miei Professori, di cui ho deciso di utilizzare (per questo mese d’autore) l’incipit di un saggio proprio su Stefano D’Arrigo che potrete trovare ne Il mare di sangue pestato.

Ritengo che per conoscere davvero D’Arrigo, ci si dovrebbe immergere nella sua grandissima opera intitolata Horcynus orca. Questo, perché, come accade molte volte, è più facile entrare in contatto con un artista tramite le sue opere. È sempre stato così: “Il lettore sottoscrive un contratto letterario che gli permette di introdursi nella realtà della finzione, al di là dell’esperienza quotidiana, con un atteggiamento che trasforma una serie di proposizioni irreali ed arbitrarie in un mondo dall’apparenza sensibile, regolato da leggi e da clausole sue proprie.” (Il testo a quattro mani – Federico Bertoni)

Spero, dunque, di non fare un torto a nessuno parlandovi di Stefano D’Arrigo (autore siciliano, nato ad Alì Terme nel 1919 e morto a Roma nel 1992) attraverso un libro a cui fu molto legato.

Horcynus orca – opera mondo darrighiana – fu pubblicata nel 1975 dopo più di vent’anni di lavoro in cui lo scrittore dovette fare un’attenta revisione linguistica. Non sarebbe facile afferrare tutti i giochi di parole all’interno, allusioni al dialetto che – forse – soltanto le vecchie generazioni (siciliane o tutt’al più meridionali) potrebbero comprendere. Giuseppe Pontiggia, che revisionò il romanzo darrighiano, sostiene che leggere Horcynus orca vuol dire anche imbarcarsi per un viaggio molto impegnativo. Il viaggio che si intraprende leggendolo è, però, a mio avviso, molto stimolante. Il legame fra D’Arrigo e il suo personaggio Ndrja è molto forte, così forte da far passare – nell’ultima parte del libro – circa trecento pagine prima di descriverne la triste sorte. Horcynus-Orca
Nell’intervista contenuta in Il mare di sangue pestato a cura di Francesca Gatta, Cristiana de Santis intervista Pontiggia sul suo lavoro da redattore di Horcynus orca. Pontiggia scriveva i commenti inviandoli alla Mondadori, ma non sapeva che D’Arrigo leggeva i suoi commenti volta per volta. Quando Pontiggia scrisse il risvolto per la pubblicazione del romanzo, D’Arrigo rimase deluso perché affermava che Pontiggia non avesse usato le stesse espressioni di entusiasmo inserite nei commenti del manoscritto. Così i due si incontrarono e Pontiggia, nell’intervista, afferma che D’Arrigo era stato testardo e pretendeva che lui riscrivesse il risvolto. Da qui, si comprende un totale attaccamento di D’Arrigo nei confronti del proprio romanzo, come a significare che fosse quasi vitale per lui. Lo stesso Pontiggia afferma che, quando entrò nella casa romana di D’Arrigo, respirò l’aria delle fere e dell’orca. Ma cosa sono le fere? E perché intitolare il romanzo Horcynus orca? A questo ci arriveremo fra poco.

Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.

Ndrja Cambria è l’Ulisse del romanzo darrighiano: dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, una parte della Marina Regia decide di tornare a casa, in Sicilia. Capeggiati da Ndrja, molti sono i compagni che – con lui – approdano a Praia a mare in Calabria. Poiché il romanzo è davvero lungo, non ne rivelerò tutta la trama, ma dei pezzi che fungeranno da tasselli per comprendere questo personale diario di bordo da lettrice. scillacariddi

D’Arrigo ambienta il romanzo nella sua Sicilia, il nostos di Ndrja è il nostos mentale dello scrittore che – attraverso i ricordi – ormai trasferitosi a Roma, ritorna in terra natìa, o meglio, in acque natìe, quelle del Tirreno e dello Jonio, il mare di sangue pestato, il mare aranciato. Il mare è una presenza fondamentale nel romanzo: lo scrittore siciliano intitola il suo capolavoro Horcynus orca inserendo la lettera H che non si trova nel termine scientifico. È interessante, inoltre, lo studio portato a termine da Anna Infanti sulla lettera H e la lettera Y che nel linguaggio alchemico significano rispettivamente H: la scala, il cammino sulla via della conoscenza; Y: simbolo dell’androginia. Se ci soffermiamo sulla lettera H e sul suo significato alchemico di via della conoscenza, si può quasi azzardare una scelta volontaria da parte di D’Arrigo. Se Horcynus orca richiama l’Odissea, quale personaggio se non Ulisse è animato dalla curiositas, dalla voglia di conoscere e dal desiderio di tornare in patria? Horcynus orca è un’odissea contemporanea, dove nessun dio viene in aiuto di Ndrja, dove Ndrja non può essere re e capo dei suoi compagni: il suo ritorno in patria significa morte, non salvezza, ma lui sceglie lo stesso di tornare, di essere trasportato dalla barca di Ciccina Circè, il cui nome e carattere ricordano quelli della maga Circe. Allo stesso tempo, Marosa (la siciliana che aspetta Ndrja) è la caricatura di Penelope e le femminote (incontrate a Praia) possono essere ricollegate alle sirene. Il litigio tra le femminote Cata e Peppinagaribalda, che ricorda una lotta dei poemi epici, termina con Cata che va a fare pipì in una maschera di gesso che rappresenta il busto di Mussolini, atto di dissacrazione nei confronti del duce che ai tempi di guerra veniva acclamato quasi fosse una divinità. D’Arrigo si ispira a Omero, ma allo stesso tempo, lo stupra, annullando i valori del poema epico, dando agli uomini una concezione umana, creando una divisione fra cristiano e ateo, fra pesce cristiano (il pesce spada che – a mio avviso – potrebbe anche ricordare la spada Durlindana di Orlando, miles Christi, de la Chanson de Roland) e il pesce bestino (la fera), mettendo in dubbio il lettore sulla vera personalità del delfino/fera, riempiendo il suo romanzo di sicilianismi contrapposti alla lingua italiana.

Non si deve dimenticare – infatti – che il romanzo è ambientato negli anni della seconda guerra mondiale, negli anni del fascismo di cui uno degli obiettivi era proprio la lotta al dialetto. Lotta alquanto opinabile poiché il MinCullPop (Ministero della cultura popolare) – durante il regime fascista – aveva vietato le rappresentazioni in dialetto fatta eccezione per il dialetto veneto di Goldoni, il napoletano dei fratelli De Filippo, il siciliano di Angelo Musco. Un paradosso che si ha anche durante l’unità d’Italia quando Le miserie di monsù Travet – scritte da Bersezio in piemontese – dovettero essere riscritte in italiano perché l’Italia era stata proclamata unita.
Il legame di D’Arrigo con la sua terra è legato indissolubilmente anche al suo dialetto, motivo per cui la lingua da lui utilizzata è un italiano con continui riferimenti al suo dialetto. D’altronde lo diceva anche Pirandello che la parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto.

La lotta contro il dialetto attuata dai fascisti la troviamo in Horcynus orca, inaugurata dalla presenza di Monanin, guardiamarina veneziano, che si ostina a chiamare delfini le fere. Walter Pedullà, nell’introduzione ad Horcynus orca, parla di italiano che si nutre di dialetti, così come un delfino che si nutre di fera. Viene coniato da D’Arrigo il termine delfi-fera, un compromesso, un incrocio tra maschio e femmina, tra italiano e dialetto. Monanin rimane basito quando sente Crocitto chiamare fera il delfino e tenta di convincere Crocitto e Ndrja sulla musicalità della parola delfino. Ma i due marinai ribattono, dicendo che anche il nome della tromba marina può essere musicale, ma di certo non lo è il fenomeno naturale di per sé. Monanin è un uomo colto e domanda ai marinai se conoscono il significato della parola fera che proviene dal latino, ma Crocitto risponde dicendo che fera significa fera, non c’è bisogno di trovare un significato perché loro la chiamano fera per come si comporta, per le sue malazioni. Monanin non vuole crederci, dice che possono essere soltanto delle credenze come quelle riguardanti le sirene, ma Crocitto non demorde, risponde dicendo che quando viene nominata la fera, spunta il lutto sul volto delle femmine. Crocitto vuole rivendicare la propria lingua, la lingua della fera, il dialetto siciliano. Monanin lo rimprovera dicendo che loro, i siciliani, non hanno nessuna lingua.
Monanin, più attaccato all’apparenza che alla sostanza, si improvvisa maestro d’italiano e vuole che Ndrja e Crocitto portino la parola delfino sullo stretto di Messina, poi comincia a parlare della benevolenza dei delfini, della fortuna che portano e viene citato il mito di Arione che fu portato in salvo dai delfini e poi viene narrato il fatto di un guaglioncello napoletano che diviene amico con un delfino. Monanin non è fascista, ma si comporta allo stesso modo dei fascisti perché parla come un fascista, andando contro l’uso del dialetto.

D’Arrigo utilizza un linguaggio anti-accademico, un linguaggio basso, volgare. Ci troviamo in un periodo di spaccatura in cui il ‘900 prende il sopravvento e muta totalmente il linguaggio letterario: da qui la scelta di molti autori del ‘900 (tra cui Gadda, Testori, Fenoglio) di portare nell’italiano, anzi, trasportare nell’italiano, non soltanto parole tipiche dei propri idiomi, ma oltrepassare i limiti e trasgredire le regole.

Scrive D’Arrigo: “Voi sapete la differenza che passa fra il sentitodire e il vistocogliocchi? È la stessa che passa, figuratevi, fra la notte e il giorno. E la notte, non so se lo sapete, è femmina e fa chiacchiere, mentre il giorno è maschio, piscia al muro e porta il fatto”. Così è la prosa di D’Arrigo, una prosa androgina. D’Arrigo fa chiacchiere, inserisce digressioni in questa lunga Odissea personale e allo stesso tempo porta fatti, porta avvenimenti. Il suo purparlé, francesismo per pour parler, potrebbe essere ancora un’invenzione darrighiana: il puro parlare in cui l’azione e il pensiero si mescolano fino alla fine, quando Ndrja cascherà in mare e morirà. Il pensiero si abolisce, si ritorna alla morte.

“Se si premuniva al pensiero della morte, questo dava a capire, era semplicemente perché sapeva di vivere e in conseguenza sapeva di dover morire: e perché sapeva questo e aveva rispetto del suo corpo, sia al vivere sia al morire, sia appartenendogli sia no, per ripararlo da offese e ingiurie quando sarebbe stato solo, gettato nella spuma di un mare, lui lo aveva divisato, uniformandosi alla morte più pregiata, più privilegiata del momento, che era perlappunto morte soldatara, non la solita morte di sempre, borghesara”.

Morte, solitudine e notte sono la triade del romanzo darrighiano, questo si comprende dal gioco di parole che percorre tutto il romanzo: barca-arca-bara. Barca come quella di Caronte che trasporta le anime all’inferno e come quella di Ciccina che, inconsapevolmente, trasportando di notte Ndrja in Sicilia lo conduce alla morte, arca come quella di Noè, uomo solo che salva gli animali, notte come oscurità che si ritrova nella bara quando vengono saldate le viti e viene chiusa per sempre. Ndrja, come Ulisse, torna in patria, ma a differenza dell’eroe omerico, ci torna per morire. Ritornare al luogo natìo mostra già il legame che c’è fra D’Arrigo e la Sicilia. Non solo sceglie di ambientarlo a Messina, sua città natale, ma parlerà proprio del simbolo della Trinacria quando viene presentato il personaggio di Boccadopa che cammina con un bastone perché zoppica: “La Sicilia, me la ridà lei la gamba. Lei ne ha tre e una le è d’avanzo e quella me la rattoppo io, per malandrineria”.
Il ritorno di Ndrja in Sicilia corrisponde all’arrivo dell’orca orcinusa, orcinus significa orco proveniente dall’inferno. Ovviamente il tutto è voluto, vi è un evidente collegamento fra l’orca e la barca che si ricollega a quella di Caronte che trasporta le anime all’inferno. Il viaggio di Ndrja avviene di notte, Ndrja incontra Ciccina Circé che decide di portarlo in Sicilia. Circé rimanda a Circe, la strega dell’Odissea e strega sarà anche Ciccina che incanta le fere con le campanelle a prua per allontanarle. Un viaggio pieno di digressioni in cui è Ciccina quella che parla di più, Ndrja è come ammaliato dalla voce e da questa figura che, a causa della notte, non viene vista per bene da Ndrja. Il ritorno dell’orca e il ritorno di Ndrja sono collegati come le loro morti. L’inizio della terza parte del romanzo comincia con la presentazione dell’orca orcinusa, che infesta lo stretto a causa del suo odore putrido proveniente dalla cicatrice che ha sul fianco sinistro. L’orcinus orca è simbolo della morte o meglio è la morte stessa, lo spiega il signor Cama ai pellisquadre dicendo che quella che chiamano ferone ha in comune con la fera soltanto la coda piatta. Vi sono due digressioni riguardanti l’arrivo dell’orca in Sicilia per dimostrare che l’orca è portatrice di morte (quella del ’18-’19 quando appestò un padre e un figlio e quella di qualche anno dopo quando Ferdinando Currò fu trascinato fino a Malta dall’orca stessa). Se l’orca è presagio di morte, dev’essere uccisa, ma passano moltissime pagine prima che questo avvenga. Vi sono pensieri discordanti, l’orca libera dalle fere e porta la cicirella, un banco di anguille neonate, l’orca è la morte ma porta la vita, quasi per dimostrare che non c’è vita senza morte e viceversa, come il pensiero eraclitiano della dottrina dei contrari: un’interdipendenza che si viene a creare fra Bios e Thanatos. La cicatrice che l’orca ha sul fianco sinistro è la cicatrice che segna lo stesso Ndrja, animale ed essere umano sono soli e moriranno da soli. L’orcaferone viene colpita dalla coda delle fere e gli inglesi le danno il colpo di grazia così come il colpo di grazia verrà dato a Ndrja al tramonto dopo circa trecento pagine. È come se D’Arrigo cercasse di rimandare la morte di Ndrja, come se non volesse davvero farlo morire, come se volesse ardentemente che lui sia l’eroe tornato in patria, ma alla fine Ndrja muore e non muore da eroe. Non muore in guerra per la patria, ma muore per la sua patria, la patria siciliana. Infatti, Ndrja decide di partecipare ad una regata per vincere dei soldi che serviranno a comprare una barca per i pescatori, per permettere loro di tornare in mare. Una morte quasi tragicomica, la sua, in quanto Ndrja sta solo provando il percorso della regata, ma si avvicina troppo alla prua delle portaerei inglesi – il traguardo – e la sentinella spara. Ndrja alza gli occhi, “Come se porgesse volontariamente la fronte alla pallottola che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre”.

Horcynus orca è un romanzo intriso di morte. Oltre a quella dell’orcaferone e di Ndrja, vi sono tante altre morti come quella della madre di Ndrja, l’Acitana, muore un marinaio che non si vuole arrendere ai tedeschi, muore il delfino ucciso dall’Eccellenza fascista, muoiono tutti e si percepisce l’orrore della guerra. Ma come dice Walter Pedullà, vi è anche la morte simbolica come quella dei ferribò nello stretto, distrutti dalle bombe (per esempio, all’inizio le femminote parlano dei ferribò e viene ricordato il mare aranciato, aranciato perché tutto il carico delle arance finisce in mare), oppure vi è la morte apparente di don Armandino Raciti che ha solo 37 anni e che non riesce più a ragionare, senza contare la morte della città di Messina, piena di macerie.

Oltre al binomio di Bios e Thanatos, l’altro legame inevitabile è quello fra Eros e Thanatos. D’Arrigo, però, parla di eros nell’accezione di amore e sesso. Non vi è nessuna censura, non vi è religione, l’amore è vissuto in tanti modi diversi. Possiamo partire dalla figura delle femminote che ricordano le Baccanti. Le femminote sono la razza umana delle fere e vi è la leggenda che entrambe discendano dalla stessa creatura ovvero la sirena. Il primo incontro con le femminote avviene all’inizio del romanzo, sono donne che potrebbero essere definite lussuriose in quanto desiderose di sesso, proprio come le Baccanti. Tra tutte si discosta la figura di Cata che è incantesimata perché non ha potuto consumare l’amore con il marito e Jacoma, la madre, cerca di convincere Ndrja a disincantare Cata attraverso il sesso. Le femminote raccontano di quando viaggiavano sui traghetti e facevano sesso con i macchinisti dei ferribò, dicendo addirittura di pensare di essere possedute dalla nave stessa e non dagli uomini. Più avanti sarà un vecchio a spiegare a Ndrja la natura sia animale che divina delle femminote, legata alle fere: “La fera come a fare coppia con la femminota e che razza, che cazza di razza di coppia si poteva immaginare subito, subitissimo, una coppia che solo a sentirla, veniva istintivamente di mettersi, come a riparo, le mani sopra il culo”. Il vecchio consiglia a Ndrja di ingraziarsi le femminote per far sì che loro lo trasportino in Sicilia, che gli facciano passare lo stretto. “Vi dovete scrivere a mente questo: che sono deisse, e se non le trattate per tali e non gli entrate nella divozione, voi, in Sicilia, per grazia loro, non ci arriverete mai. Pigliatele per il verso loro invece, per quanto dispotico sia, divozionatele nello stile che stilano e in Sicilia allora vi porteranno a musica, ciancianiando”. Quindi lo spiaggiatore parla di un collegamento fra fere e femminote, lo stesso di cui parla Mimì Nastasi: “Femminote e fere, nei caratteri, in tutto, si trattavano, le une con le altre, come si meritavano, e forse c’era del vero in quello che sosteneva don Mimì Nastasi, che cioè erano intrinseche e avevano lo stesso sangue, perché discendevano tutte e due, per gradi dalle sirene. Era meraviglia se si trattavano a manica larga: mangia che ti mangio, carne delle mie carni?”. Mimì Nastasi ritorna molto più avanti, a metà romanzo, quando viene ripresa questa credenza delle sirene progenitrici di fere e femminote e vi è un flashback in cui si parla delle prime esperienze sessuali di Ndrja: la prima con una sirena-bionda, Ndrja e gli amici la avvistano e salgono sulla barca, vogliono fare a turno, ma vengono sorpresi dal marito della donna che vuole pagarli per aver fatto divertire la moglie; la seconda esperienza di Ndrja avviene con una trapanese lercia che fa vedere a Ndrja per la prima volta come è fatta una donna a cosce aperte, la terza, invece, è un incontro con delle femminote che, però, derubano Ndrja e gli amici e trasmettono lo scolo a qualcuno di loro.
Ndrja segue il consiglio dello spiaggiatore, trova Ciccina Circè che lo porta in Sicilia. Ciccina Circè è una femminota, è una puttana, è una maga. Ciccina trasporta Ndrja in Sicilia, gli fa attraversare lo stretto, ma verso la fine è come se facesse un incantesimo. Ndrja la sente soltanto e non la vede, immerso in un dormiveglia, si risveglia quando sono già approdati ed è sotto le palme che Ndrja si disobbliga per il passaggio con Ciccina. Consumano l’amplesso, la femminota gli dice “Focu meu”, quasi come se fosse lei a guidare tutta la messinscena. Ma Ciccina, durante il viaggio in barca, dice a Ndrja che una con il cuore come il suo deve sapersi difendere e gli racconta del suo amante Baffettuzzi che partì per la guerra, parla di Musolino (Mussolini) che impose la camicia nera e dell’amante che al posto della guerra a letto preferì la guerra vera e propria, lasciando Ciccina Circè.

D’Arrigo, dunque, parla di sesso, ma parla anche di amore. Vi è l’amore di Marosa, la ragazza di Ndrja, la promessa sposa, che lo attende fedelmente come Penelope.
Quando si parla di Eros e Thanatos, possiamo parlare di amore eterosessuale che si conclude con la morte di uno dei due amanti, come quello tra l’Acitana – che muore – e Caitanello (genitori di Ndrja) o di amore tra animale e uomo. Quest’ultimo può ricordare il mito di Pasife che si accoppia con il toro e dà vita al Minotauro, infatti Mezzogiornara, la fera, si innamora di Caitanello Cambria, padre di Ndrja. Viene definita come una di famiglia e Caitanello l’aveva chiamata così perché arrivava a fine giornata. È una scena in cui viene descritta la tristezza di un bambino quando si perde il proprio animale: “Caitanello, invece, restò a bocca aperta e come insalanito sulla riva. Non piangeva più, non parlava e non si muoveva. In quel momento, forse, non sentiva nessuna specie di spasmo, né di rimorso né di dolore, in quel momento era solo un muccusello con la mente sgomentata, un muccusello che se ne stava di fronte al grande mare come una piccola statua di sale, perché aveva visto la morte e se n’era fatta meraviglia.”

Per l’amore omosessuale, invece, occorre menzionare il Maltese che propone a Ndrja di partecipare alla regata e a cui Ndrja ha in mente di chiedere la carcassa dell’Orcaferone. Lo scagnozzo del Maltese, infatti, fa comprendere il desiderio omosessuale del Maltese nei confronti di Ndrja, dicendogli che il Maltese sarebbe disposto anche a dare il suo bakside. I pescatori contano sull’amicizia ambigua tra Ndrja e il Maltese per scopi economici. Non si comprende, allora, se Ndrja abbia tendenze omosessuali perché gli viene in mente l’immagine sognata in cui i pescatori lo imbrattano di rossetto perché pensano che la guerra abbia infemminato Ndrja e lo chiamano addirittura Ndrjuzza. Walter Pedullà dice che forse Ndrja, alla fine del romanzo, alza la testa e si fa colpire volutamente dal proiettile per i pensieri colpevoli di un amore proibito, ma questo rimane un mistero.
Inoltre, non è un caso che oltre alla triade di barca-arca-bara, vi sia il tris di parole mare-amare-madre. Ndrja torna nella terra natìa, orfano di madre, fa l’amore nel vero senso del termine soltanto con Marosa e si lascia trasportare da lei come se fosse lei l’uomo fra i due, si lascia dondolare come una barca in mare ed è proprio in mare che Ndrja morirà. Lo stretto contatto che c’è fra D’Arrigo e il mare è innegabile.

“Perché, il mare sembra veramente essere tutto in ogni suo punto, se si guarda come lo guardava il vecchio in quel momento, col chiaro, profondo occhio, rigonfio di tutte le lagrime che possono riempire un occhio e l’occhio trattenere e mai versare, di tutte le lagrime di cui è capace l’animo umano quando è veramente felice e quando è veramente infelice, quando felicità e infelicità non si sa più che cosa precisamente sia l’una e che cosa sia l’altra, se si può credere di provarle, sentirle e vederle confuse insieme, indecifrabilmente, in un occhio che fissa un punto del mare al tramonto e si fa rigonfio di lagrime, rigonfio di tutto il mare di lagrime che guarda”.

È lo stesso mare di lagrime dove i compagni di Ndrja remano per riportare il corpo senza vita dell’amico: “La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare.”

Il viaggio di Ndrja è un ritorno in patria, una patria in cui è costretto a vivere nei ricordi perché è tornato vivo dalla guerra e deve scontare questa pena rivivendo il passato. Ndrja è Ulisse, ma è un Ulisse differente. È un Ulisse che non torna in patria per raccontare le sue avventure, che non starà a fianco della sua Penelope, che non vedrà mai nascere un figlio. Walter Pedullà definisce Ndrja un personaggio con un destino differente da Ulisse perché Ulisse è bugiardo, Ndrja no. Segnato dalla guerra e dal dolore, non può tornare a casa, come Ulisse, e diventare un capo, una guida. Basti pensare all’inizio del romanzo: i compagni di Ndrja lo chiamano Mosè sperando che lui, come Mosè salvò gli ebrei, possa salvare anche loro e farli ritornare in Sicilia. Ma questo non avviene, nessun dio Ermes giunge da Ndrja per donargli una pozione e salvare i marinai, colpiti da una diarrea a causa del tonno datogli dalle femminote (in questo caso Ndrja è già partito e i marinai sono simili agli uomini di Ulisse che Circe fece diventare maiali). Ndrja parte da solo con Ciccina Circè sfruttando l’occasione e questo gli verrà rinfacciato verso la fine, quando Boccadopa e Portoempedocle gli rimprovereranno di averli lasciati in mano alle femminote. Se Ndrja ha perso i suoi valori a causa della guerra, come può fare il capo? Come può salvare i compagni, se lui stesso non riesce a trovare la salvezza? Ulisse mente a Polifemo per salvare i compagni, in Horcynus Orca Ndrja non mente a nessuno e soprattutto non scende a compromessi (per esempio non soddisfa le voglie omosessuali del Maltese, l’Ulisse omerico l’avrebbe probabilmente fatto). Ndrja non solo è senza valori, ma è anche senza religione. Per questo non può essere Mosè, perché si ritrova senza un dio nella sua condizione e cognizione di uomo: “Ma che segno volete, cristianello straziante, figura sfigurata del genere umano? Segno di croce, questo volete? O avete in mente il segno di Mosè che gli apre il mare a Boccadopa, sennò quello vi s’impone in collo per trasbordarlo sino in Sicilia? Avete in mente questo: che sono Mosè vero, in persona? Scherzando e ridendo, arrivaste a figurarvi questo? E del resto, con una mente strambata come la vostra, vi potete figurare non solo Mosè, ma pure il dio che non è dio. Magari fossi Mosè, magari…Fossi Mosè, vedete, io qui mi troverei avvantaggiato, col mare mezzo spartito. Mi basterebbe che mi mettessi a Scilla, visavì a Cariddi, che è dove abito io, là di fronte, sulla linea del duemari, e là, con Tirreno da una parte e Jonio dall’altra, sempre a faccia avanti, coi cavalloni alzati ai due lati, mi farei la linea all’asciutto e dove esco, esco sempre a casa. […] E invece devo, lo volete capire? Io, anche se non vi scomparisco, non vi posso dare né consiglio di parola, né aiuto di fatto. Fate, fate il caso che queste tali contrabbandere femminote hanno veramente barca e s’imbarcano, potrebbe pure succedere allora che nella mente eccentrica gli salta il ticchio di favorirmi: questo ticchio però, potrebbe saltargli solo nel caso che mi vedono uno, unitto.”

Quella di D’Arrigo è una lotta, un viaggio, che comincia e termina in mare, l’importante è arrivare alla fine senza affondare: e se voi siete arrivati alla fine di questo Mese d’Autore, non è detto che non possiate intraprendere il metaforico viaggio della lettura di quest’immenso romanzo che – forse – potrebbe lasciarvi qualcosa dentro. A me, lo ha lasciato.

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