Sul virus libresco e l’identificazione romanzesca

La figura di Emma Bovary è stata spesso paragonata insistentemente da molti critici – come Thibaudet e Lukács – al don Chisciotte di Cervantes, datato 1605. Come e prima di Emma, infatti, don Chisciotte è affetto dal virus libresco: a causa di un’appassionata e attenta lettura dei vari volumi che possiede, Don Chisciotte decide di divenire cavaliere errante, prendendo a modello Amadìs de Gaula, e di eguagliare le gesta compiute dai personaggi dei suoi libri. La lettura agisce da mediatrice, suscitando desideri.

René Girard spiega – in Menzogna romantica e verità romanzesca – la nozione di desiderio triangolare, schema psicologico rintracciabile in molti testi letterari. Solitamente, il desiderio spontaneo è dato da una linea retta che collega il soggetto appassionato all’oggetto che appassiona. Ma, talvolta, questa linea non è sufficiente: subentra, allora, attraverso la metafora geometrica del triangolo isoscele, il mediatore, posto al di sopra del soggetto e dell’oggetto. Nel caso di don Chisciotte, che desidera la gloria cavalleresca, è Amadigi colui che sceglie per il cavaliere; mentre i desideri di Emma, quali amore e felicità, sono mediati dai romanzi e dalle illusioni che questi conferiscono: il mediatore suscita, allora, negli eroi il desiderio secondo l’altro e «si fa dunque sempre più intenso a mano a mano che il mediatore si avvicina al soggetto che desidera» (Menzogna romantica e verità romanzesca – Girard).

La maggiore o minore distanza fra soggetto e mediatore determina il tipo di mediazione: esterna, quando il contatto è impossibile (come quello fra don Chisciotte e il leggendario Amadigi), e mediazione interna, quando le distanze fra i due si accorciano. Occorre sottolineare che il desiderio, stimolato dal mediatore, è sempre desiderio di essere un altro. Gli eroi romanzeschi desiderano cambiare essere, come Emma Bovary che da mediocre borghese di provincia sogna di appartenere ad un’altra classe sociale ed essere come le eroine dei libri, ripugnando il suo stato.

«Lei, come Don Chisciotte e Amleto, sintetizza nella sua personalità tormentata e nella sua mediocre vicenda, un certo atteggiamento esistenziale permanente, capace di manifestarsi sotto le spoglie più diverse in varie epoche e vari luoghi, e che, universale e duraturo al contempo, rappresenta uno dei più ricorrenti aneliti dell’umanità, da cui sono derivate tutte le imprese e tutte le catastrofi dell’uomo: la capacità di fabbricare illusioni e la volontà di concretizzarle» (L’orgia perpetua: Flaubert e Madame Bovary – Vargas Llosa).

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Nel panorama letterario, Emma e don Chisciotte sono l’emblema di chi, leggendo, rimane talmente influenzato dal testo da non riuscire più a distinguere fra realtà e immaginazione. L’identificazione romanzesca viene inserita da Foucault tra le forme di follia che crescono durante l’epoca classica:

«Le chimere si trasmettono dall’autore al lettore, ma ciò che da un lato era fantasia, dall’altro diviene fantasma; l’artificio dello scrittore è accolto in tutta ingenuità come un aspetto della realtà. In apparenza tutto questo è soltanto la critica facile dei romanzi d’invenzione; ma, un po’ più in profondità, c’è tutta una inquietudine sui rapporti tra realtà e immaginazione nell’opera d’arte, e forse anche sulla torbida comunicazione che esiste tra l’invenzione fantastica e gli incantamenti del delirio» (Finzioni occidentali – Celati).

Ma «Don Chisciotte e Emma Bovary non sono gli unici a vivere la loro vita nello specchio delle loro letture» (Leurs yeux se rencontrèrent – Rousset). Il virus libresco non si limita a contagiare i personaggi di finzione, ma anche i lettori: il morbo estende «il proprio potere non solo dai libri verso altri libri, ma anche dai libri verso la vita, e dunque dai personaggi verso i lettori». (L’avventura del personaggio – Stara).

Il dibattito sulla lettura si sviluppa intorno al XVIII secolo, quando ci si comincia a domandare se sia salutare leggere romances poiché il romanzesco «definisce uno stato d’incoscienza, l’essere fuori di sé come condizione di chi è fuori dalla famiglia» (Finzioni occidentali – Celati). In Inghilterra, dal 1700, ci si focalizza sulla divisione fra novel, forma romanzesca moderna di tipo realistico, e romance, forma romanesca pre-moderna:

«Il romance è una storia eroica che tratta di persone e cose straordinarie. Il novel è una rappresentazione della vita, delle usanze reali ed anche dell’epoca in cui è stato scritto. Il romance, con un linguaggio nobile ed elevato, descrive ciò che non è mai accaduto né potrà mai accadere. Il novel fornisce un resoconto familiare delle cose che accadono ogni giorno davanti ai nostri occhi, cose che potrebbero accadere ad un nostro amico o a noi stessi; la sua eccellenza consiste nel descrivere ogni scena in modo tanto facile e naturale e nel farla sembrare così probabile da illuderci persuadendoci (almeno mentre stiamo leggendo) che tutto sia reale, al punto che siamo coinvolti nelle gioie e nei dolori dei personaggi della storia come se fossero nostri» (L’avventura del personaggio – Stara).

Con la nascita del novel, dunque, si prova a controllare la passione romanzesca attraverso la narrazione di fatti realistici, «storie quasi vere di individui quasi autentici» (L’avventura del personaggio – Stara), e tramite l’inserzione della prefazione, il cui presupposto è quello di non invitare ad un’identificazione romanzesca, bensì a ripudiarla. L’obiettivo del novel è quello di portare alla conoscenza del vizio e della virtù quale massima prova di consapevolezza. Anche lo statuto di personaggio muta: si tende a creare personaggi – Celati li chiama «singolarità empiriche non generalizzabili» – che appartengono anche alle classi più umili e che «hanno vissuto avventure ai margini della norma del vivere comune, spesso anzi decisamente al di fuori di essa, criminali o scandalose» (L’avventura del personaggio – Stara). I personaggi si stabiliscono in un territorio che non è più quello del romance eroico cinque e seicentesco, ma quello di una fantasia di natura ben più familiare, che sembra raccontare storie che a chiunque, fra i lettori, sarebbero potute accadere identiche, o quasi. Infatti, queste singolarità empiriche sono degli everymen che provengono dal «fuori» e dal «basso» tanto che il lettore non soltanto vi si può immedesimare, ma anche provare simpatia nei loro confronti. Il novel stabilisce un contatto fra il dentro, la famiglia, e il fuori, la realtà pericolosa che c’è oltre la famiglia e la società, lo spazio dove circolano le intensità libere: qui Celati ritrova il romanzesco, visto come «designazione dell’incoscienza, dell’essere fuori di sé» (Finzioni occidentali – Celati). Ci si può, dunque, domandare se il novel riesca a fuggire il romanzesco e la risposta è negativa perché se il novel amplia la distanza tra realtà ed esperienza estetica, può anche «rendere praticabile un rovesciamento funzionale del romanzo stesso, che può rivestire un ruolo di preorientamento, anticipare l’esperienza reale o scontrarvisi in virtù di un potere di seduzione di cui Cervantes ha fornito l’archetipo» (La cultura del romanzo – Moretti).

Già intorno al 1750, la critica letteraria tende a discostarsi dal novel, considerandolo non un genere, a new species of writing, ma «un mélange, une confusion, dont l’essence est précisément d’être ce mélange et cette confusion» (L’avventura del personaggio – Stara) e verso la fine del Settecento, i romanzi cominciano a trasformarsi e ad essere considerati non più strumenti di perdizione, bensì oggetti letterariamente singolari. Il terreno fertile del romanzo moderno è, secondo Benjamin, l’isolamento dell’individuo e la perdita d’esperienza (in cui esperienza significa proiettare nel futuro qualcosa che è stato valido nel passato): le narrazioni orali permettevano uno scambio diretto d’esperienza tra gli individui e uno scambio di consigli, ma nell’Ottocento la perdita d’esperienza «acquisisce i contorni storici della «grande noia», e il plot romanzesco comincia a svolgere compiti di vera e propria manutenzione simbolica del sistema sociale» (La cultura del romanzo – Moretti).

La genesi del romanzo e la perdita d’esperienza sono strettamente collegate fra loro poiché il lettore della modernità, trovandosi in solitudine, viene sollecitato alla lettura, spinto a immedesimare le caratteristiche dei personaggi. Il mercato letterario si espande, divenendo un manufatto culturale che negozia identità sociali a modico prezzo, il numero dei lettori s’accresce e così anche la diffusione europea di casi di illusione romanzesca. Della natura del lettore ne parla Albert Thibaudet in Le liseur de romans distinguendone due tipi: il primo è il liseur de romans che possiede «un goût et l’habitude d’en lire sur la mesure dans laquelle ce goût devient une passion humaine, analogue aux passionns humaines qu’analyse le roman» (Le liseur de romans – Thibaudet), mentre il lecteur de romans implica «un simple contact accidentel» con il libro. Il liseur de romans «c’est celui pour qui le monde des romans existe» (Le liseur de romans – Thibaudet), un viveur de romans soggetto all’identificazione romanzesca. Vi sono diverse documentazioni di patologie letterarie, più o meno gravi tra il XVIII e il XIX secolo: tra queste, la Wertherfieber e il bovarismo. Per ciò che concerne «l’effetto Werther» ci si riferisce ai numerosi suicidi avvenuti dopo la lettura del romanzo epistolare di Goethe, I dolori del giovane Werther: ad Halle, una copia del Werther, fu trovata nelle tasche di un apprendista calzolaio che si era suicidato; a Weimar, Christel von Lassberg, credendo di essere stata abbandonata dall’uomo che amava, si getta in un fiume, sempre tenendo la copia del libro con sé. Anche in Italia, «l’effetto Werther» non tarda ad arrivare: nel 1816, il governo austriaco si avventa contro la «nocevole lettura dei romanzi» (La cultura del romanzo – Moretti) e nello stesso anno un censore veneto parla di suicidio alla Werther, menzionando il suicidio di un ragazzo di dodici anni, il cui corpo fu ritrovato accanto al libro. Il bovarismo, di cui si è parlato sopra, contagia anche i lettori e soprattutto le lettrici, dando origine a una de-finzionalizzazione del testo flaubertiano. L’autore, non soltanto fu processato, ma ricevette moltissime lettere in cui le lettrici rivendicavano l’essere Emma Bovary. Nel ‘900, invece, un caso di intossicazione letteraria viene menzionato da Guido Gozzano: un pastore della Val di Susa, nel 1911, si macchia di un delitto.

In conclusione, l’identificazione romanzesca contagia anche il liseur de romans, che scambia le parole contenute nei libri e le cose della realtà: Emma Bovary, degna erede di don Chisciotte, ha dato vita a un caso letterario che si è esteso anche al di fuori del testo. D’altronde Flaubert, in una lettera del quattordici agosto 1853 a Louise Colet lo aveva già immaginato: «Tutto ciò che si inventa è vero, puoi starne certa. La poesia è una cosa precisa come la geometria. […] Probabilmente la mia povera Bovary, in questo stesso istante, soffre e piange contemporaneamente in venti villaggi francesi».