Sulle tracce dei CIE: biopolitica, campi e diritti umani

All’inizio furono i CPT, poi sono stati i CIE: a tutti gli effetti centri di reclusione per gli individui stranieri sprovvisti di un regolare titolo di soggiorno. In Italia, queste strutture, hanno segnato l’avvio dello stato di detenzione amministrativa – un’espressione neutra e depoliticizzata – che indica un regime di privazione della libertà per chi ha violato una disposizione amministrativa, e non ha commesso un reato penale. Essi non sono inItalia gli unici luoghi di confinamento dei migranti: CARA, CPA, HUB e HOTSPOT si basano sugli stessi principi, cioè privare del diritto alla libertà – anche solo di movimento. Questa condizione di reclusione può durare fino a diciotto mesi. Oggi il dibattito sui CIE è stato rinvigorito dalla prospettiva di intensificare il loro numero e riaprire quelli chiusi, tra cui quello di Bologna, a causa di un’emergenza dovuta alla presenza di immigrati irregolari che creano un (presunto) problema di sicurezza sociale.
L’uso ossessivo del tema della sicurezza nei dibattiti pubblici è evidente e spesso mistifica i fatti e contribuisce a creare proprio ciò che evoca, consentendo, dall’altro lato, la messa in atto di dispositivi di controllo e repressione che incidono sui diritti e sulla libertà di molti.
In un mondo globalizzato in cui rivendichiamo continuamente la libertà di movimento e di scambio, l’altro lato della medaglia ci mostra, infatti, l’ossessione per il confine, per la cittadinanza e per la sicurezza.
I CIE italiani erano originariamente quindici e sono stati progressivamente chiusi per problemi umanitari, oggi ne sono rimasti in attività solo cinque. In Europa ne esistono attualmente circa duecento e sono sorti in concomitanza con la creazione dello spazio di libera circolazione Schengen. Mentre si aprivano le frontiere interne, si investiva nella difesa di quelle esterne e nell’intensificare la distinzione tra i cittadini europei e quelli extra-europei. Oggi la tendenza diffusa in tutta l’Unione Europea è quella di diminuire i motivi per cui un migrante può ottenere una forma di protezione e aumentare i rimpatri forzati per chi non riesce ad ottenerla.
Il rilancio di una filosofia securtaria fa però parte di una strategia di governo più ampia, visto che l’esperienza passata ci ha mostrato come queste strutture, create per il rimpatrio degli irregolari, non hanno prodotto nessuno dei risultati attesi. In diciotto anni di attività, esse hanno inciso in maniera così insignificante sull’aumento della sicurezza pubblica da rendere ingiustificabili i costi necessari al loro mantenimento. Va ricordato, infatti, che per il rimpatrio dei migranti irregolari occorre che ci siano degli accordi bilaterali con il paese d’origine degli stranieri, ma tranne rarissimi casi, questi accordi non esistono e la detenzione amministrativa degli irregolari si protrae per tempi infinitamente più lunghi di quelli legali fino a risolversi nel nulla, con il rilascio della persona detenuta.
Se ad oggi queste misure di contrasto non hanno arginato il problema, ma creato solo esclusione ed emarginazione, da quali esigenze nasce la necessità di rinchiudere chi viola i confini del proprio stato? Di quali premesse necessita l’esclusione di un gruppo di individui dalla vita collettiva e dal sistema dei diritti che uno stato dovrebbe garantire anche a chi è straniero?

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Per capire le logiche messe in atto dalle politiche di sicurezza a cui fanno capo anche i CIE, bisogna andare indietro di un po’ e confrontarci con alcuni dei concetti chiave della politica contemporanea che permettono di avere una visione piú ampia, soprattutto per quanto riguarda la razionalità politica che sorregge le dinamiche dell’esclusione e dell’inclusione.
É nel periodo moderno, intorno al XVII secolo che si vedono emergere, infatti, nuove forme di potere dedicate all’amministrazione delle vite e dei corpi, le quali includono nelle pratiche politiche, oltre all’aspetto sociale, anche l’aspetto biologico della vita. Tali forme di potere sono state definite “biopolitiche”, termine che indica appunto una politica in cui è implicata la vita.
Nel corso dell’età moderna alcuni tratti biologici della vita umana diventano oggetto di interesse del potere: gli Stati moderni iniziano ad orientare la loro politica economica anche in base agli effetti che produce sull’aumento demografico, sulla salute della popolazione e sulla sua produttività lavorativa. Questo nuovo modo di fare politica si sviluppa in relazione all’esigenza di tutelare e promuovere la vita. Il termine biopolitica inizia ad essere utilizzato già a partire dagli anni Venti del Novecento, con l’obbiettivo di indicare l’orizzonte in cui si fondono l’aspetto biologico e politico, ma con gli anni l’utilizzo di questo termine si fa molto più ampio e poliforme.
La biopolitica come politica della vita si manifesta, nel suo aspetto più evidente, in maniera affermativa: attraverso il controllo degli aspetti biologici umani la politica riesce ad espandere, modificare e migliorare il tenore di vita delle popolazioni. Accanto a questa forma affermativa della biopolitica ne esiste però una negativa: ovvero la politica della vita contiene sempre in sé la minaccia di trasformarsi in opera di morte; la biopolitica si trasforma in tanatopolitica quando accanto a una vita da preservare e proteggere in ogni suo aspetto, pone un tipo di vita che può essere sacrificata in nome della prima.
Oggi l’individualizzazione politica dei soggetti è costellata da un’infinità di definizioni per etichettare individui o gruppi che non possono essere inclusi nella categoria di cittadino. Ad ognuna di queste definizioni è spesso possibile associare un luogo: rifugiati, richiedenti asilo, nemici combattenti, clandestini, migranti e profughi sono quasi sempre destinati a luoghi d’eccezione, zone (definitivamente) temporanee, centri di permanenza temporanea, centri di identificazione ed espulsione, campi di prigionia, ecc…
Il campo appare oggi come spazio biopolitico e paradigma nascosto di gran parte della politica securtaria contemporanea. Quella sui campi è una riflessione su ciò che si riconosce come esterno, escluso rispetto ad un ordinamento e che, proprio per questo, attraverso la sospensione degli ordinari strumenti del diritto – secondo una possibile etimologia del termine (excapere) – viene presa fuori e, allo stesso tempo, incluso attraverso la sua stessa esclusione .
Il campo è lo spazio qualunque caratterizzato dal fatto di non avere caratteri distintivi, esso è contrapposto alla comunità e ne rappresenta il fuori, il non-luogo dell’ordinamento giuridico, che tuttavia non è esterno ad esso. Il campo rappresenta il tentativo di inclusione dell’eccezione all’interno dell’ordinamento, proprio attraverso l’esclusione. L’individuo che passa per il campo diviene soggetto di un bando e ridotto a mera esistenza biologica, così come gli abitanti dei CIE.
Un’altra linea genealogica, diversa da quella descritta fino a ora, pone il campo in relazione agli spazi coloniali: esso viene visto come un’interiorizzazione dentro il territorio europeo delle pratiche coloniali. Le colonie hanno rappresentato il fenomeno giuridico attraverso il quale il razzismo istituzionale europeo si è potuto presentare come costituzionalmente compatibile con la politica democratica dei diritti umani.

Graffito di Banksy sui migranti, a Londra

Graffito di Banksy sui migranti, a Londra

Secondo le tesi di un sociologo contemporaneo, Etienne Balibar, il colonialismo europeo non è cessato con la decolonizzazione, ma ha mutato forma spostandosi dall’esterno dello spazio politico verso il suo interno.
La storia dei campi è anche una genealogia dell’umanità in eccesso. Il ricorso a queste forme di esclusione avviene sotto le fattezze di dispositivi legittimati da ragioni di sicurezza. Essi rappresentano la soluzione al problema della collocazione di uomini il cui status sconfina l’ordine giuridico e politico del territorio sul quale si trovano.
Analizzare questi spazi e il modo di operare del diritto al loro interno, significa anche confrontarsi con l’idea astratta dei diritti umani e con la loro reale applicazione. L’assunto che esistano dei diritti fondati sull’esistenza umana in quanto tale viene a cadere nel momento in cui si constata che esistono uomini che non hanno altra qualità che quella di essere umani e che, nonostante ciò, non rientrano tra le categorie di individui i cui diritti fondamentali vengono tutelati.
Le migrazioni di massa e le emergenze umanitarie mostrano come il concetto di diritti umani sia legato alle frontiere e alla cittadinanza, a una dimensione inclusiva che oggi risulta fortemente in crisi. I CIE si rivelano soglie d’eccezione dove viene confinata un’umanità che non può essere inclusa, ma neppure negata, uomini a cui non possono essere realmente concessi i diritti connessi alla cittadinanza e all’appartenenza a un territorio, ma che non sono nemmeno dei criminali soggetti a pene detentive e spesso non è possibile nemmeno rimpatriarli.
Il campo nasce come sistema di controllo e spazio dove collocare i non-cittadini, questo processo prende avvio proprio nel periodo tra le due guerre, in un momento in cui si attua lo sconvolgimento delle frontiere, il sorgere di nuove patrie e l’emergere di un gran numero di minoranze che non riescono sempre ad essere ricomprese all’interno di questi confini. È rilevante evidenziare come le leggi sulla denazionalizzazione, promulgate da vari stati appena prima della Seconda Guerra Mondiale, siano contemporanee alla creazione dei primi campi in Europa e siano sintomatiche della rottura del vecchio nomos globale e della nascita di nuovi ordinamenti spaziali.

epa04505610 A view of Schengen's sign in the village of Schengen, Luxembourg, 14 October 2014. EPA/NICOLAS BOUVY

Il fattore che oggi accomuna forme diverse di campo è l’urgenza e – teoricamente – la temporaneità. Essi sono un nuovo assetto spaziale, in cui abitano quei corpi – in senso biopolitico – sociali che, in misura crescente, non possono più essere inclusi nell’ordinamento normale. Interrogarci oggi sul campo significa anche riaprire la ricostruzione storica dell’esperienza coloniale. L’ordinamento coloniale rappresentava, infatti, la frattura dello Stato come unità territoriale e giuridica, così come oggi questi centri rompono tale continuità degli Stati democratici.
Dietro i soggetti che riempiono i campi si nasconde una figura sovversiva. L’immigrato clandestino porta lo stigma del confine che viola, il rifugiato e il richiedente asilo trascina con sé il contesto di guerra civile da cui proviene, il terrorista è una minaccia per l’ordine democratico, ecc… Dietro la figura dell’individuo passibile di essere recluso in un campo vi è quella del nemico, di colui che si ribella all’ordine e lo minaccia.
È facendo leva sull’idea comune di questa figura minacciosa e sovversiva che i poteri, in nome della pubblica sicurezza, alimentano l’odio razziale e la guerra tra poveri con delle non-soluzioni repressive che la storia ha già mostrato come inutili.

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