Sull’utilità di Emmanuel Lévinas proprio in questi giorni


Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo, e l’epifania del volto coincide con questi due momenti. O l’uguaglianza si produce là dove l’Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità; o l’uguaglianza non è che un’idea astratta e una parola.
Emmanuel Lévinas, Totalité et infini, 1961.

Tra le poche certezze a cui tengo e che dunque mi impegno a mantenere salde, ovvero vive, vi è questa: la teoria è una forma di pragmatica. Intendo dire che ciò che io elaboro come speculazione è legato al mondo delle azioni e delle interazioni a tre mandati: esso viene dal mio stare al mondo; è visione del mondo; ritorna al mondo in una qualche forma di lavoro. Il lemma stesso lo suggerisce, significando nel proprio etimo greco il ‘porsi come spettatore’. Spettatore, ovverosia, di ciò che accade in quanto accade e nella cui dimensione anche il mio pormi a osservare è uno stare tra le cose, è un accadere e, dunque, un agire continuo. Va da sé, non vi può essere teoria senza un mondo di cose che succedono.  Non è questo il tema della riflessione che qui condivido: questo è ciò che mi ha spinto a scrivere.

Quando, il 13 novembre scorso, a Parigi sono successe le cose terribili che tutti conosciamo, la mia reazione è stata quella di non scrivere, non commentare, ma di ritirarmi piuttosto a leggere. Leggere e riflettere, al fine di radunare gli strumenti per farmi osservatore: per fare teoria, dunque. Molte manifestazioni di dolore sono banali, nel senso più puro della parola. Esse, ovvero, seguono la norma, la consuetudine. Ma una strage come quella di Parigi non può essere accettata all’interno della norma di vita e, dunque, non le è sufficiente la banalità del dolore. Vi è un lungo elenco di reazioni banali ai fatti, ne cito alcune: paura, sconcerto, rabbia, dolore, dispiacere, rassegnazione, violenza. La solidarietà, forse, ancor più. Sono banali perché sono reazioni passive, seguenti cioè il fatto scatenante come norma che dispone lo stare al mondo degli individui. Ho tentato di evitare la banalità e ho provato a teorizzare, avendo ben chiaro sin da subito, e ci tengo a specificarlo, che la parola ‘banale’ non è qui affatto connotativa, ma semplicemente – e banalmente, appunto – descrittiva, nella propria realtà etimologica. L’unica via, allora, mi era sembrata quella della teoria. Ma la teoria, per riprendere lo spunto iniziale, vive nella pragmatica e mi appare come l’unica strada percorribile per non reagire ma agire: farsi osservatori del mondo per tornare al mondo non come individui normati, quanto normanti e dunque pro-ponenti una prospettiva e un’azione concreta, esse stesse essenzialmente e primariamente interazione politica. Per fare teoria fino in fondo, allora, ho dovuto abbattere la mia ritrosia e pronunciarmi, per restituire come tentativo di azione quanto lo spettacolo del mondo mi ha offerto. Ci proverò con questo articolo.

Alcuni gridano allo scontro di religione mentre altri, ampliando, a quello di civiltà. Per qualcuno le ragioni sono invece socio-economiche. Taluni sostengono che gli occidentali un po’ se lo siano meritati. Molti hanno preso la palla al balzo per accusare l’ipocrisia borghese, che si scandalizza se si muore entro i confini del Primo Mondo, ma è poi del tutto assuefatta alla morte al di là di essi. Esistono forse figli e figliastri, quando si muore? Certamente no. Eppure, se fare teoria è innanzitutto uno stare nel mondo, non si può non considerare la differenza di prospettiva, ovvero il luogo spaziotemporale di quello stare, da cui si osserva. Quella differenza sta nella prossimità culturale e identitaria. E ci offre l’occasione per fare una cosa difficile, tremendamente difficile e che l’essere umano è sempre tentato di evitare: vedere l’altro. E l’altro si può vedere solo se ci tocca, se ci colpisce nella prossimità. Chi vive altrove è l’altro, sì, ma lo è in una distanza che non consente un’interazione viva e per ciascuno al contempo individuale e collettiva, esistenziale, concretamente politica. Ecco allora la grande opportunità che gli attentati di Parigi ci offrono. Opportunità, aggiungo, che tutte le altre stragi in giro per il mondo non ci possono offrire, ma che anche in quei contesti, una volta sfruttata, può esserci preziosa per una rinnovata interazione politica. L’opportunità dell’altro. Quando ho iniziato a riflettere su questi punti, mi è stata veramente preziosa la rilettura di Emmanuel Lévinas, che costituisce il cuore di questo discorso e anche una proposta di lettura, che faccio a chi mi sta leggendo.

LevinasDialogueComplessa è stata la formazione di Lévinas, così come la sua vita. Nato nel 1906 in Lituania, ma di origini ebraiche, il filosofo, che diventerà poi un monumento del pensiero in Francia, forma la propria sensibilità tra lo studio tradizionale della Torah e la sua grande passione per Dostoevskij, che integrerà poi con autori contemporanei come Proust e con lo studio, fondamentale, di Martin Heidegger. Prima della guerra si avvicinò agli ambienti della fenomenologia e strinse amicizie importanti, per esempio con il visionario Maurice Blanchot. La Seconda Guerra Mondiale non gli risparmiò grandi tribolazioni, che lo videro prigioniero di guerra in Germania e internato con misure speciali in quanto ebreo, pur ricevendo particolari attenzioni per la sua conoscenza del russo. Da questa esistenza, che nella maturità poté poi spendersi nel mondo accademico francese ed europeo, si plasmò un pensiero essenzialmente etico.

Il suo dialogo più serrato fu senza dubbio con l’esistenzialismo. Con il classico Kierkegaard, innanzitutto, ma poi soprattutto con Martin Heidegger, sin dagli studi del 1948 De l’Existence à l’Existant e Le Temps et l’Autre. L’Autre, l’Altro. Ecco, lo vediamo subito, il cuore del pensiero di Emmanuel Lévinas. Scrivevo prima di un pensiero etico: per Lévinas, ebbene, è l’etica la filosofia prima (Éthique comme philosophie première, 1982). Egli attua un duplice rovesciamento del pensiero tradizionale. Da una parte, leggendo e tentando di superare Heidegger, pone l’etica in luogo dell’Essere, alle radici di ciò che la filosofia deve ricercare. Dall’altra, inverte il senso di marcia, per così dire, del razionalismo e dell’idealismo, destituendo l’io dalla propria posizione legittimante il mondo, ovvero il non-io, e eleggendo piuttosto questo non-io, che è sempre l’Altro, a costituente della possibilità dell’io di conoscersi. Cercheremo di rendere l’enunciato più chiaro e di legare i due ‘rovesciamenti’, al fine di lasciar emergere la bellezza del pensiero di Lévinas. Per il filosofo la differenza tra me e il mio prossimo è incolmabile. L’assunto da cui è necessario partire è proprio questo: la drammaticità  del solco che mi divide dal mondo. Questo fossato è invalicabile e mi isola da chiunque altro, mi rende solo nella mia propria esistenza. Eppure. Eppure la percezione di questa distanza, di questa frattura con il mondo, è l’unica via per l’enunciazione dell’io. L’io può conoscersi solo perché si ri-conosce attraverso l’alterità da ciò che gli si approssima. La totale diversità dell’altro riflette all’io il proprio sé. Ciò vuol dire che siamo tutti diversi, ma anche che siamo tutti assolutamente identici dinnanzi al nulla che ci divide. Un vero e proprio solco di nulla, di non-essere, serpeggia tra le singole individualità. E ciascuno è restituito a sé attraverso il riflesso di questo vuoto. E’ quel luogo di frattura e di passaggio, per Lévinas, il dominio di Dio: è in quella negazione misteriosa che le cose sono e si dispiegano al mondo, piene della propria assoluta libertà. Dio è il garante di questa libertà, perché è il ‘sempre-altro-da’, pura alterità che non si compromette mai con le singolarità ma che consente loro, mediante quel processo di restituzione, di essere e conoscersi. Dunque vi è una dimensione ontologica, certo, ma che è subordinata a quella etica. Dove si colloca, qui, l’etica? Nella reciprocità. Perché non solo il mio prossimo mi è altro ed è il mio baratro, ma così io sono per lui. Dunque chi mi si pone dinnanzi ha l’enorme responsabilità della mia esistenza di individuo e io della sua, poiché possiamo essere in noi stessi solo in virtù dell’altrui essere al mondo, qui e ora. L’alterità inconciliabile è allora responsabilità esistenziale e amore puro, poiché è puro donare all’altro la legittimità a essere un io. E’ una metafisica dell’amore, quella di Emmanuel Lévinas, una teologia dell’amore.

Lévinas mi è stato allora molto utile, in questi giorni. Trovo che la sua riflessione, che io ho indebitamente ridotto in queste poche righe, possa indicarci il sentiero per una possibile maturazione della nostra civiltà e per cogliere l’opportunità e la sfida che i drammi che ci sconvolgono in queste settimane, tragicamente, ci offrono. Teorizzare con Lévinas, muoversi dal mondo e per il mondo con il suo pensiero, può darci la preziosa possibilità di rapportarci in modo finalmente sano con le altre civiltà con le quali conviviamo. E sano, qui, vuol dire etico e amorevole. Ciò non significa caritatevole, accogliendo con paternalismo l’altro e accettando come innocue e ininfluenti le sue differenze. Né può voler dire cancellare dall’alto tradizioni e motivi culturali in nome del rispetto di differenze che, così facendo, non esisterebbero più. Questo è quel che finora si è fatto, anche e soprattutto dalle frange più aperte e progressiste della nostra cultura. Perché, vedete, accogliere l’altro -scriviamolo pure con la maiuscola, l’Altro – con la pacca bonaria di chi dice “siamo uguali” è un’azione di violenza inaudita, poiché lo riduce a copia o appendice, lo priva di dignità, uccide il suo proprio sé. E la violenza chiama violenza. Lévinas può insegnarci invece che l’Altro, il mio concittadino di altra cultura per esempio ma non solo, è atrocemente e inconciliabilmente differente da me e che nessuno mio sforzo lo renderà come me; può suggerirci il timore sacro e rispettoso della sua profonda alterità e la necessità di arrenderci alla nostra impotenza. Ma, in questo spazio di vuoto, può darci la possibilità di cogliere la grandezza e la ricchezza di questo ignoto che ci troviamo davanti, ciascuno di noi, e di essere grati. Dobbiamo ringraziare, ecco, l’alterità irriducibile dell’Altro – e viceversa-, poiché è in virtù di essa che possiamo pronunciare i fragili pronomi “io”, “noi”. I fatti di Parigi, allora, ci risvegliano dal torpore che ci ha avvolti, dalla comoda lusinga di considerarci tutti la stessa cosa e storia finita. Questi fatti drammatici ci urlano di farci finalmente carico sulle spalle della gravità della particolarità dell’Altro, in tutta la sua dignità. Solo così avremo restituita anche la nostra, di dignità. Solo così potremo sperare in un autentico vivere insieme.


In copertina, un'opera di Lucio Fontana.

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