T2 Trainspotting: recensione di una merenda dal retrogusto amaro

Se T2 Trainspotting  fosse un gelato,  sarebbe il classico biscotto bi-gusto panna e cioccolato. Quello sottomarca, che la mamma comprava al posto degli Algida.

Non parlerò della trama di questo film, come generalmente si conviene alle recensioni di spessore, perché in fondo della trama non frega niente a nessuno. E credo non freghi niente nemmeno a Danny Boyle. Mark Renton torna a casa dopo vent’anni e questo ci basta. «Ciao Mark, che hai combinato…in questi vent’anni?» (Simon)Trainspotting2Poster

Non ci importa sapere chi sia diventato  dopo essere fuggito con i soldi, che fine abbia fatto Begbie, o se Spud abbia continuato a “spassarsela con la gente a spasso”, e nemmeno se Sick Boy si sia deciso o no a cambiare colore di capelli. Non vogliamo vederli invecchiati, ripuliti, divorziati, impanzati, normali.

Non ci interessa perché Trainspotting è una storia bella che conclusa. Un affresco di giovinezza sregolata e tempi ormai andati che non necessita di didascalie o note a piè di pagina. Trainspotting non ha bisogno di un seguito, ma il seguito ha un bisogno disperato di lui. Mi spiego meglio. Trainspotting è gli anni ‘90: l’eroina, Iggy Pop, ancora eroina, i leggings e le canottiere improbabili, la ribellione, e ancora eroina.

Gli anni ‘90 non avevano bisogno di noi, di Snapchat o delle storie di Whatsapp, ma noi abbiamo urgenza di loro, di George Best e del videonoleggio. Simuliamo Snake su un IPhone da quasi mille euro, scimmiottiamo i paninari e i loro giubbotti di jeans imbottiti, rimpiangiamo quel passato così autentico nascosti dietro un account Twitter.

Ho definito T2 Trainspotting un biscotto bi-gusto. Non solo perché è una bella frase a effetto di apertura, ma anche perché esso viaggia su due binari paralleli (tanto per rimanere in tema). La destinazione? La nostalgia, ovvio. Una tenaglia che stringe il nostro immaginario, lo avvita all’infinito intorno allo stomaco, senza mai arrivare al punto di arresto. trainspotting2-1

Il primo binario è quello genealogico: Trainspotting figlio non fa che richiamare il colosso paterno, il vero cult, la vera pietra miliare. La baby pellicola è in sostanza un tributo al suo antenato del secolo scorso. Una scena su tre è un flashback del primo film e anche quando i personaggi si trovano nel presente, non fanno che parlare del passato, di ciò che era, aggrovigliandosi nella rete dei ricordi. Quei ricordi di pece che imbrattano le loro esistenze e le imbrigliano nel viscoso labirinto paralizzante della nostalgia. La continua ripresa non è celata ma esaltata, a volte fino al vomito. Un’overdose di ciò che fu, di angoscia e urgenza di evasione. Un’evasione che si plasma anche attraverso la droga, ma è principalmente nel ricordo e nella memoria che trova espressione. Il rancore è linfa vitale che anima i personaggi, ormai svuotati da una vita cui hanno tentato di ribellarsi, che hanno provato a riempire, ma che alla fine li ha divorati pezzo per pezzo. t2-trainspotting-2-renton-begbieDa buon prolungamento di un prodotto del ‘900, T2 Trainspotting  è la celebrazione dei vinti, del disagio. Perdono tutti, in un modo o nell’ altro. Il passare del tempo, le rughe ispessite sul volto, il dramma dell’ impotenza sessuale e fattuale  sono sale sulla ferita. Il vuoto si fa strada nei protagonisti, ora più consapevoli ma non meno persi.   

«Simon: Chiama la polizia. 

Diane: E che devo dire? 

                                                                                                                    Simon: Che siamo morti.»

Il secondo binario è quello sociologico: Trainsotting era la sintesi del disagio degli anni ’90, lo specchio in cui guardarsi e commiserarsi. T2 Trainspotting  tenta la stessa operazione con gli anni 2000. Inserisce gli smartphone, Snapchat, internet. Tutto è tragicamente al suo posto, tranne l’elemento umano. Quel quarantenne o poco più che si trova a passeggiare per strade che non gli appartengono, a farsi largo in un mondo che non è suo perché in fondo forse nemmeno vuole che lo sia.
L’avanzare del tempo divora gli ultimi brandelli di autenticità, lasciandoci inermi e piccoli a raccogliere gli scarti di un ricordo per anestetizzare l’ansia e l’angoscia. E allora cerchiamo rifugio in quel passato prossimo, più autentico, più reale.schermata_2016-11-04_alle_112004_png_1003x0_crop_q85

«Scegliete la vita. Scegliete Facebook, Twitter, Instagram, e sperate che a qualcuno da qualche parte freghi qualcosa. Scegliete di cercare vecchie fiamme, desiderando di aver agito diversamente. E scegliete di osservare la storia che si ripete. Scegliete il futuro. Scegliete i reality show, lo sputtanamento, e la diffusione dei porno. Scegliete un contratto a zero ore, un tragitto casa-lavoro di due ore e lo stesso per i vostri figli, e alleviate il dolore con una dose sconosciuta di una droga sconosciuta fatta nella cucina di qualcuno. E poi, fate un respiro profondo. Siete dei tossici? Allora fatevi! Ma fatevi di qualcos’altro. Scegliete le persone che amate. Scegliete il futuro. Scegliete la vita.» (Renton)

T2 Trainspotting è un film che si trascina sulle macerie di suo padre, un po’ come i figli d’arte che rinnegano di avercela fatta grazie al cognome importante, ma poi non possono fare a meno di sfoderarlo per riuscire a saltare la fila nei locali. T2 Trainspotting salta la fila a piedi pari e sbanca prepotente il botteghino: è atteso, è la star.

È un prodotto commerciale che gioca sull’angoscia e la nostalgia. Prova però ad elevarsi dal comune Blockbuster, a risalire la china, evocando la sensazione che dietro la trama stanca che si trascina per due ore, ci sia anche una trama sottesa, psicologica, interna, silente ma grossa.

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