The bluest color: Marc Chagall

Tra tutti i blu usati in storia dell’arte durante il corso del Novecento, ce n’è uno che è di gran lunga il mio preferito. A vederlo dal vivo si potrebbe intuire il perché: è un colore intenso e sfumato assieme, è pastoso, vorticante, sembra essersi fermato sulla tela per poco, appena appoggiato, e allo stesso tempo la pervade e la occupa prepotentemente. Un blu così lo si può vedere nelle stanze di Palazzo Reale finché dura la mostra Marc Chagall. Una retrospettiva 1908-1985, cioè il 1° febbraio 2015.     L’esposizione è organizzata in ordine cronologico, scelta saggia che ci permette di notare la ricorrenza di certi simboli attraverso l’intero percorso artistico di Chagall, così vicino e allo stesso tempo poco aderente alle altre Avanguardie. Un inizio russo, un flirt cubista, precursore del surrealismo, poi dichiarato fauve: sembra poter essere tutto, eppure, in tutto il Novecento, non c’è un artista rimasto così fedele a se stesso e al proprio modo di sentire le cose. Tutte le cose, dall’architettura cittadina al tavolo da pranzo, dal fazzoletto della moglie all’esodo ebraico. Prima di tutto, occorre chiarire che la bidimensionalità del foglio−tela è la dimensione giusta: il quadro di Chagall è un racconto da leggere, i caratteri delle parole corrispondono ai contorni delle figure.

La narratività dei suoi dipinti mi ha ricordato un’altra mostra, quella di Frida Kahlo alle Scuderie del Quirinale; Frida lavora per tutta la vita sull’autoritratto, che, mi sembra, è come una pagina di diario: la posa del viso e l’espressione degli occhi rimangono invariate lungo il corso degli anni, ma gli oggetti e gli animali che la circondano, i vestiti che indossa, gli accessori che sfoggia, le didascalie e i cartigli che aggiunge, sono quelli a dover essere letti e interpretati per capire cosa ci stia raccontando. Il quadro diventa un percorso per gli occhi dello spettatore, che lo legge e intepreta, per poter così decifrare l’animo del pittore.  Non è solo un volto, è tutto quello che quel corpo contiene e che necessariamente trasborda e si materializza tutt’attorno a lei, per raccontare cosa ci sia dietro e dentro quegli occhi che fissano quelli dello spettatore e dicono «Guardami, quindi leggimi». Quello che Frida sente e vive sale alla pagina − alla tela, intendevo − perché, per poter essere raccontato, deve essere visibile. Lo sforzo linguistico e narrativo che la Kahlo e Chagall mettono in atto è quello di dare non voce ma forma  all’autoanalisi, fino ad arrivare all’autorappresentazione scomposta in più elementi: io sono questo e questo e quest’altro ancora. Chagall lo sa bene e, infatti, offre al suo attento pubblico una gamma di simboli ricorrenti che lo rendano riconoscibile e che vengono combinati sempre in modo diverso, utilizza ammiccamenti e rimandi, tutto sempre estremamente curato, tutto impreziosito da dettagli perfettamente disegnati − non ci importa se troppo disegnati. Il dettaglio non deve essere funzionale a null’altro che al racconto: la sua linea è davvero calligrafica. Quel che vediamo è che Chagall disegna sul disegno. Non c’è contraddizione tra la realtà visibile e quella rappresentabile dal pittore, perché si tratta del racconto di un’intimità, ed ecco perché, proprio come farebbe un correttore di bozze, a quadro quasi ultimato sembra che Chagall possa dire «Ah, ma lì ci serviva una casa!» e via, in punta di pennello aggiunge una casa.

Mi chiamo Marc, ho l’animo sensibile e non ho denaro, ma di me si dice che abbia talento.
(Ma Vie)

È il blu uno dei tratti distintivi dell’arte di Marc Chagall e a Palazzo Reale se ne possono trovare almeno tre tipi: diciamo uno da profezia, uno da incontro e infine uno da sospiri. Il blu di Chagall forse, quindi, è il colore dell’attesa.
Il colore blu è sempre stato preziosissimo nella storia dell’arte, nel vero senso della parola: molto costoso, in un’epoca in cui i colori venivano fatti soprattutto partendo dalle tinte della terra, il blu richiedeva l’utilizzo dei lapislazzuli, che dovevano essere importati dalle zone arabe e lavorati tramite macinazione (ma l’esito è questo, voglio dire). Era riservato quindi a “occasioni speciali”: lo troviamo utilizzato, per esempio, per i mantelli delle Madonne italiane. Solo nel Settecento viene inventata un’alternativa artificale ed è il trionfo del blu di prussia, ma è con il passaggio dalla fine dell’Ottocento al Novecento, quindi con la progressiva astrazione della rappresentazione artistica, che può diventare veramente protagonista della storia dell’arte. Gli Impressionisti lo scoprono come il colore delle ombre, abolendo il nero, ma il suo potenziale di “colore altro”, che rimanda a una dimensione più sentimentale e intimistica, è davvero sfruttato da Picasso con il blu (di prussia!) malinconico ed empatico, da Kandinskij che con il suo Balue Reiter lo usa per parlare di Altro, da Mirò e Magritte con il blu chiamato “reale”, questa volta, ed è un bell’ossimoro (ma solo apparente) dato che simboleggiava lo stato sognante e un po’ allucinato (che, senza scomodare tutta la storia della filosofia, sembra essere l’unica cosa che c’è), da Klein − parliamo di Yves Klein. Tra tutte le sue ricerche artistiche e concettuali meravigliose, quella verso il blu perfetto, puro, il più intenso possibile (bluest, appunto) lo ha impegnato fino al punto di arrivare a crearne uno (creare un colore! Creare un blu tutto tuo!) che porta il suo nome: l’International Klein Blue.
Mentre nel primo periodo russo di Chagall ancora abbiamo ancora una prevalenza di colori più spenti, più “reali” (Nozze russe, 1909), un po’ come nel primo Van Gogh (con i celebri Mangiatori di patate, 1885), dopo il soggiorno parigino «un’anima blu irrompe nei miei quadri». Non è raro, infatti, che i personaggi e i simboli di Chagall sembrino letteralmente entrare nello spazio della tela da chissà dove, provocando un turbamento compositivo, come ne Il compleanno, che non è molto blu ma che esposto a Milano ci ha permesso quasi di appoggiare il naso sui dettagli della stoffa a destra, o come il suo vicino  All’imbrunire, dove, sempre da destra, arriva un bacio così improvviso che ci fa diventare la faccia mezza blu.

particolare de All'imbrunire, 1938-43

particolare de All’imbrunire, 1938-43

«Mio padre aveva occhi azzurri, ma le sue mani erano piene di calli». Il blu, per la sua storica ricercatezza e per la sua associazione all’Altro, è anche un colore profetico e la scelta di usare simboli e colori deriva, in Chagall, dal momento storico e culturale in cui vive e produce: è un pittore ebreo che deve fare i conti con la lotta all’idolatria della sua religione, che impedisce la rappresentazione visiva degli elementi sacri, è un pittore russo nella Russia comunista di inizio Novecento che vuole essere visivamente prezioso.
È quindi solo lontano da casa, a Parigi, che Chagall può cominciare a rielaborare tutto quanto ha vissuto e ha formato il suo bagaglio (l’immagine non è casuale: l’ebreo errante, col fardello in spalla, attraversa spesso i suoi quadri) per poterlo trasfigurare, per poterlo rappresentare meglio. Può quindi dipingere, nel 1911, Io e il villaggio (particolare), un ricordo intimo di quanto ha lasciato in Russia, dove l’agnello a sinistra è trasparente e permette di vedere la mungitura che accade sullo sfondo e la moglie del fattore può tranquillamente attraversare la piazza a testa in giù. Se ne accorgono tutti: André Breton dichiara che «soltanto con lui la metafora ha fatto il suo ingresso trionfale in pittura», Apollinaire chiama da subito i suoi modi surnaturel, almeno quindici anni prima che il Surrealismo nasca, quasi Chagall avesse già capito che alle cose non bisogna dire tanto «Parlatemi», perché allora avremmo l’indagine e la scomposizione cubista, ma piuttosto «Fatevi disegnare».
Tornato in Russia, aderì con entusiasmo al comunismo, e fu anzi nominato commissario alle Belle Arti per la regione di Vitebsk, fondò un’accademia e un museo. Il pubblico sovietico, tuttavia, è parecchio distante dalla sensibilità francese: riferisce in Ma Vie che, in risposta ad alcune commissioni fatte dal partito, gli venne detto, senza molti giri di parole, «Ma questo cosa ha a che fare con Marx ed Engels?» o anche, domanda che nessun parigino si sarebbe mai azzardato a fare perché semplicemente non lo avrebbe trovato così strano, «Perché la mucca è verde e il cavallo vola nel cielo?».  Chagall rispose come doveva (e poteva): con Il pittore: alla luna (1917-19) o anche Apparizione (1917-18), entrambe non presenti a Milano, ma che sono davvero tanto blu.
A questa sensibilità e tensione al racconto e alla raffigurazione, contro il Suprematismo che stava conquistando la Russia, volle invece dare credito Vallard, importante mercante d’arte francese, che commissionò a Chagall, che, non dimentichiamoci, era un ebreo russo nella Francia tra le due Guerre, l’illustrazione delle favole de La Fontaine. Purtroppo, non sono riuscita a trovare online le stampe a colori ma, ve lo prometto, sono davvero blu e ve ne renderete conto quando le vedrete dal vivo, dato che ci sono due sale totalmente dedicate; per ora accontentiamoci de L’aquila e lo scarabeo (sì, anche noi ci siamo interrogati a lungo su dove fosse lo scarabeo, ma la favola non la conosciamo, perdevamo in partenza).

Narrazione e contenuto simbolico sono quindi inscindibili in Chagall: il racconto è fatto per immagini e le immagini parlano sempre. Le sue opere sono sempre abitate almeno da  un gallo,  da agnelli e capre, talvolta anche da pesci. Sono tutti animali dalla forte componente simbolica sessuale, soprattutto maschile, ma che rimandano sempre anche alla sua cultura: il gallo canta l’avvicinarsi del giorno e l’arrivo della luce, l’agnello è l’animale sacrificale per eccellenza, il pesce è simbolo cristologico. Gli animali, in genere, sono gli unici esseri dipinti con l’occhio frontale, rivolto allo spettatore (e ancor prima, ovviamente, al pittore). Tra gli umani, invece, va sicuramente ricordato il violinista che spesso passa per i quadri di Chagall, personaggio chiave della comunità ebraica chassidica, e che, con il passare degli anni, diventa da simbolo culturale a sorta di scongiuro, di ultima barriera di bellezza, rappresentata dalla musica, dalla danza, dall’arte − Chagall, prima di esser pittore, desiderava ardentemente diventare un cantante o un ballerino − contro gli orrori che si stanno riversando in tutta Europa. Ancora più frequentemente, però, nei suoi dipinti compare una coppia di innamorati.

particolare de Una sera alla finestra, 1950

particolare de Una sera alla finestra, 1950

«Bastava che aprissi la finestra della stanza e subito l’aria blu, i fiori e l’amore entravano con lei.» In Ma Vie lo ammette chiaro e tondo: quello che lo interessa, nella vita come nell’arte, è l’amore. L’amore di Marc Chagall si chiamava Bella Rosenfeld, una studentessa di Lettere di Vitebsk, dove la conobbe nel 1909 e la sposò nel 1915, dopo il rientro da Parigi. Fu scrittrice, donna di cultura, ma ancor di più principio di armonia per l’arte stessa di Chagall; nella prefazione che fece a Come fiamma che brucia, nella traduzione italiana fatta dalla Donzelli del libro scritto da Bella, leggiamo: «Per anni il suo amore ha influenzato la mia pittura. […] Bella scriveva come viveva, come amava, come accoglieva gli amici. Le sue parole, le sue frasi sono una patina di colore sulla tela». Abita i quadri di Chagall con estrema leggerezza e delicatezza, con un blu dolce e riposante, come in Bella in Mourillon che a Palazzo Reale ce la mostra china su un foglio, forse, e vicina a un immancabile bouquet di fiori. Gli amanti di Chagall si abbracciano, si toccano sempre, stanno uniti senza fondersi mai ma sostenendosi, vivono di questa armonia leggera e spesso volteggiano, si librano, sovrastano l’intera città come ne Il campo di Marte  o La coppia sopra Saint-Paul, che a Milano toglie letteralmente il fiato.

Il blu profondo è anche il colore della notte, momento proprizio per l’incontro tra gli innamorati, come in questa illustrazione per Le mille e una notte (Apollinaire ha detto, dell’arte di Chagall, che «è sempre molto sensuale», ) o, sempre restando tra le stanze di Palazzo Reale, ne Gli amanti, che ci piacciono particolarmente perché, insomma, cosa ci importa delle proporzioni?

Gli amanti

Gli amanti

(Un altro quadro che è esposto a Milano ma che non è blu, fatta eccezione per quel ramo bellissimo che sbuca a sinistra così, dal nulla, graficamente prezioso e basta: La passeggiata. Ne parlo ora perché stiamo parlando di sentimenti e di voli perché poche volte ho sentito un quadro raccontato così: «[…] Che viso! Sembra uno che sorride a oltranza, come se nulla potesse impedirgli di essere felice in questo momento, e i suoi piedi calzano scarpe da festa e non poggiano per terra […]».)

O blu del mondo, o blu che tu mi hai recitato!
Io rivesto il mio cuore di specchi. Un popolo di carte stagnole
sta al servizio delle tue labbra: tu parli, tu guardi, tu regni.
Il tuo regno sta aperto, illuminato di te.

Se però si fa scuro in te, se cede il blu
fratello mondo dal centro delle tue parole,
metti le sbarre alla porta dell’immenso:
voglio nascondere i frantumi alla parete del cuore −
Rimane in questa camera il tuo andare un venire.

Paul Celan, Sotto il tiro dei presagi. Poesie inedite 1948-1969

«Ma forse − pensavo − la mia arte è l’arte di un pazzo, un mercurio scintillante, un’anima blu che irrompe nei miei quadri.» Non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di un artista (e di un uomo) costretto a cambiare continuamente nazione (Russia, Francia, Russia di nuovo, ancora Francia, Germania, Stati Uniti, sempre Francia), spesso in condizioni di difficoltà economica, tante volte criticato e allontanato da cariche importanti. Esiste anche un blu più tenue, come affaticato, nei quadri di Marc Chagall: un blue mood che lo lascia inquieto anche mentre dipinge, con la mano a mezz’aria, con qualcosa di incompleto. Un po’ come accade con la  Sposa con ventaglio (1911) e le sue ciglia lunghissime, o il Bouquet con gli amanti che volano, iniziato a metà degli anni Trenta ma terminato solo nel 1947, ovvero tre anni dopo la morte di Bella. Il blu intenso e apparentemente tranquillizzante è tale solo perché è servito da elaborazione del lutto, così come i fiori che invadono l’intero spazio, diventando protagonisti e non più accessori: «Non potremmo farcela senza i fiori. I fiori aiutano a dimenticare la tragedia che è la vita umana». Non è un caso se Orfeo è blu, interamente blu.

Tra i quadri malinconici visibili a Palazzo Reale, invece, scelgo La pendola con l’ala blu del 1949: i fiori, il gallo, l’ebreo errante ci sono tutti, ma sono fuori dal tempo scandito dalla pendola, che invece accoglie raccoglie protegge (o imprigiona?) la coppia di amanti, facendo scudo al cielo nero e minaccioso con un’ala blu intenso, un’ala sognante che potrebbe portarli via, ma è una sola, forse non è a sufficienza.
E anche Nudo sopra Vitebsk: compare lo stesso ventaglio che portava in mano la sposa pensosa, l’architettura è la stessa della Passeggiata, ma è tutto tranquillo, disteso, estremamente silenzioso. Il blu incontra il grigio e si attenua fino a spegnersi, ovattandosi, preparandosi a un piccolo sonno.

Nudo sopra Vitebsk, 1935

Nudo sopra Vitebsk, 1935

Le finestre di Chagall, poi, sono quasi sempre blu. L’attesa religiosa, l’attesa romantica, l’attesa inquieta hanno come cronotopo, in fondo, la finestra alla sera, quando si sta con il mento appoggiato nel cavo della mano, il gomito sul davanzale, la luce che diventa sempre più blu.


Altri be(llissim)i dipinti blu: Ramo di mandorlo in fiore di Van Gogh, Quelli che vanno II (ciclo degli Stati d’Animo) di Boccioni, Ritratto della Principessa de Broglie di Ingres e visto che prima c’era un soffitto ora mettiamo una porta, quella di Ishtar al Pergamonmuseum
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