The Young Pope, o l’iperbole rovesciata

La domanda che sorge spontanea − adesso che finalmente abbiamo visto i primi due episodi di The Young Pope, l’attesissima serie prodotta da Sky, Canal+ e HBO per la regia di Paolo Sorrentino − è la seguente: siamo di fronte all’ennesimo, ridondante (e un po’ noioso) battage mediatico attorno al nome del premio Oscar de La grande bellezza oppure la prima autentica fatica televisiva del cineasta napoletano è effettivamente un’opera di culto?

The Young Pope ruota attorno alle gesta (e ai capricci) di Pio XIII/Lenny Belardo (Jude Law), il primo papa a stelle e strisce, che ascende al soglio pontificio alla “tenera” età di 47 anni. Non c’è il conclave, la fumata bianca o il chiacchiericcio dei mass media: Sorrentino lascia fuori dalle mura vaticane tutto ciò che è superfluo al racconto, concentrandosi morbosamente sulle azioni e le fantasie del suo protagonista, a capo di un apparato ecclesiastico più simile a un’azienda che a un refugium peccatorum. Il suo amministratore delegato è il cardinale Angelo Voiello (Silvio Orlando, in stato di grazia), Segretario di Stato e faccendiere all’occorrenza, che scongiura i personalismi del pontefice invocando l’intercessione di Hamsik e Higuain; a completare la trinità, la carismatica Suor Mary (Diane Keaton), mentore di Lenny dagli anni dell’infanzia, quando i genitori figli dei fiori l’hanno abbandonato davanti ai cancelli del suo orfanotrofio.

Proprio il tema dell’abbandono ritorna regolarmente nei discorsi del giovane papa, che si ritrova spesso a contemplare la Pietà michelangiolesca insieme al cappellano di San Pietro: «Alla fine, si torna sempre alla madre» confesserà in un sussurro. Il tema della rinascita (con l’abito talare) contrapposto a quello della nascita (dal ventre materno) è dichiarato già nella sequenza di apertura, dove la veste bianca del successore di Pietro stona in tutta la sua artificiosità rispetto ai corpi nudi dei neonati ammassati in Piazza San Marco, a Venezia, la meta prescelta dai genitori di Lenny al momento della fuga: il luogo dove si è realizzato il trauma. Benché intransigente e risoluto, Pio XIII si comporta spesso e volentieri come un bambino al quale le regole stanno strette, un ragazzino che cerca di colmare le proprie insicurezze con la prepotenza e la trasgressività: impregna di tabacco le sale del palazzo apostolico, sgrida i suoi sottoposti, libera un canguro nei giardini del Vaticano, con la stessa ingenua meraviglia del suo antesignano Jep Gambardella alla vista dei fenicotteri rosa.

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Circondato da uno stuolo di porporati che si pentono assai rapidamente di averlo eletto, per quanto avvezzo alle cure di Suor Mary, il pontefice sceglie la linea dell’isolamento e dell’ambiguità: quando la responsabile marketing del Vaticano porta alla sua attenzione l’esigenza di scattare qualche fotografia per ragioni di merchandising, Belardo annuncia che il suo sarà un magistero invisibile. «Il Vaticano» dice «sopravvive grazie alle iperboli: anche noi dobbiamo generare l’iperbole, ma questa volta rovesciata. Io non esisto». Come Salinger in letteratura e Kubrick per il cinema, come Banksy per l’arte contemporanea e i Daft Punk nella musica. Ritorna, quindi, il consapevole distacco del Fred Ballinger di Youth, elevato a potenza dall’urgenza di restituire un’immagine pubblica al membro più eminente della Chiesa Cattolica: nell’era dei social la cosa potrebbe non destare troppo clamore, se non fosse che il cerimoniale impone certi doveri e il pontefice è chiamato alla sua prima omelia davanti alla folla adorante di Piazza San Pietro.

Meravigliosamente straniante il raffronto delle sequenze che aprono e chiudono i primi due episodi: affacciato alla Loggia delle Benedizioni, Pio XIII si appresta a pronunciare il suo discorso coi cardinali che lo osservano impettiti, come figure barocche che sbucano da una quinta teatrale nei bassorilievi seicenteschi del Bernini. Nel primo caso, da consumato uomo di spettacolo, il pontefice esorta la Chiesa a riconsiderare la masturbazione, l’eutanasia, l’aborto, il divorzio, la fecondazione assistita, mentre i raggi del sole bucano la coltre di nubi: ma si tratta di un sogno, il delirio di un uomo che Dio non è stato in grado di salvare. E un Dio che dimentica è anche un Dio che è stato dimenticato, da tutti coloro che gli hanno preferito la libertà, l’emancipazione e il libero arbitrio; e mentre il cielo tuona, sulla terra si consuma la vendetta di Belardo, che da pastore volta le spalle al gregge quando avrebbe dovuto guidarlo verso un cammino di misericordia: «Io non vi indicherò la strada. Quando avrete trovato Dio, forse vedrete anche me». E il regista sembra anticipare la reazione dello spettatore proponendo il primo piano dei fedeli, cani randagi abbandonati da Dio e dal suo rappresentate più accreditato, che realizza così il più crudele (e freudiano) dei contrappassi.

Dopo aver ristagnato un tantino nel manierismo che aveva fatto la fortuna de La grande bellezza, Paolo Sorrentino ritrova lo slancio che gli è valso la statuetta, tre anni fa, con una regia nuovamente impeccabile, al servizio dei personaggi e delle situazioni. Ma il valore aggiunto dell’intera operazione risiede senza dubbio nella sceneggiatura, che esalta un talento pari − se non addirittura superiore − a quello messo in mostra dietro la macchina da presa: una messa in scena memorabile, in virtù della scenografia e dei costumi sui quali si riverbera la luce calibrata dal fidatissimo Luca Bigazzi. Riuscitissimo è anche il compromesso televisivo: sono pochissimi i momenti di sospensione, solo una decina di suore che giocano a calcetto e alcuni educandi che pattinano sull’asfalto dell’eliporto. Il ritmo è serrato, a tratti vagamente noir − specialmente quando il cardinale Voiello incarica il suo segretario di indagare sul pontefice: «Perché l’uomo è come Dio, non cambia mai. E i peccati del passato uno finisce per commetterli anche nel futuro». Una scelta a vantaggio dell’audience, abituata alle squadre antimafia sulla generalista e agli intrighi di potere su Sky Atlantic: non a caso, qualcuno ha parlato di The Young Pope come di un House of Cards vaticano, con una polarità forte al centro della narrazione e una serie di avversità tese a minare la conservazione del suo status.

Ma non si tratta soltanto di questo. The Young Pope è una serie di culto perché Sorrentino ne ha fatto un prodotto volutamente osceno, urticante, fondato su un paradosso che Nanni Moretti, nel suo pur bellissimo Habemus Papam, realizzava soltanto in parte: è plausibile che un uomo dubiti dell’esistenza di Dio, è ancor più plausibile che un uomo non possa tollerare il peso delle responsabilità, ma questo pontefice dagli occhi blu, con un sorriso malevolo e un atteggiamento disturbato, è un ordigno a orologeria destinato ad esplodere nel cuore della cristianità, un uomo intimamente dilaniato che medita vendetta ed è risoluto ad agire. Sofisticato, irritabile, ma sempre e irrimediabilmente solo. Non c’è speranza per uno come lui, l’ultimo di quei personaggi che Raymond Carver avrebbe ricollocato nella provincia americana, in una di quelle casette fatiscenti sotto un lampione a intermittenza. Peraltro, a sentire Pio XIII, neppure la casa di Dio sembrerebbe così diversa: «Metà di una bifamiliare, con la piscina indipendente».

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