Tomas Tranströmer. Gli strati e il silenzio

“Dal punto di vista teorico, la traduzione poetica può considerarsi un’assurdità. Ma in pratica dobbiamo credere nella traduzione della poesia.”

Questa incisiva riflessione di Tomas Tranströmer credo possa essere un punto di partenza di notevole interesse. Perché la traduzione poetica dovrebbe rivelarsi più assurda di qualunque altra? Cosa è, del resto, la traduzione della poesia? Questioni di tal genere sono di complessissima trattazione e, ad ogni modo, non saprei personalmente giungere a una posizione soddisfacente. Trovo molto utile, però, far tesoro delle riflessioni di Jean-Paul Sartre nel suo celebre, e forse abusato, Qu’est-ce que la littérature?. Nel saggio, Sartre si concentra soprattutto sull’esperienza dello scrittore di prosa e sulla necessità del suo impegno politico, derivante dall’azione di selezione semantica, che la prosa prevede. Nella prima parte del saggio, però, Sartre analizza il linguaggio della poesia, marcando alcune sostanziali differenze. Ebbene, la sua riflessione, che io trovo molto convincente, argomenta che il linguaggio poetico non pone il poeta d’innanzi ai crocicchi semantici propri della prosa. Quando un poeta sceglie una parola, accetta e conserva della stessa l’intero universo dei suoi significati. Credo che per tale ragione, fondamentalmente, si possa dar ragione a Tranströmer, definendo un’assurdità la traduzione poetica. Poiché la traduzione, di fatto, opera a posteriori quella scrematura semantica che non appartiene, almeno non in modo così stringente, al testo poetico. Ogni lingua è un fitto universo di segni, reticolato. Il trasferimento di una poesia da una lingua all’altra è inevitabilmente la scrittura di un’altra poesia. Eppure, seguendo ancora Tranströmer, noi dobbiamo credere nella pratica della traduzione; non è un caso, del resto, che tutti i maggiori poeti siano anche raffinatissimi traduttori. Perché è nella traduzione che si concretizza quell’arricchimento continuo del bagaglio di immagini e significati di cui si nutrono l’arte e la cultura, è in essa che la forma del pensiero e del pensare si fa tridimensionale (e oltre, ancora). Ogni lingua, del resto, è un differente codice del pensare, impone differenti schemi logici. Questo discorso introduttivo deve valere, soprattutto, a rendere l’umiltà e la sensibilità con le quali tenterò di approcciarmi all’opera di Tomas Tranströmer. Umiltà e sensibilità, certo, necessarie a leggere qualsiasi poeta, a porsi in ascolto, ma qui affiancate dalla consapevolezza di quanto si possa perdere del suo lavoro qualora, come me, non lo si avvicini in lingua originale. Con questo spirito, dunque, ci affideremo alla traduzione di Maria Cristina Lombardi, per Crocetti Editore, che con Tranströmer ha potuto personalmente confrontarsi. “La pagina di Tranströmer”, scrive la Lombardi, “svela i suoi segreti dopo una lunga frequentazione; col tempo vi si scoprono tesori nascosti. Egli invita discretamente il suo lettore all’intuizione, riconoscendogli la massima libertà di interpretazione del testo, che per lui è un oggetto indipendente tra autore e lettore.” Noi ci predisponiamo, aperti e curiosi, all’accoglimento di questi tesori.

Tomas Tranströmer è nato a Stoccolma nel 1931. Psicologo, dopo un primo periodo di lavoro accademico, si è dedicato all’attività clinica, nonostante la sua fama, dopo la prima pubblicazione (17 poesie, 1954), crescesse sempre più. Nel 1990 è stato cTomas Transtromer -2011olpito da un ictus, nonostante il quale ha continuato a scrivere e che anzi, credo, abbia acuito alcuni tratti caratterizzanti la sua poetica, come il senso di immobilità, di realtà incombente su e nonostante l’individuo. Ha pubblicato, a oggi, quattordici raccolte, tutte piuttosto brevi. Nel 2011 è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura, “perché attraverso le sue immagini condensate e traslucide, ci ha dato nuovo accesso alla realtà”. Un sentimento di immobilità dicevamo, ma anche esclusione e estraneità, che è innanzitutto matrice culturale, legata al suo essere svedese, in qualche modo “periferico”. La tradizione nordica è il primo grande bacino da cui il poeta ha sempre attinto, restando in qualche modo impermeabile alle grandi rivoluzioni poetiche del secondo novecento. La qual cosa, di fatti, gli fu criticata aspramente, soprattutto negli anni Settanta, poiché traducibile in un rifiuto della politicizzazione dell’esperienza poetica. Oltre alla tradizione scandinava, i suoi punti di riferimento, dunque, sono piuttosto i grandi Simbolisti e i Surrealisti, ma anche la poesia classica, soprattutto oraziana. Questa particolare posizione di Tranströmer lettore ci sarà utile più avanti, ci torneremo.

Sostengo che la poesia, prima di essere letta, debba essere guardata. Ha ragione Tranströmer, quando definisce il testo poetico un oggetto: esso è un oggetto di segni e, come tale, possiede una superficie, un volume. Apriamo dunque una raccolta di Tranströmer e diamo un’occhiata. Le sue poesie si presentano tutte piuttosto compatte, sviluppate in versi medio lunghi, per lo più, che garantiscono una certa simmetria nelle due dimensioni. Essenzialmente, il verso lungo sembrerebbe rispondere all’esigenza di ristrettezza, atto a comporre un’immagine che si concluda nello spazio di una piccola pagina. Dunque, piccoli oggetti, quelli che Tranströmer dà al mondo: piccoli, sì, ma densissimi. È questa la peculiarità dello stile del poeta, che nonostante e anzi in virtù della propria concisione, incide sul foglio parole cariche della propria totalità semantica, di tutto il proprio peso significante. Questo è riscontrabile in tutta la produzione di Tranströmer e a proprio modo anche nelle prose liriche (e anche senza giungere all’esperienza, in tal senso estrema, della raccolta di haiku “Il grande mistero”. La forma tipica della letteratura giapponese è perfettamente confacente all’esigenza poetica di Tranströmer). Lo stile, d’altronde, discende dall’estetica e Tranströmer si relaziona alla complessità dell’istante, dell’unità visiva. Intendo, ovverosia, che l’elemento del reale che Tranströmer codifica nel linguaggio poetico è sempre un singolo fotogramma. È ciò che è compreso all’interno del campo visivo in un preciso punto temporale a essere scomposto dall’occhio del poeta, per essere poi, però, riallacciato a immagini altre, a diversi e lontani referenti, nel costruirsi di un quadro nuovo, non più comprendente soltanto ciò che il poeta vede, ma anche ciò che ha visto e sentito. Il fotogramma non è più allora singolo e fedele al contingente, la poesia è piuttosto una pila di fotogrammi sovrapposti, che svelano, in cima, un’immagine che sorge dal gioco delle trasparenze e delle proiezioni. il significato è lasciato alla nostra sensibilità intuitiva. In questo senso, quando parliamo della densità semantica della poetica di Tomas Tranströmer, si intende riferirsi alla parola che porta con sé ogni valenza che ha assunto, di volta in volta, nei suoi diversi impieghi poetici, nei differenti manifestarsi dei propri referenti, nell’esperienza esistenziale totale, insomma, del poeta. Più che mai, la parola di Tranströmer è parola implicata. Ogni sua poesia è un oggetto tridimensionale.

Il testo poetico, in altre parole, trama fitta di implicazioni di esperienze, vive la vita del poeta, diviene un corpo altro, che si pone al di fuori di lui, a contrasto. In chiusura della poesia Uccelli mattutini, il poeta registra la nascita materiale di un componimento:

[…]

Non ci sono qui spazi vuoti

Stupendo sentire come la mia poesia cresce

mentre io mi ritiro.

Cresce, prende il mio posto.

Si fa largo a spinte.

Mi toglie di mezzo.

La poesia è pronta.

La poesia, dunque, si serve delle esperienze del poeta, ma le lega e compone fino a creare esperienze altre. E, proprio in virtù di quei legami segreti e intuitivi, infinitamente più massicce delle esperienze primigenie, vissute dal poeta. Ecco allora che la poesia-esperienza pretende il proprio spazio, si fa troppo pesante perché possa esser trattenuta in sé. Viene data al mondo. Stilisticamente, le poesie di Tranströmer sono sequenze di immagini non commentate, non costruite, sintatticamente spoglie, intonse (nella resa finale) da rielaborazioni. Eppure, nel loro susseguirsi, c’è un qualcosa che le lega, che costruisce uno scenario di senso, forse, intuibile. È la metafora il linguaggio retorico più tipico di Tranströmer, che gli consente di presentare binomi di elementi tutti facenti parte della propria esperienza sensibile, ma altrimenti distanti. È ciò che contraddistingue quello che la Lombardi definisce “monadismo”: ogni poesia è un mondo tanto vario e composito da risultare non completamente intellegibile, eppure si presenta compatto, solido, omogeneo, coerente (e monadico, del resto, è anche lo stare al mondo del poeta: così circoscrivibile nell’infinità delle sue relazioni).

III

Il sole brucia. L’aereo vola a bassa quota

gettando un’ombra a forma di gigantesca croce a precipizio

sul suolo.

Un uomo è seduto sul campo a rovistare.

L’ombra arriva.

Per una frazione di secondo l’uomo è al centro della croce.

Ho visto la croce appesa nella fresca navata della chiesa.

Somiglia talvolta a una fugace immagine

di qualcosa che si muove impetuoso.

È il passaggio di un aereo e, anzi, la sua ombra soltanto a rivelare, con una potenza a mio avviso dolorosissima, la condizione umana. La metafora che disvela la presa di coscienza si compone da sé, così come si presenta al mondo il fenomeno, sembrerebbe. È poi una sapiente e naturale anadiplosi a far più luce, a creare una via di lettura che sembra ora così immediata eppure, nella conclusione, tanto contraddittoria da confondere i posti rispettivi di ciò che passa e ciò che resta. L’attimo che svela la condanna porta con sé anche il bagliore della speranza, giacché l’uomo è al centro della croce “per una frazione di secondo”. Un secondo, però, eterno, nella propria fatalità che equamente si distribuisce tra gli individui. E la croce della chiesa, simbolo immobile di una morte sconfitta ma (e proprio per questo) eterna, diviene (torna a essere, nel gioco delle immagini concatenate) segno di un qualcosa che si muove. I grandi contrasti, gli accostamenti ossimorici e stridenti, sono la cifra retorica, sempre molto presente nella poesia di Tranströmer, del suo tentativo di render conto della complessità tragica del reale, che proprio nel palesarsi contiguo di grandi opposti può rivelarsi epifanico. È la lezione, se vogliamo, di Thomas Stearns Eliot e del suo correlativo oggettivo (da Tranströmer, però, composto sempre con un occhio più impersonale e lucido, meno coinvolto); ma anche del Simbolismo e del Surrealismo. L’utilizzo del correlativo oggettivo, la catena dei diversi fenomeni del molteplice immediatamente accostati, l’utilizzo dell’oggetto reale come chiave che spalanchi mondi, rivelano a mio avviso un senso di profonda insoddisfazione. Lo dimostra, con ulteriore evidenza, la sintassi sempre così asciutta e dimostrativa. È l’insoddisfazione del poeta nei confronti del linguaggio. In Dal marzo ’79:

Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua

sono andato sull’isola coperta di neve.

Non ha parole il deserto.

Le pagine bianche dilagano ovunque!

Scopro orme di capriolo sulla neve.

Lingua senza parole.

L’insufficienza del linguaggio al dire, ovvero al suo obbiettivo primario, è un tema cardinale di tutta la produzione di Tranströmer. La lingua umana non riesce a dire l’essenza, non resta allora che prendere gli oggetti del reale e avvicinarli, lasciando che parlino da soli. Leggiamo la bellissima Una notte d’inverno.

La tempesta poggia la sua bocca alla casa

e soffia per emettere un suono.

Dormo inquieto, mi giro, leggo

il testo della tempesta assopita.

Ma gli occhi del bambino sono spalancati al buio

e il temporale mugola per lui.

Entrambi amano le lampade che dondolano.

Entrambi sono a metà strada dal linguaggio.

La tempesta ha mani infantili e ali.

La carovana si lancia verso la Lapponia.

E la casa avverte la sua costellazione di chiodi

che tiene insieme le pareti.

La notte è immobile sul nostro pavimento

(dove tutti i passi attutiti

riposano come foglie affondate in uno stagno)

ma fuori infuria la notte!

Sul mondo passa una più grave tempesta.

Poggia la sua bocca alla nostra anima

e soffia per emettere un suono – temiamo

che la tempesta soffiando ci svuoti.

Tutto il componimento è dominato dall’intenzione di dire, dalla tensione alla parola, alla pronuncia. Eppure, è la condizione di infanzia (in senso etimologico) ha divenire fenomeno nel mondo: la realtà è rumorosa, mugola ma non dice. Il silenzio è la risultante finale, che è finanche auspicato come condizione di apertura. L’impossibilità a dire, lo stare “a metà strada dal linguaggio”, si rivela elemento essenziale della realtà, tanto che nel parallelismo tra le tempeste dell’interiorità individuale e quelle del mondo (che coincidono, andando ben al di là della metafora e della similitudine, ma manifestando un idealismo psicologico) il non dire del mondo diviene auspicato, così da preservare il nostro Io. Perché dire è porre fuori da sé, è negare: è nel trattenere che l’individuo, incapace a comunicare, può evitare la sconfitta finale di ritrovarsi privo di ciò che è, che almeno nei pertugi della propria mente può essere conservato. Per Tranströmer l’esperienza individuale è elemento centrale e insostituibile; e il poeta, che non dimentichiamoci è anche psicologo, sa bene che esiste una distanza incolmabile tra il mondo interiore e inconscio dell’Io e l’espressione dello stesso mediante la convenzione linguistica, che è dunque il suo stare al mondo primario. In All’aperto suggerisce allora che

[…]. Tutto sta nel farcela ad uscire

e ritrovare i propri segni sul sentiero: attrezzi arrugginiti

sul campo

e la casa sull’altra sponda del lago, […].

È necessario uno sforzo di astrazione da sé, di alienazione che ci ponga come corpi nella realtà, se vogliamo salvarci dal nostro baratro e essere, finalmente e seppur flebilmente, nel mondo. È qui che nasce quella tensione che nella lettura di Tranströmer si percepisce, con forza struggente: la distanza dell’Io dalla vita. L’autore dice “io” senza vergogna e anzi proietta il proprio sé in molteplici feticci. Ma, anche quando si presenta e si dichiara, l’Io del poeta resta impersonale, poiché non parla in prima persona, ma è in qualche modo un “io” di terza persona, che descrive il proprio stare al mondo dall’esterno, da un punto di osservazione che è l’interiorità del poeta, la sua mente, che pare restare fuori dai giochi. Non in esilio volontario, certo, ma piuttosto esclusa, consapevole dell’impossibilità concreta di stare tra gli altri (dove per altri, in Tranströmer, è da intendersi tutto il mondo dell’esistente): la via dell’incontro è il linguaggio, che però è un balbettio, un codice inattuale. Da qui, il testo poetico come condensazione di immagini slegate, che assumono però un senso unitario soltanto per via intuitiva, non già grazie all’argomentazione linguistica.

[…]

E di sera sono un vascello

a luci spente, a giusta distanza

dalla realtà, mentre a terra

nei parchi fluisce l’equipaggio.

È la strofa conclusiva di La cima: il poeta dichiara la propria identità, ma si pone fuori da sé, come oggetto di/in un mondo dal quale resta distante. Ciò che veramente appartiene al mondo è l’equipaggio, ciò che il poeta, dal proprio interno, fa defluire all’esterno. La poesia è altro rispetto all’io del poeta, è lo scarto materiale, che si deposita al suolo e lì resta per chi passa, della frizione idealistica io-non io. L’insoddisfazione per il linguaggio umano, inattuale, corrisponde però all’anelito a un linguaggio non verbale e universale che il mondo, parlando, è. In Seminario di sogno,

[…]

Ci muoviamo su una strada, fra uomini,

nel calore solare.

Ma altrettanti che non vediamo, o forse più,

stanno dietro oscuri edifici

che si levano da entrambi i lati.

A volte uno di loro si avvicina alla finestra

e getta uno sguardo in basso verso di noi.

Il mondo ha una tensione comunicativa, che è manifestazione diretta dell’essere. Una simile estetica è stata considerata superata dalle avanguardie del secondo Novecento. Ma, al di là dell’influenza delle poetiche simboliste, surrealiste e moderniste, c’è la grande presenza della sensibilità nordica, su due piani che si compenetrano. Da una parte Tranströmer rielabora la tradizione nordica dal punto di vista linguistico, sfruttando la contrazione metaforica delle immagini tipica della poesia scaldica. Dall’altra il poeta vive e condivide il sentimento di inarrestabile fluire e eterna compresenza di vita e morte tipica della sua cultura. Soprattutto nella sua più tarda produzione, vita e morte battono insieme le strade del mondo, inscindibili. È nel loro incontro simultaneo che si possono schiudere usci di senso: da questa poetica tradizionale, Tranströmer, cosciente che l’essere passa per l’identità e l’identità per le radici, non può e non vuole separarsi. Significativa è la lettura de Il suono:

E il merlo soffiò sulle ossa dei morti col suo canto.

Seduti sotto un albero, sentivamo il tempo affondare sempre più.

Il cimitero e il cortile della scuola s’incontrarono e confluirono

come due correnti in mare.

Il suono delle campane si avviò nell’aria portato dalla morbida

leva dell’aliante.

Lasciarono un più grande silenzio sulla terra

e i quieti passi di un albero, i passi quieti di un albero.

In un mondo animato (e animato dalla morte) due luoghi topici si mescolano: il cimitero e il cortile della scuola; la morte e il tempio della formazione culturale, della crescita e della vitalità. Tra le due dimensioni, apparentemente contrastanti, non vi è alcuna soluzione di continuità. È questo un lascito di una cultura ancestrale come quella scandinava: la vita è intrisa di morte, perché il presente non sa liberarsi dei resti del passato, che permangono, vitali e parlanti. E, infatti, una delle più ricorrenti e significative immagini della produzione di Tranströmer è quella della casa vivente, semovente e parlante. Innumerevoli le occasioni in cui il poeta è assediato da queste presenze inquietanti, queste case animate che camminano silenziose, si affollano, lo squadrano incombenti, soffocandone la vitalità. Passando, per esempio, da La coppia:

[…]

È buio e silenzio. Ma la città stanotte

si è avvicinata in fretta. A finestre spente. Le cose sono qui.

Vicinissime, stanno serrate in attesa,

una folla di volti inespressivi.

Fino ad arrivare alla dichiarazione limpida di Preludi, I:

[…]

Il futuro: un esercito di case vuote

che avanzano nel nevischio.

La casa è il luogo dell’abitare; abitare è costruire sul costruito, stratificare. Ma, nella stratificazione, nel vivere sul vissuto, è impossibile ignorare ciò che è stato. Si vive nella morte, nel morto; si è perpetuamente morenti. È nella casa che, tragicamente (nido e capezzale), ciò si fa fenomeno.

L’Io del poeta, dunque, vive estraneamente alla vita, così come l’io della sua civiltà. È impossibile partecipare totalmente al proprio impulso vitale, Tranströmer ne prende ancor più consapevolezza nel confronto con culture altre, proiettate nella costruzione di un futuro che è negazione del passato. È una lettera dall’America (appunto) che smuove e guida fuori il poeta con

[…]

La lettera in tasca. Rabbiosa dannata passeggiata, è una

sorta di mediazione.

Da voi il male e il bene hanno di sicuro un volto.

Da noi è più una lotta fra cifre, albe e radici.

Non è possibile alcun discrimine, nel mondo di Tranströmer. Se è vero, però, che questo impedisce di essere totalmente vivi, ciò apre anche alla possibilità di trovare le gemme preziose che si formano nella compresenza dei tempi: rose del deserto inesistenti nelle terre del progresso assoluto. Orgogliosamente sembra comporre questo haiku:

Le foglie brune

sono preziose come

i rotoli del Mar Morto.

Tomas Tranströmer traduce in immagini dense il proprio vivere in un mondo di compresenze coperte di brina. E ci dice qualcosa della nostra esistenza, un monito: non si afferra veramente questo mondo, vivere con slancio puro è un’illusione. Poeta, psicologo, raffinato immaginifico, ci rivela con dolore che non ci è concessa la salvezza di un’esistenza vera e attuale. Ma l’intermittenza di una lucciola o di un faro, la brevissima illuminazione di un istante d’intesa con la tragica complessità del mondo, sì, questo, se silenziosamente ci mettiamo in ascolto, ci è dato da sperare.

[…]

La costa è ormai spoglia di foglie. E infine,

lo spirito di Dio è come il Nilo: trabocca

e si ritira a ritmo calcolato

nei testi di ere diverse.

Ma Egli è anche immutabile

per questo è raro osservarlo qui.

Incrocia da un lato il cammino del corteo.

Come il vascello attraversa la nebbia.

Senza che la nebbia lo noti. Silenzio.

La debole luce della lanterna è il segnale.

Per leggere Tranströmer:
Tomas Tranströmer, Poesia dal silenzio, Crocetti Editore, Milano, 2000.
Tomas Tranströmer, Il grande mistero, Crocetti Editore, Milano, 2011.

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