Tortura: il reato fantasma che sia aggira per l’Italia

Quando pensiamo alla tortura capita spesso di associarla a società lontane dalla nostra, barbare, incivili, o meglio ancora a tempi passati; è uno stereotipo comune supporre che in antichità si torturasse, crediamo che più si vada indietro nel tempo e più la tortura fosse una pratica di uso comune, lecita e necessaria. Niente di più sbagliato: in epoca greco-romana un cittadino non poteva essere torturato.

Il diritto attico prevedeva, infatti, che per i cittadini greci, anche nel caso di reati gravi, la morte doveva essere comminata in maniera indolore e senza manifestazioni pubbliche; lo stesso si può dire per la tortura rivolta ad ottenere informazioni, la parola di un cittadino aveva valore, era affidabile proprio perché pronunciata da un membro della comunità. Inutile nascondere che tutti i popoli antichi conobbero però la tortura: gli stessi greci che rispettavano l’integrità corporale dei propri concittadini non avevano scrupoli nel torturare uno schiavo, anzi, nel loro caso era quasi un obbligo. Lo schiavo non disponeva del proprio corpo, paragonato alle bestie, se si voleva estorcergli un’informazione non vi era altro mezzo che la tortura; se lo si voleva punire, lo si privava dolorosamente del corpo, dato che non possedeva beni e libertà.

Anche nel mondo della Roma repubblicana la tortura sui liberi cittadini era proibita, almeno fino all’introduzione della Lex Iulia che cominciò ad ammetterla per i casi di lesa maestà, per punire o per far confessare i testimoni -tortura giudiziaria- sia che essi siano schiavi o liberi romani.

Nel Medioevo, secolo parecchio triste per ciò che riguarda questa atroce pratica, la tortura si manterrà con la duplice veste di strumento giudiziario e punitivo. All’apice della sua diffusione capillare in tutta Europa, nell’epoca dell’Inquisizione, trasformerà intere società in schiere di accusati e accusatori, carnefici e torturati. Nessun altro secolo come il XVIII vide una proliferazione tanto ampia di discorsi intorno al tema della tortura, della sua regolarizzazione e ottimizzazione, con un’escalation di crudeltà nello sperimentare nuove tecniche che porterà molti pensatori di epoche seguenti a ritenere lecito l’accostamento di una nuova forma di tortura accanto alle già conosciute forme giudiziarie e punitiva: la tortura ludica.

Dal 1700 la tortura punitiva cade sempre più in disuso, considerata disumana e infamante per il condannato, ma anche per sua la famiglia. Contemporaneamente inizia a farsi strada tra la maggior parte dei giuristi l’idea dell’inutilità delle confessioni ottenute sotto tortura, dando adito alle affermazioni fatte un secolo prima da Friedrich Spee, confessore delle streghe, il quale affermò che durante l’inquisizione tedesca senza la tortura la stregoneria non sarebbe mai esistita.

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Nel 1740 Federico II di Prussia fu il primo ad abolire la tortura, ma la svolta teorica vera e propria partì dall’Italia per mezzo della grande diffusione che conobbe l’opera di Cesare Beccaria, dei fratelli Verri, di Filangieri, e di tanti altri pensatori che dalla seconda metà del Settecento si schierarono sul fronte abolizionista. Già dalla prima metà dell’Ottocento in tutta l’Europa la tortura era stata abolita, all’origine di tale svolta stanno le riflessioni su due caratteristiche di tale pratica: la sua inutilità e la sua inumanità.

Dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, nel 1789, si comincerà a pensare alla tortura come qualcosa di appartenente al passato, un brutto ricordo lontano e sbiadito. Tanto che lo stesso Alessandro Manzoni, pur dedicando al tema l’opera Storia della colonna infame, la considera come una trattamento barbaro che per fortuna è stato relegato nel passato. Quando Kant scrive Per la pace perpetua, nel 1795, la tortura è già un tabù, passato remoto, e con uno sguardo proiettato al futuro si progetta, in maniera giuridica e non solo etica, un ordinamento che metta fuori legge la guerra e la violenza.

È il 10 dicembre 1984 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti trattamenti crudeli, disumani o degradanti. Il 26 giugno 1987 la convenzione entra in vigore.

Essa richiede agli Stati che ne fanno parte di introdurre il crimine di tortura all’interno del corpus giuridico nazionale, di punire adeguatamente gli atti di tortura, di non utilizzare come prove ai processi le dichiarazioni rese sotto tortura, e di riconoscere e far ricevere vittime di tortura un adeguato risarcimento e recupero.

Veniamo qui al nodo centrale del nostro discorso: la tortura in Italia.

Per la Repubblica Italiana la Convenzione ha efficacia dall’11 febbraio 1989, in seguito al deposito presso le Nazioni Unite dello strumento di ratifica. Inizia così in Italia lo stallo legislativo su questo controverso argomento, infatti, contrariamente agli impegni presi in sede istituzionale, nel nostro codice penale non è presente il reato di tortura.

Prima di indignarci superficialmente per il fatto che in un democratico paese come il nostro questo orrendo crimine non venga penalizzato, bisogna fare alcune precisazioni preliminari. Se il reato non esiste ciò non implica che qualunque azione che potremo definire come tortura non venga criminalizzata e punita, ciò significa che l’atto in questione viene fatto cadere sotto altre categorie di crimine. Quello che non è presente allo stato attuale del codice penale italiano è la specificità del reato che coinvolge oltre a una serie di pratiche violente attuate con il preciso scopo di costringere un individuo a soffrire, anche un risvolto psicologico che che le singole categorie di crimini sotto cui adesso ricade la tortura, non riescono a comprendere. Ogni uomo di buon senso riesce a capire che picchiare un uomo non può equivalere penalmente a percuoterlo con lo scopo specifico di umiliarlo, farlo soffrire e intimidirlo. La grossa differenza sta nella violazione della dignità umana contenuta nel termine “tortura”

In ambito giuridico, invece, la difficoltà di stabilire quale sia la soglia oltre la quale un reato è definibile come tortura è davvero elevata, in quanto tutt’ora non esiste una definizione univoca e indiscutibilmente accettata di ciò che chiamiamo con il nome di “tortura”.

Nonostante ciò, l’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite la definisce come «qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito»

In questa definizione sono compresi dei termini insidiosi, necessari a definirla, ma armi a doppio taglio che offrono la possibilità di sfuggire ad essa. “Segnatamente al fine di ottenere informazioni o punire” implica la volontà stringente di compiere l’atto con un fine specifico: dimostrare che il fine dell’azione non corrisponde a quello descritto implica che ciò che è stato commesso non è tortura. Anche il termine “sofferenza acuta” è abbastanza discutibile: quando possiamo stabilire che una sofferenza è acuta? Non è questo un limite che ha anche a che vedere con il soggettivo?

Altro punto cruciale è poi la discussione se il reato debba essere esclusivamente commesso da addetti delle forze o debba essere generalizzato.

Comprensibile potrebbe risultare quindi da questo punto di vista il rinvio in Commissione di Giustizia del disegno di legge n.256 , l’ultimo presentato nel 2012 sull’introduzione del reato di tortura, peccato però che non sia la prima volta che un decreto sull’introduzione del reato venga rifiutato e nei venticinque anni trascorsi dalla ratifica della Convenzione  i governi italiani hanno comunque dimostrato uno scarso interesse nell’adempiere l’impegno preso. È come se il nostro diritto facesse fatica a fare i conti con questa realtà.

Significativo è ciò che viene riportato nell’ultimo rapporto italiano stilato dalla Commissione Interministeriale del Ministero degli Affari Esteri: «la legislazione italiana ha disposto misure sanzionatorie a fronte di tutte le condotte che possono ricadere nella definizione di tortura inclusa nell’art. 1 della relativa Convenzione delle Nazioni Unite, e che dette misure siano assicurate mediante un sistema di incriminazione di comportamenti e di circostanze aggravanti. Pertanto, la tortura è punita anche se essa non costituisce un particolare tipo di reato ai sensi del codice penale italiano». In pratica si sostiene che anche se la tortura non è un reato, lo sono comunque tutte le azioni che ricadono all’interno della sua definizione.

Cosa cambia allora a livello giudiziario? Tantissimo. Primo fra tutti è un problema di ordine burocratico, in quanto le condotte in cui si può scomporre un reato di tortura sono reati minori, spesso con pene inadeguate e che in moltissimi casi finiscono per cadere in prescrizione. Questo è proprio ciò che lamenta Amnesty International sulla situazione italiana in un comunicato ufficiale del 26 Giugno 2012.

 Allontanandoci un po’ dall’aspetto giuridico ci sono altri ambiti del discorso da dover affrontare per avere un quadro esauriente della prospettiva. Bisogna considerare senza troppi formalismi che il divieto di tortura rappresenta un limite costitutivo al monopolio legittimo della violenza. La connessione tra il potere costituito e la tortura è evidente se consideriamo che nella storia del crimine, la maggior parte degli atti di tortura sono stati “crimini di potere”: soprusi compiuti da esponenti delle forse dell’ordine, rappresentanti dei uno Stato, oppure ancora vengono commessi con il beneplacito delle autorità, su piccola o larga scala.

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L’Italia non è immune al virus della tortura, e lo ricordiamo ogni volta che facciamo nomi come quello di Stefano Cucchi, Franco Mastrogiovanni, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, le vittime alla scuola Diaz, Federico Aldrovandi, Bolzaneto, il G8 di Genova, Michele Ferrulli, e chissà quanti altri nomi che non conosciamo e mai conosceremo. Nessuno ci può assicurare che con l’introduzione del reato di tortura in Italia non succeda ancora, e nessuno può assicurarci che questo crimine venga represso più duramente, ma c’è una cosa importante che non va trascurata: esso sarebbe una forte presa di posizione dell’Italia nel dibattito sulla tortura che da un decennio coinvolge le democrazie occidentali.

Oggi la tortura è praticata in maniera ufficiale in 132 nazioni su un totale di 192. Penalizzare la tortura come reato sarebbe un gesto contro quelle correnti, che dopo l’11 settembre 2001 sono sempre più diffuse tra i giuristi e che auspicano una legalizzazione della tortura celandola dietro il pretesto delle situazioni di emergenza. Si, perché in altre democrazie si parla anche di questo. Dieci anni fa dire di essere contrari alla tortura era banale, poi è arrivata la Guerra al terrorismo.

La cosa peggiore non è che si torturi nell’illegalità, ma che si cerchi di includerla come pratica lecita. In presenza o no di uno stato di emergenza, la trasformazione dei diritti soggettivi in diritti relativi, in nome di una presunta utilità pubblica, rischia di innestare una “china scivolosa” dalla quale sarebbe difficile uscire; l’approvazione in Italia del decreto in questione potrebbe forse salvarci un giorno da questa china. La tortura è uno di quei temi su cui le nostre coscienze prima, e le nostre leggi di conseguenza, non possono e non devono transigere.

A tal proposito rimangono ancora significative le parole pronunciate dal Generale Dalla Chiesa in merito alla possibilità di usare la tortura sui sospettati del rapimento di Aldo Moro, al fine di far confessare il luogo dove veniva tenuto in ostaggio: «L’Italia può sopravvivere alla perdita di Aldo Moro, ma non all’introduzione della tortura».

Sull’argomento, per approfondimenti:
La Torre – Lalatta Costerbosa, “Legalizzare la tortura. Ascesa e declino dello Stato di diritto”, ed. Il Mulino, Bologna, 2013

– Seduta 800 e 801 del Senato della Repubblica, rispettivamente del 25 e 26 settembre 2012

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