Tra le stanze e i ricordi de “La casa” di Paco Roca

Non leggo molte graphic novel, forse perché non sono mai stata una grande consumatrice di fumetti, nemmeno da piccola − le illustrazioni, quelle sì che mi piacciono tanto (hint!). Complici un paio di amiche che invece ne leggono molte (cioè Maria Gaia, Paola e Cristina), ho cominciato a seguire su Facebook la casa editrice Tunué, che appunto di graphic novel, italiane e straniere, si occupa. Quando ha cominciato ad anticipare l’uscita del nuovo volume di Paco Roca, io stavo scrivendo la tesi magistrale sullo stesso esatto argomento: mi sono mentalmente appuntata il fatto che l’avrei dovuta senz’altro leggere e, se la prima pubblicazione l’ho mancata perché ero ancora stazionata a Londra, appena tornata in Italia ho approfittato della ristampa e ho acquistato la mia prima graphic novel.

Paco Roca lacasa

studio per la copertina

Entrambe le mie tesi, quella triennale e quella magistrale, hanno trattato, in modo diverso, lo sforzo del linguaggio di dare una voce all’assenza o all’assente: domande senza risposta, stanze vuote, cose sospese e le parole a fare da ponte e a tenere assieme, alla bell’e meglio, quel che rimane. Ero curiosa di vedere se e come fosse possibile farlo con dei disegni, che ancor più delle parole hanno un potere e valore dimostrativo − quello degli aggettivi, per intenderci: dicono più «questo» che «quello».

Non vi tengo sulle spine: Paco Roca ce la fa, alla grande. Con delicatezza di composizione e di toni, con tratti decisi e palette uniformi, quello che non c’è più compare sulla pagina, convivendo con quello che è rimasto. Le pagine 80 e 81, per esempio, sono il punto preciso in cui mi sono sentita dire «Ecco, è fatta». Perché è così che andrebbe trattato un racconto, a immagini e a parole, del genere: a pagina 81 Paco Roca ha fatto esattamente ciò che mi aspettavo facesse − nel senso più bello della cosa.

«La finzione mi ha permesso di ricominciare da zero e mettere ordine in tutto, compresi i sentimenti.»¹

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Ma di cosa parla, di preciso, La casa? Che ancora, in effetti, non ve l’ho detto bene. Tanto per cominciare: la casa è quella di Antonio, che è un signore anziano e che − lo so, lo so − muore. Il modo in cui esce dalla storia è esattamente ciò che intendevo con la delicatezza di cui è capace Paco Roca di raccontare qualcosa di terribile che, per definizione, è indicibile. E, infatti, sceglie di rappresentarla nell’unico modo possibile − un’uscita di scena.

A rientrare nella casa, che non è quella di famiglia ma quella delle vacanze, costruita pezzo per pezzo durante le estati della loro infanzia, sono i figli, Vicente, José e Carla, che si ritrovano sul luogo per decidere cosa farne: sistemarla per venderla, sistemarla per tenerla, nemmeno sistemarla?  Con l’aiuto dei loro compagni e figli e di Manolo, anziano amico di Antonio, i tre fratelli pian piano riscoprono la casa − perché, effettivamente, la prima cosa da fare è togliere il velo di polvere che si è depositato ovunque. Spostando gli oggetti accumulati, esplorando le stanze e usandole in modi diversi da quelli a cui ricordavano di essere abituati, muovendosi senza sosta tra il giardino e il garage, regalano alla casa una nuova possibilità e, in definitiva, che duri qualche giorno o a oltranza non importa molto: si ritrovano finalmente assieme, sotto lo stesso tetto che li ha visti crescere, il pratico e un po’ distaccato Vicente, il primogenito, e il fratello José, scrittore per il teatro e forse anche di romanzi, e Carla, la più piccola, che ha già una bimba che le assomiglia molto.

Continuando a sfogliare La casa, che ha un formato orizzontale che ricorda piacevolmente le planimetrie, con ogni vignetta a fare da piccola stanza, avvertiamo sempre di più un senso di familiarità − questo perché José è Paco e Antonio è il padre di Paco. E questa è la storia di una casa di famiglia che non aveva ancora una storia, perché abbandonata − prima col pensiero che con i fatti.

«Porto rancore verso il me stesso bambino, perché non sapeva molto e non ha fatto domande. Ma forse era una generazione che non ci sapeva fare molto con i sentimenti. Non so come sarà tra figlia e padre [parla di se stesso e della propria bambina], ma tra padre e figlio i sentimenti erano tenuti sempre nascosti, le conversazioni standard e per nulla emotive. […] Quando ho iniziato [La casa] ho aperto Word e ho cercato di scrivere tutto quello che sapevo su mio padre: ne sono uscite due pagine. Non ho mai avuto grandi conversazioni con lui sulla sua vita. Ed è triste.»¹

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«La casa è un’occasione per capire chi siamo»² dice Paco Roca ed è davvero così: protetti dai pericoli esterni e finalmente padroni di uno spazio, abbiamo modo per la prima volta, in una casa − nella nostra casa − di essere noi stessi e di esprimerci come singoli e come piccolo clan, con le proprie regole e riti. Lo spazio domestico si chiama infatti così perché è quello della domus, cioè quello familiare inteso come “della famiglia”, ma è anche quello addomesticato, cioè familiare come “conosciuto”.   Anche se la costruzione di una casa per le vacanze era per Antonio probabilmente soprattutto il tentativo di avvicinarsi, almeno all’apparenza, a un certo status sociale, l’idea del guadagnarsi, a un livello più profondo di quello puramente economico, il proprio spazio nel mondo ritorna continuamente e con forza: mettendo i figli al lavoro per scavare una piscina, per piantare alberi nel giardino e seminare nell’orto, per rifare il muretto, Antonio plasmava lo spazio e lo addomesticava, lo rendeva parte della famiglia. «Conoscere la casa per me significa conoscere mio padre»²: sfogliare La casa è rendere omaggio alle storie delle stanze e delle persone che le hanno abitate.

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Due case da lasciare/in cui tornare musicali: Ritorno a casa degli Afterhours, La domenica c’è il mercato dei Fine Before You Came. E due poetiche da lasciare/da vendere: L’ultimo giro di Sergio Pasquandrea, La casa esposta di Marco Giovenale.

Le citazioni di Paco Roca segnate con un 1 sono tratte (e da me tradotte) (spero non male) dall’intervista che ha fatto per il sito 20minutos. Quelle con il 2 vengono da un’intervista che Giorgio Biferali ha fatto all’autore per L’Espresso

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