Trame Sonore: il Chamber Music Festival di Mantova. Quattro passi con Danusha Waskiewicz e due parole con Chiara Bertoglio

Andare a Mantova durante Trame Sonore, il festival internazionale di musica da camera, riesce a farti smettere di essere pessimista. Immaginate di guidare per una strada tortuosa, fino a una svolta da cui appare, cinta da un abbraccio di fronde ed acque luminose, una città minuta da cui torreggiano bastioni medievali e cupole del Rinascimento; una città di piazze e portici dove nelle teche riposano spade ed arazzi, giganti tuonano dalle pareti e si cucinano fumanti risotti  mentre nei bicchieri sfrigola il vino. Immaginate che per cinque giorni le sale, le chiese e i teatri più splendidi risuonino senza interruzione delle più ricercate melodie prodotte in Occidente, eseguite da alcuni fra i migliori musicisti della Terra. Così, pur non essendo sempre libero l’ascolto, la città diventa musicale, anche se rari sono i musicisti che suonano per le strade – unica vera possibilità di creazione di un originario spazio di condivisione musicale immediata – si genera un connubio pittorico, architettonico, letterario e musicale di estasi estetica: in saloni affrescati si introduce la poetica del testo che sosterrà l’opera musicale e in quella sala, in quel momento, le vite palpitanti di chi ascolta e di chi esegue si intrecciano assieme a quelle aleggianti di chi ha composto, scritto, dipinto e costruito.

Mantova-Mantua-by-nightMantova è stata nominata capitale italiana della cultura quest’anno e per tutto il 2016 ha in programma festival ed eventi che perseguono il culto del bello e del buono. Durante Trame Sonore si possono udire arie amate e conoscere brani e musicisti ignoti, è possibile assistere a una Summertime di Gershwin suonata alla chitarra nella Sala dei Giganti, alle Folk Songs di Luciao Berio dentro agli unici palchi settecenteschi del teatro Bibiena, o a un Notturno di Chopin nella sacra Rotonda di San Lorenzo mentre fuori guardano le stelle.

Danusha_Waskiewicz(2)Proprio alla fine di un concerto ad ingresso libero nella chiesa romanica abbiamo avvicinato la violista Danusha Waskiewicz , le cui scarpe con suola di gomma avevano fino a quel momento balzellato su duble e gavott di Bach ed erano ora pronte a filare verso un concerto ancora mai provato. Sorseggiando una bibita con le mani ingombre, la musicista invitata da Claudio Abbado  ad essere prima viola nell’Orchestra Mozart di Bologna, nello spazio che separa Piazza dele Erbe dall’ingresso del Palazzo Ducale, ha riso ripensando a quando i suoi genitori musicisti l’avevano proposta come rimpiazzo dell’ultimo momento per l’elemento indisposto di un’orchestra – aveva sei anni e quello fu il suo primo concerto – e si è poi stupita nel sentirsi chiedere da quali compositori traesse ispirazione. Nessun compositore, tranne l’armonia.

chiaraScomparsa poi nelle sale del Palazzo, seguendo le scale abbiamo incontrato le immagini riflesse della Sala degli Specchi, qui Chiara Bertoglio, la più giovane donna diplomata a Santa Cecilia nella storia dell’Accademia, spiegava la tensione esistente tra vita e morte nell’opera “Quadri da un’esposizione” del russo Modest Mussorskij, passando poi ad eseguirla al piano solo con inaudita potenza e dolcezza. Là si è dispiegato appieno il potere della musica, accolto da chi sa ascoltare, premiato da ciò che accade dietro alle palpebre; la percezione guidata dell’unificazione in un contesto che una città medievale, un bosco, una stanza, riescono a trasmettere quando si è soli, accompagnati. Alla fine dell’esibizione la curiosità ha portato ad alcune domande e a queste risposte.

 

Guardandola suonare erano gli occhi più che le mani ad attirare l’attenzione, spesso chiusi o socchiusi, sapresti descrivere quello che accade internamente quando la musica fluisce da te eseguendo una partitura?
È vero: quando le necessità dell’esecuzione non mi impongono di guardare la tastiera, preferisco chiudere gli occhi. Ciò mi permette di ascoltare con maggior consapevolezza, direi con ogni fibra dell’essere; di pensare intensamente alla musica; di limitare ogni tipo di distrazione estranea a me stessa; di puntare tutto sull’udito e il tatto, che si affinano ed approfondiscono. Ma questo riguarda l’aspetto “fisico” dell’esecuzione, che rispecchia una realtà interiore ma non la esaurisce. Tenere un concerto è per me cercare di entrare con tutta me stessa nel mondo interiore raffigurato dai brani che interpreto, affinché questi a loro volta possano “parlare” a chi mi ascolta, regalando qualcosa – spero – di importante e prezioso. È un atto di comunicazione intensa e totalizzante, oltreché un’attività complessa che richiede tutta la mia concentrazione al servizio della musica e dell’ascoltatore.

Qualcosa cambia se è lei stessa a generarla originalmente?
Certo! Purtroppo mi sono cimentata solo raramente con l’improvvisazione in pubblico, e ancor più raramente con la composizione, anche se forse sarebbe uno dei miei sogni più grandi. Tuttavia, vivendo a stretto contatto con i capolavori dei più grandi geni della musica, non posso non sentirmi piccola piccola di fronte a loro, e chiedermi se posso veramente aggiungere qualche nota a ciò che la loro eredità già ha lasciato. Comunque, improvvisare o comporre dà naturalmente un’altra libertà, perché si toglie una delle realtà nei confronti della quale l’interprete musicale è responsabile, ossia l’autore della musica; nello stesso tempo, il coinvolgimento è ancora maggiore perché le emozioni cui si dà voce sono le proprie, ed è un po’ un mettersi a nudo nelle proprie fragilità e nelle proprie potenzialità.

E quali rivelazioni credi che le vibrazioni di cui è composta la musica possano portare?
Domanda impegnativa… Su un piano immediato, direi che è stato spesso dimostrato l’effetto positivo dell’ascolto (e della pratica!) musicale sul benessere globale dell’essere umano, sia sul piano fisico sia su quello mentale. Lei mi chiede però delle “rivelazioni”: ecco, forse direi che la musica “rivela” l’incanto del reale. La musica, nella sua natura impalpabile e fragile, eppure così potente sulle emozioni umane, può aiutare l’essere umano a realizzare che la sua esistenza non si svolge solo sul piano del “qui ed ora”, ma che c’è un quid misterioso, un qualcosa che non può essere ridotto a ciò che l’uomo può “comprendere”, può limitare, può spiegare interamente.

A proposito di questo “quid misterioso”, pensi che lo studio della musica classica occidentale avvicini al culto della divinità occidentale?
In due parole, direi: non obbligatoriamente e non immediatamente. Ma l’affermazione va qualificata. Prima considerazione: nella mia esperienza di cristiana, ciò che ho ricevuto a livello spirituale ed umano dalla musica di Bach è pari, se non superiore, a ciò che ho ricevuto da molte letture di testi teologici. Tuttavia, la musica può essere apprezzata, goduta ed amata anche da chi non condivide la mia visione della vita, ovviamente. E il bello della musica è proprio che non obbliga nessuno, ma solo si offre in modo accogliente a chi la vuole, a sua volta, accogliere. Vorrei però aggiungere che, nella visione cristiana, il vero, il bello ed il buono coincidono, e il loro coincidere si colloca in Dio stesso. Ognuno di questi aspetti, da solo, è monco: la bellezza diventa estetismo, la verità integralismo, la bontà buonismo. Quando sono insieme, essi sfolgorano e conquistano. Questo richiamo dell’infinito è ciò che, secondo me, rende uomo l’uomo; a questo la musica può dar voce, e può anche risvegliare questa nostalgia di infinito che troppo spesso nell’oggi travolgente del quotidiano si soffoca e scompare. A me piace pensare che la mia musica possa essere una carezza sulle ferite di chi mi ascolta, ed una freccia verso l’alto che porta a porsi qualche domanda, ad incantarsi davanti al miracolo dell’esistenza.

Un anelito che forse porta qui tante persone, molti dei musicisti accorsi a Mantova per il Festival in più sono giovani, così come i volontari che vi partecipano, l’uditorio però per la maggior parte rimane incanutito. C’è una funzione sociale che secondo te la musica classica riveste?
Sono rimasta entusiasta della mobilitazione di giovani per il Festival Trame Sonore, e desidero cogliere l’opportunità di ringraziarli per la loro presenza e la loro squisita gentilezza. Ma la tua osservazione è ahimé verissima. E tristissima: perché secondo me la musica è uno di quegli elementi che fanno la differenza tra il sopravvivere ed il vivere. Mi sono resa conto, anche attraverso attività di “volontariato musicale”, di quanto la musica possa aiutare persone sofferenti, di tutti i generi (malati, detenuti, anziani, bambini “difficili”…), anche a prescindere dal suo valore culturale e dalla preparazione dell’ascoltatore. Inoltre, far musica insieme è una delle attività più educative e “pro-sociali” che esistano. C’è assoluto bisogno di aiutare la musica a farsi spazio nella società, perché ciò che essa può donarci è insostituibile.

E registri una differenza con quella musica detta “popolare”?
Se con “popolare” intende “pop” o “nazionalpopolare”, indubbiamente sì: spesso infatti si tratta di musica composta a partire da strategie retoriche miranti al successo commerciale, che giocano con i meccanismi del “piacere” per conquistare una fetta di mercato. La musica tradizionale e quella spontanea, invece, sono una grandissima risorsa troppo spesso snobbata dalla musica “colta”, perché rappresentano il mezzo di espressione di fasce della popolazione che altrimenti non hanno voce, oltre a meritare un ascolto attento e rispettoso come forme d’arte a sé stanti.

Popolare poi la musica lo è sempre, nel suo potere coesivo, ma quale è il tuo rapporto con il tuo pubblico, sia esso un teatro intero o una persona soltanto?
Un rapporto di ascolto reciproco, perché un concerto non è mai un monologo. Un rapporto di amicizia, perché spesso, mentre tengo un concerto, cerco di pensare a chi mi ascolta non come ad un giudice o ad un “cliente”, bensì come a qualcuno che è venuto lì per cercare qualcosa di bello, e mi chiede di donarglielo. E quanto più percepisco che chi mi ascolta si lascia coinvolgere dalla mia musica, la ascolta con rispetto e con un silenzio “che parla”, che mi dice attenzione e amore, tanto più sono motivata a dare tutto di me stessa, cercando di essere fedele a questo compito di portatrice di bellezza e di vicinanza.

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