Tropismi calviniani: Il barone rampante

Il mito del buon selvaggio è sempre stato presente all’interno della nostra cultura, la proiezione di un uomo che vive lontano dalla società e dalla sua corruzione. Non è un caso, dunque, che ancora oggi se ne parli e venga studiato.

Nel campo della letteratura basti pensare a opere come Robinson Crusoe (Defoe; 1719), Paul et Virginie (Bernardin de Saint-Pierre; 1787), Wilden o Vita nei boschi (Thoureau; 1854), Il libro della giungla (Kipling; 1893), fino ad arrivare aTarzan (Burroughs; 1912) e Nelle terre estreme di Jon Krakauer – pubblicato nel 1997 – da cui è stato tratto il film Into the wild (2007). I protagonisti di questi romanzi sono lontani dalla società e vivono in armonia con la natura.

Il mito del buon selvaggio si sviluppa di pari passo con le teorie illuministe, ne parla Rousseau ne L’émile ou l’éducation, che altro non è che un trattato di formazione che riepiloga le cinque fasi fondamentali del giovane considerate dal filosofo.

Tutte le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell’uomo. Egli costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare frutti non suoi; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il cane, il cavallo, lo schiavo; tutto sconvolge, tutto sfigura, ama la deformità, le anomalie; nulla accetta come natura lo ha fatto, neppure il suo simile: pretende ammaestrarlo per sé come cavallo da giostra, dargli una sagoma di suo gusto, come ad albero di giardino. (Rousseau)

Ma il mito del buon selvaggio ha origini più antiche, sebbene si sia sviluppato con l’Illuminismo.
Giorgio Dolfini ne Immagini del medio evo parla della relazione fra l’individuo (il buon selvaggio) e il luogo in cui si trova, una cosiddetta terra felice come potrebbe essere il paradiso terrestre. E quale uomo meglio di Adamo nella tradizione biblica può rappresentare il buon selvaggio? L’idea del buon selvaggio e di questa terra utopica, lontana dalla corruzione, non rappresenta altro che un ideale. Scrive Dolfini: «Il buon selvaggio è un modello da non realizzare in se stessi, ma da avere sempre a disposizione al fine di poterlo contemplare. Anche perché è una proiezione retrograda, cioè situata nel proprio passato, che conferma il ‘cattivo’ civilizzato nei suoi valori e vantaggi acquisiti e irrinunciabili e gli permette di compiangere quelli necessariamente perduti. Il mito del buon selvaggio è frutto di una civiltà che riflette su se stessa secondo parametri etici di aspirazione universale, ma con qualche dubbio sulla propria autenticità».

L’intensa relazione fra uomo e natura la si ritrova anche in letteratura italiana: «Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi» ed era il 1957 l’anno in cui Italo Calvino scrisse Il barone rampante.

Dolfini scrive nel suo saggio: «Vorrei non lasciarmi sedurre affermando che la figura del buon selvaggio è rappresentazione di natura puramente intellettuale» e di natura puramente intellettuale è fatto Cosimo che a causa di un litigio con il padre decide di salire sugli alberi e di non scendere più. E così farà come ricorda la sua lapide “Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo”».

La prima edizione de Il Barone rampante uscì per Einaudi nel 1957, Calvino nel 1965 curò un’edizione scolastica preceduta da una prefazione sotto l’anagramma-pseudonimo di Tonio Cavilla, docente e pedagogista. Nella prefazione, Cavilla cerca di dare un’illustrazione generale del libro. Parla inizialmente di nostalgia nei confronti della letteratura della fanciullezza, i personaggi-selvaggi dei libri citati sopra come Tarzan o Mowgli. Il barone rampante si trova dunque negli scaffali della letteratura per ragazzi e si potrebbe associare a libri come Peter Pan e Alice nel paese delle meraviglie. Nonostante la veridicità storica del romanzo che si sviluppa di pari passo con la Rivoluzione francese fino ad arrivare al 1820, età napoleonica, il luogo in cui è ambientato il romanzo è puramente inventato, Cosimo è un baroncino di Ombrosa, anche se ci è detto che Ombrosa si trova in Liguria e che vi sono reminiscenze di luoghi in cui l’autore ha vissuto. einaudi
Infine Tonio Cavilla si domanda quale sia l’atteggiamento dell’Autore verso Cosimo, non quello caricaturale venato di tragica pietà che ha Cervantes per Don Chisciotte; né quello di partecipazione romantica filtrata attraverso una spietata lucidezza critica, che ha Stendhal per Fabrizio de Dongo. Di fatto, per chi vuol trarre una morale dal libro, le vie che restano aperte sono molte, anche se nessuna si può esser certi che sia la giusta. Quello che possiamo indicare come dato sicuro è un gusto dell’Autore per gli atteggiamenti morali, per l’autocostruzione volontaristica, per la prova umana, per lo stile di vita. E tutto questo tenendosi in bilico su sostegni fragili come rami circondati dal vuoto.

Il Barone rampante, quindi, è più che un romanzo per ragazzi. Si potrebbe quasi dire che sia un albero, una quercia: dalle radici che si possono individuare nella Storia si giunge in cima dove si ritrova il protagonista con il suo carattere e la sua moralità, passando per rami, identificabili nelle avventure vissute e talvolta arricchite di dettagli inventati da lui in persona e per foglie che possono rappresentare virtù e tematiche proprie del romanzo: coraggio, amore, amicizia, incontri e cultura.

Cerchiamo, dunque, di salire insieme su questo albero per addentrarci nel fantastico mondo calviniano e ricercare la moralità propria del romanzo in connessione con la natura e i tropismi che – come dice Nathalie Sarraute – sono quei movimenti indefinibili, che glissano rapidamente ai limiti della nostra coscienza; sono all’origine dei nostri gesti, nelle nostre parole; dei sentimenti che manifestiamo, che crediamo di provare.

Come scritto sopra, il romanzo si svolge a Ombrosa – località fantastica – in un arco di tempo che abbraccia anche la Rivoluzione francese e l’ascesa di Napoleone. Le avventure di Cosimo (eccetto il capitolo XVII) ci vengono narrate da Biagio, suo fratello minore, che ammira molto il suo consanguineo e nonostante ciò, cerca di rimanere fedele alla realtà dei fatti accadutigli. L’ambientazione storica permette alla fantasia di Calvino di portare la fama di Cosimo – celui qui vit sur les arbres – fino a Parigi, come ci racconterà Biagio.

Il vecchio filosofo se ne stava sulla sua poltrona, coccolato da uno stuolo di madame, allegro come una pasqua e maligno come un istrici. Quando seppe che venivo da Ombrosa, m’apostrofò: – C’est chez vous, mon che Chevalier, qu’il y a ce fameux philosophe qui vit sur les arbres comme un singe? E io lusingato, non potei trattenermi dal rispondergli: C’est mon frère, Monsieur, le Baron de Rondeau. Voltaire ne fu molto sorpreso, fors’anche perché il fratello di quel fenomeno appariva persona così normale, e si mise a farmi domande, come: – Mais c’est pour approcher du ciel, que votre frère reste là-haut? – Mio fratello sostiene, – risposi – che chi vuol guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria, – e il Voltaire apprezzò molto la risposta.

Ma anche altre figure storiche sono presenti all’interno del romanzo, basti pensare a Diderot che ringrazia Cosimo con un biglietto per avergli mandato la sua opera incompiuta Progetto di Costituzione d’uno Stato ideale fondato sopra gli alberi o addirittura Napoleone in persona – al capitolo XXVIII – che dice «Se io non era l’Imperator Napoleone, avria voluto ben essere il cittadino Cosimo Rondò!».
In un periodo illuministico, è anche presente la religione e l’ordine dei Gesuiti che fu soppresso da papa Clemente XIV nel 1773. Don Sulpicio sarà il nemico gesuita di Cosimo quando egli si troverà a Olivabassa.
Inoltre, ispirandosi alla Rivoluzione francese e ai cahiers de doléances, sarà Cosimo a inventare il cosiddetto quaderno della doglianza e della contentezza perché «Cosimo pensò anche se era un quaderno di doglianza non era bello che fosse così triste, e gli venne l’idea di chiedere a ognuno che scrivesse la cosa che gli sarebbe piaciuta di più»

Prima di conoscere le amicizie e gli amori di Cosimo, tra cui quello per la cultura oltre che per le donne, vediamo di addentrarci nel suo tropismo. Si potrebbe quasi dire che vi è del panismo, quel rapporto intrinseco tra l’uomo e la natura: «Dall’albero più alto Cosimo nella smania di godere fino in fondo quel diverso verde e la diversa luce che ne traspariva e il diverso silenzio, si lasciava andare a testa in giù e il giardino capovolto diventava foresta, un mondo nuovo». Vi è un’immersione totale nell’elemento naturale, «Cosimo stava volentieri tra le ondulate foglie dei lecci (o elci, come li ho chiamati finché si trattava del parco di casa nostra, forse per suggestione del linguaggio ricercato di nostro padre) e ne amava la screpolata corteccia, di cui quand’era sovrappensiero sollevava i quadrelli con le dita, non per istinto di far del male, ma come d’aiutare l’albero nella sua lunga fatica di rifarsi. O anche desquamava la bianca corteccia dei platani, scoprendo strati di vecchio oro muffito. Amava anche i tronchi bugnati come ha l’olmo, che ai bitorzoli ricaccia getti teneri e ciuffi di foglie seghettate e di cartacce samare; ma è difficile muovercisi perché i rami vanno in su, esili e folti, lasciando poco varco. […] Queste amicizie e distinzioni Cosimo le riconobbe poi col tempo a poco a poco, ossia riconobbe di riconoscerle; ma già in quei primi giorni cominciavano a far parte di lui come istinto naturale». Incontro con Italo Calvino

Fin dal primo giorno in cui Cosimo vive sugli alberi, decide di farlo creando un rapporto amichevole con la natura, crea una sua personale toilette e un sistema anti-incendio con la raccolta di acqua piovana. «Andava alla fontana, perché aveva una sua fontana pensile, inventata da lui, o meglio costruita aiutando la natura. […] Così il giovane Piovasco di Rondò viveva civilmente, rispettando il decoro del prossimo e suo proprio».

Cosimo dagli alberi non scenderà più. Questa sua scelta lo porterà a battibeccare con il padre che non approva la decisione del figlio, vivere sugli alberi, infatti, non si addice al figlio di un barone.

Date un bello spettacolo di voi! – cominciò il padre, amaramente. – E proprio degno di un gentiluomo! – (Gli aveva dato il voi, come faceva nei rimproveri più gravi, ma ora quell’uso ebbe un senso di lontananza, di distacco)
Un gentiluomo, signor padre, è tale stando in terra come stando in cima agli alberi, – rispose Cosimo, e subito aggiunse: – se si comporta rettamente.

Cosimo vivrà rettamente fino alla fine dei suoi giorni, dice Biagio: «Solo essendo così spietatamente se stesso come fu fino alla morte, poteva dare qualcosa a tutti gli uomini». Anche se avrà momenti in cui riflette sull‘idea stessa della lontananza, dell’incolmabilità, dell’attesa che può prolungarsi oltre la vita perché «l’amore per questo suo elemento arboreo seppe farlo diventare, com’è di tutti gli amori veri, anche spietato e doloroso, che ferisce e recide per far crescere e dar forma». Alla fine del libro, Cosimo incontrerà un ufficiale russo con cui avrà un dialogo che riassume il suo essere:

Parlò ancora a Cosimo:
Vous voyez….La guerre…Il y a plusieurs années que je fais le mieux que je puis une chose affreuse: la guerre…et tout cela pour des idéals que je ne saurais presque expliquer moi-meme…
Anch’io, – rispose Cosimo, – vivo da molti anni per degli ideali che non saprei spiegare neppure a me stesso: mais je fais une chose tout à fait bonne: je vis dans les arbres.

Di persone Cosimo ne conosce parecchie, le relazioni che intrattiene altro non sono che dimostrazioni degli ideali francesi di quel tempo, quel famoso liberté, égalité, fraternité.

Capì questo: che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone (mentre vivendo per proprio conto capita più spesso il contrario, di vedere l’altra faccia della gente, quella per cui bisogna tener sempre in mano alla guardia della spada).

Tra i tanti incontri ci soffermeremo su alcuni che sono stati più importanti per lui, come Gian de Brughi, un bandito a cui Cosimo insegnerà le plaisir du texte, «A chi era utile, ormai, Gian de Brughi? Se ne stava nascosto coi lucciconi agli occhi a leggere romanzi, colpi non ne faceva più, roba non ne procurava, bel bosco nessuno poteva più fare i propri affari, venivano gli sbirri tutti i giorni a cercarlo e per poco che un disgraziato avesse l’aria sopsetta lo portavano in guardina».

La persona che Cosimo ama di più è di certo Viola, la sua vicina di casa d’infanzia. Quando la conosce si trova già sugli alberi e le diviene amico. «Tutto questo provò Cosimo, ma, insieme, un sentimento opposto, se pur confuso: un sentimento fatto di timidezza, orgoglio, solitudine, puntiglio». Quando Cosimo ritrova Viola negli anni seguenti, già formato nella sua educazione sentimentale ed erotica, sarà fiero di dirle che dagli alberi lui non è mai sceso, per dimostrare quanto sia forte la sua persona e il suo ideale. I due vivranno una storia d’amore: «Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così», fino a quando, però, si lasceranno perché «Non ci può essere amore se non si è se stessi con tutte le proprie forze» ed è questo che Cosimo rimprovera a Viola.

Prima di ritrovare Viola, Cosimo giunge tramite la foresta a Olivabassa dove sugli alberi vivono anche altri uomini, nobili spagnoli che si erano ribellati a Re Carlos III per questioni di privilegi feudali contrastati ed è lì che incontra Ursula. Il Barone insegnerà anche a lei il plaisir du texte, facendole conoscere testi come Paul et Virginie e La nouvelle Eloise. Ma anche la loro storia d’amore volgerà al termine poiché i nobili spagnoli scenderanno dagli alberi per tornare in terra natìa, essendo stato revocato il bando. Cosimo, però, non scenderà dagli alberi per essere fedele alla sua promessa di rimanere lassù per sempre.

L’amore di Cosimo non è soltanto rivolto alle donne – si diceva che tantissime donne fossero salite sugli alberi per potere stare con lui – o alla letteratura e agli ideali del tempo. Infatti, Cosimo stringerà un legame anche con un bassotto (che apparteneva a Viola) che lui ribattezzerà Ottimo Massimo: Quella necessaria presenza che per il cane è l’uomo e per l’uomo è il cane, non li tradiva mai, né l’uno, né l’altro; e per quanto diversi da tutti gli uomini e cani del mondo, potevan dirsi, come uomo e cane, felici.

Viene da domandarsi, dunque: Cosa ci regala questo libro? Quando leggiamo – e il romanzo che stiamo leggendo cattura la nostra attenzione – ci immergiamo nelle pagine e non vorremmo mai arrivare alla fine, si viene a creare quel rapporto intrinseco che Cosimo instaura con la natura, con gli alberi su cui visse fino alla fine. Non si può non guardare il protagonista del romanzo come una persona a cui volere assomigliare, la sua forza e il suo coraggio, le tante avventure vissute, i legami amorosi, amichevoli, familiari, lo portano a essere un personaggio di tutta attualità e spingono il lettore a immaginare, ad affondare nella fantasia. La narrazione ci trasporta sugli alberi con lui, per guardare in alto. Cosimo aspira al cielo, sa di essere creatura vivente destinata alla morte, ma è lui che sceglie il suo destino. Vive su un albero e come albero, contando gli anni così come si contano gli anni degli alberi attraverso i cerchi della corteccia, fino a quando non si arriva alla fine e, invece, di essere abbattuto come spesso accade agli alberi, Cosimo decide di librarsi nell’aria, di raggiungere il cielo. E non si pensi che questa sia una metafora religiosa per raggiungere il paradiso, si dovrebbe pensare, piuttosto, all’idea utopica di raggiungere ciò che è realmente irraggiungibile: in questo risiede il concetto di fantasia. Cosimo è tropismo, movimento naturale che dalla nascita giunge alla morte, così come lo siamo anche noi.

Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se steso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito.

1. Dolfini, Immagini del medio evo

2. Calvino, (2013), Il barone rampante, ed. Mondadori

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.