Un libro di nome “Libro”: Peixoto e l’essere collegati

Da tempo indefinito (due anni? più?) giaceva nella mia lista dei libri da leggere su Goodreads, salvata così dagli scoppi dei computer e dalle dimenticanze, Libro di José Luís Peixoto. Non ricordo come mi fosse venuta voglia di leggerlo, visto che il nome dell’autore mi è totalmente sconosciuto; forse è stato addirittura suggerito da Goodreads stesso, che ha quella bellissima funzione del “se ti piace questo ti potrebbe piacere quest’altro” e di solito ci azzecca (e lo so perché suggerisce libri che ho già letto ma che ho ovviamente dimenticato di catalogare). Ho fatto comunque in tempo a dimenticarmene un numero infinito di volte, finché non ci siamo incrociati di nuovo per caso, qualcosa come due settimane fa, e ho cominciato finalmente a leggerlo.

Pubblicato da Einaudi nel 2013 e in patria tre anni prima, è il penultimo romanzo dello scrittore portoghese José Luís Peixoto. Il Portogallo in cui vive è quello del dopo Salazar (la Rivoluzione dei garofani scoppia proprio l’anno di nascita di José) e quello dell’Alentejo, terra natia che condivide con un altro grande scrittore, José Saramago − nome che incontrerà anche nel 2001, quando con Nenhum Olhar (Nessuno sguardo nella traduzione italiana de La Nuova Frontiera, 2002) vince il Premio letterario José Saramago, appunto, a 27 anni.

(c) Ricardo Graça

(c) Ricardo Graça

Peixoto, però, mi sembra lontanissimo da qualsiasi riferimento letterario mi sia venuto in mente leggendolo.  Si fa fare le foto ufficiali con la maglietta che dice “Pink Freud”, non nasconde i tatuaggi nemmeno nelle immagini promozionali, anzi, e ha parecchi piercing, oltre che gli amici nelle band gothic metal portoghesi. Probabilmente non riesco a pensare a nulla di più lontano dall’eleganza fisica di Saramago, di Márquez, della Allende o di Amado (che pure ogni tanto si metteva delle camicie che sembrano i centrini di nonna), dalla sensualità della Lispector, dall’intellettualismo europeo di Cortázar, ma nemmeno del sorriso sornione e consapevole di Perec (vi sfido a trovare una foto in cui abbia un’espressione diversa. Pronti, via). Eppure, leggendolo, tutti questi nomi si sono fatti puntualmente avanti nella mia testa.  Forse si sta facendo spazio, soprattutto tra la critica, l’idea che la scrittura possa indossare un vestito diverso (per noi oggi “normale”) rimanendo, sotto, innegabilmente letteratura. Ed è forse anche il momento internazionale di una scrittura pienamente di fine Novecento ed europea − questo, in particolare, l’ho pensato dopo aver letto una citazione che Cristina Celani ci ha riportato nel #mesedautore dedicato a Orhan Pamuk − che ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per l’apporto alla cultura europea, non ultimo il Premio Sonning nel 2012 (e Peixoto ha vinto la prima edizione del Premio Salerno, nel 2013, guadagnandosi il titolo di “Libro d’Europa” proprio con Libro) − e che mi sembra abbia molto in comune con queste parole:

Scrivere un romanzo vuol dire portare dentro di sé un segreto enorme. Provare a disfarsene parlandone non serve a niente. Il mondo diventa conoscibile solo dopo la scrittura. L’unico modo per liberarci del peso del segreto è scriverlo. Fino ad allora, è impossibile da condividere.

José Luís Peixoto

I protagonisti di Libro appartengono a tre grandi gruppi d’età: i giovani, che incontriamo prima bambini e la cui vita seguiamo lungo le pagine, che sono Ilídio, Cosme, Galopim e Adelaide, i grandi, che sono Josué, la madre di Ilídio, il padre di Cosme, e quelli già un po’ anziani, come la Lubélia o il Battifiacca − più alcune figure ricorrenti, marginali per come sono trattate ma cruciali per la trama, come Donna Milù o il prete. In modi tutt’altro che confortevoli o promettenti si trasferiscono a Parigi, tornano, viaggiano avanti e indietro, incapaci di rassegnarsi all’abbandono. È anche la storia della famiglia Peixoto e di tantissimi altri portoghesi: «Un milione e mezzo di persone sono emigrate [dal Portogallo] in Francia tra il 1960 e il 1974: circa il 15% di tutta la popolazione del paese. Questa era la dimensione del segreto che mi portavo addosso mentre scrivevo Libro».

libro_11E  se l’amore che si fa aspettare una vita e che poi si ritrova (non vi sto svelando niente, perché avete già capito anche voi il meccanismo che si attiva a pagina 158 − cioè più o meno a metà del libro) è praticamente quello de L’amore ai tempi del colera in tutta la sua bellezza e carica nostalgica (per me, che non rileggo questo libro da almeno dieci anni ma che so tutto a memoria, e perché è caratteristica portante del narrare sudamericano), due terzi del libro, dall’inizio fino a pagina 226 (quando improvvisamente nasce l’io, la prima persona singolare), sono perfettamente portoghesi e brasiliani (è un complimento, si sappia), l’ultimo terzo è improvvisamente Cortázar e anche Perec, a volte lirico come la Lispector. Una strana curva centro−europea, inaspettata, che a volte è (fin) un po’ (troppo) pedante, ma che, a posteriori, comincia a funzionare bene, quando si scopre che Peixoto ha passato l’infanzia a immaginare quasi ossessivamente la Parigi che i parenti raccontavano durante i pranzi domenicali: la pedanteria e l’iperprecisazione sono allora il tentativo di tenere il filo di ricostruzione il più saldo possibile, perché il passare delle cose non disperda nomi e libri che a chiunque altro sembrerebbero vuoti, perché la ripetizione diventa rassicurazione − che le cose esistono, sono esistite, che ne siamo stati parte. Che è anche il meraviglioso inganno della letteratura, basata sul «patto di generosità» di Sartre.

In questo romanzo ci sono biblioteche e studi universitari e copie prestate in cambio di sesso e c’è un libro in particolare attorno a cui sembra girare la trama e che connette più persone, che appare addirittura già nell’incipit: «La madre pose il libro nelle mani del figlio. Che mistero». La vera sorpresa è scoprire perché Libro si chiami così.

 Questo libro potrebbe finire qui. Mi sono sempre piaciute le trame circolari. È il modo che hanno gli scrittori, persone grandi come tutte le altre, per suggerire l’eternità. Se finisce come comincia è perché non finisce mai. […] Ma tu sei ancora lì, ciao, e io sono ancora qui e non potrei andarmene senza ringraziarti. Qui e lì è ancora lo stesso posto. Sono grato di questa semplice certezza. […] A volte penso a te senza dirtelo. Anche questi pensieri invisibili, ora, sono nelle tue mani. Reggi il mio nome.

José Luís Peixoto, Libro

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