Un libro potenzialmente perfetto e invece no | Clarice Lispector, Vicino al cuore selvaggio

Introduzione fatta a posteriori (come ogni buona introduzione): Avevo solo una vaga idea di quello che sarebbe successo in questo articolo quando ho cominciato a scrivere. Gran parte delle scoperte che convalidano le mie sensazioni sono state fatte nel corso della stesura stessa. Se qualche volta capiterà qualche esclamazione di sorpresa o qualche punto esclamativo di troppo, saranno tutti sinceramente autentici.

Perché un libro mi piaccia davvero, generalmente, non deve raccontare grandi accadimenti. Preferisco quando la narrazione e i personaggi si sentono costretti a fare i conti con il dopo: qualcosa è successo, sì, ma abbastanza in distanza, nel tempo e nello spazio, e viene costantemente filtrato dal punto di vista predominante. Non mi piace quando il libro svolge una trama evidente: mi piace molto, invece, il regalo narrativo piccolo, che non deve per forza trovarsi alla fine e non deve necessariamente essere un risarcimento.*
Mi piace quando questo dopo è fatto di cose molto quotidiane e insignificanti che seguono l’una all’altra. Quando la durata del tempo non è scandita precisamente ma ci si concentra piuttosto sulle sensazioni che questo scorrere lascia. Quando il protagonista e i personaggi principali hanno abbastanza chiarezza riguardo la loro condizione e sul fatto che sono inseriti in un libro di questo tipo. Quando tutto − il pensiero, le parole, il ritmo − scorre, ma non tranquillamente, quando tutto si lascia perturbare e increspare.
Facendo due conti, Vicino al cuore selvaggio di Clarice Lispector sarebbe dovuto balzare in cima a tutta la pila fisica e non dei miei libri-da-comodino, che sono i miei preferiti, e invece no, non è andata così.

Che altro posso dirti? Ho i capelli corti, castani, a volte porto la frangia. Un giorno morirò. Sono nata, anche. C’era poi quella stanza con noi due. Lui era bello. La camera girava un po’. (164)

Ci sono arrivata abbastanza per caso: una delle persone che seguo su Goodreads aveva appena condiviso il titolo nella sezione to-read. Partendo dal presupposto che a me e a questa persona generalmente piace lo stesso tipo di libri, ho pensato, in questo ordine: a questo, poi a questo, poi al fatto che la copertina era molto blu e quindi avrei dovuto trovarne presto una copia.
In effetti, il libro ha la trama che piace a me: praticamente non ce l’ha. Un capitolo è un flashback, uno si svolge nel presente, ancora flashback, ancora presente, a volte il punto di vista passa al marito (sì, c’è un marito) e ai suoi ricordi. Non c’è preavviso, anche i titoli sono sufficientemente vaghi (Il padre, Un giorno, L’uomo ecc) perché ci si affidi completamente al semplice fluire della narrazione. Mi piacciono molto i libri organizzati così, quindi per ora tutto bene.

Invece.
La voce principale è quella di Joana, che è giovane e sposata e fa più o meno quello che fanno tutte le giovani donne sposate − è malinconica. Non succede molto, durante questo libro: ricorda alcune cose sparse della sua infanzia (ma le ricorda piuttosto bene) e attraverso le analessi sono raccontati più o meno tutti gli altri eventi importanti, come il trasferimento dallo zio, l’incontro con il professore, il matrimonio. Al presente sono raccontati l’incontro con l’amante del marito e la conoscenza del proprio, di amante. E l’abbandono. Ma è tutta una scusa (sembra) per capire chi si è, quel qualcuno che non si può dire a parole, perché di parole a sufficienza ancora non ne sono state inventate per dire il groviglio che si ha dentro e che ogni giorni si porta a spasso.

Alcune pagine potrebbero essere state prese di peso dalle migliori della Woolf. Sì, so bene che detto da me suona come uno dei più grandi apprezzamenti che si possano fare, ma: sono questo e basta. Pagine migliori. Di continuo. Senza pause. Dalla Mrs. Dalloway (la donna che cammina sicura mentre i suoi pensieri sono decisamente altrove, l’attaccamento alla vita, lo sfavillio) alle Onde (le parole mai pronunciate prima, i momenti dell’infanzia, il tempo che scorre e il confronto con le proprie disillusioni − ed è pieno di onde e di mare, in questo libro, quasi a ogni pagina) senza posa. È che non sembrano molto di più − non sembrare molto di più della perfezione? Davvero? Eppure.

Persino soffrire era bello perché mentre la sofferenza più profonda si sviluppava, si continuava a esistere – come un fiume  a parte. E si poteva anche aspettare l’istante che arrivava… che arrivava… e d’improvviso si precipitava in presente e d’improvviso si dissolveva… e un altro ne arrivava… arrivava. (47)

Adesso è il momento di inserire un po’ di retroscena: la Lispector scrive questo libro nel 1944, quando ha solo 23 anni, ed è un’ebrea ucraina, rifugiata con la famiglia in Brasile. Questo libro così europeo nei contenuti e nello stile e coerente con quanto veniva scritto in quel periodo in questa metà del mondo è scritto in portoghese. Sicuramente doveva conoscere Joyce, dato che il titolo del libro è una citazione (che compare come epigrafe: «Era solo. Era abbandonato, vicino al cuore selvaggio della vita»), ma quando più avanti si occuperà di traduzione saranno Wilde, la Christie e Anne Rice le sue scelte.
Mentre la leggo in traduzione, sento due cose: la poesia italiana contemporanea che amo e una forte influenza sudamericana − tra i miei scrittori preferiti ci sono Márquez, Amado e la Allende, che qui ritrovo soprattutto con  qualcosa della Casa degli spiriti ed Eva Luna, specialmente nella scena in cui l’uomo le chiede di raccontarle una storia mentre sono a letto (esattamente la prima scena di Eva Luna racconta – e prima di lei Sherezade, ovviamente). Ha qualcosa dell’arrendevolezza del Perec mentre si accorge che niente è andato come si sarebbe voluto (mentre la Dalloway ancora un pochino di orgoglio ce l’ha). Mentre scrivo queste cose, controllo la traduttrice, che è Rita Desti. Non è un nome che mi suona nuovo. Cerco su Google: è la traduttrice di Saramago. Ah.

È curioso che io non sappia dire bene chi sono. Cioè, lo so bene, ma non lo posso dire. Soprattutto, ho paura di dirlo, perché nel momento in cui tento di parlare non solo non esprimo ciò che sento ma ciò che sento si trasforma lentamente in ciò che dico. O perlomeno ciò che mi fa agire non è ciò che sento ma ciò che dico. Sento chi sono e l’impressione alloggia nella parte alta del cervello, nelle labbra − soprattutto nella lingua −, sulla superficie delle braccia, e corre dentro, anche, ben dentro il mio corpo, ma dove, proprio dove, non so dirlo. (21)

Leggere Vicino al cuore selvaggio è leggere una Woolf poeticamente condensata e sensualmente sudamericana. Per troppe pagine, però, anche se sono solo 193. È sufficiente per disorientarmi. Se non addirittura nausearmi.
Il brutto è quando mi rendo conto, e continuo a farlo man mano che procedo in queste riflessioni, che non è solo tutta una mia impressione. In questo articolo del New York Times, il signor Gregory Rabassa, traduttore di (!) Márquez, Amado e Vargas Llosa, «described [Clarice Lispector] as the (!!) Kafka of Latin American fiction» − indovinate qual era lo scrittore preferito di Perec. Dai che è facile.    Rabassa racconta inoltre di averla incontrata e di essere rimasto, in quell’occasione, sconvolto da questa persona che «looked like Marlene Dietrich and wrote like (!!!) Virginia Woolf».

claricelispectorescritora

(Sul tavolo ho dimenticato il libro aperto. Non so bene a che pagina, verso il fondo. Mia madre si avvicina e lo spia. Legge qualche riga. «Sembra proprio un libro che potrebbe piacermi», dice. Mia madre non legge da tanto, ma i suoi romanzi preferiti sono stati scritti da Márquez e dalla Allende.)

Tu sai che non mento, che non mento mai, neanche quando… neanche sempre? Senti? parla, parla. Il resto allora non avrebbe importanza, niente avrebbe importanza… Quando dico quelle cose… quelle cose pazze, quando non voglio sapere del tuo passato e non ti voglio raccontare di me, quanto invento parole… Quanto io mento tu senti che io non mento? (160)

Mi crea confusione il fatto che se la Szymborska e la Woolf e la Allende potessero essere un’unica persona sarebbero state questa Lispector ucraino-brasiliana nel 1944. Non riesco a capacitarmene. Questo è un libro che parla della «distanza che separa i sentimenti dalle parole» (91), una delle cose che mi trovo sempre a cercare di leggere, in poesia e in prosa: mi piace il tentativo di avvicinamento, il fatto che sia fatto su misura da ognuno di noi ogni volta diversamente. Ma lei ha scritto tutto questo in un punto nel tempo e nello spazio che è parallelo e improvvisamente non lo è più, che condivide a distanza solo fisica con la Woolf la sensibilità della mente e del ritmo, con Perec e Kafka le origini e al tempo stesso la loro mancanza o negazione, con la Allende e Márquez un terreno geografico e culturale ma temporalmente li precede, per la poesia contemporanea italiana forse si tratta semplicemente di un miracolo della traduttrice, con tutti loro un personaggio principale autonomo e incerto, definito nel proprio trasformarsi e crearsi per contrapposizione, a cui non capita nulla di che ed è invece tutto.
Questo libro è  troppo, è davvero troppo. Mi sa che non mi piace.

Bisogna che non dimentichi, ho pensato, di essere stata felice, di essere felice in questo istante più di quanto si possa essere. Ma ho dimenticato, ho sempre dimenticato. (68)


Il mio profilo Goodreads è qui.
*Una delle cose più da-lasciare-senza-parole che io abbia mai letto e che ha messo in altissimo l’asticella di cosa è letteratura per me è la parentesi  dell’inciampo in Time passes, da To the Lighthouse. Non posso dire altro. Leggere per credere.

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