Una comunità senza empatia

*Aida e Mussie sono una giovane coppia che vive ad Asmara negli anni Novanta, sono entrambi due professionisti, laureati e hanno tre figli, il più piccolo ha un anno e il più grande sette. Vorrebbero andar via, così come fanno oggi tanti laureati nostrani, preparano tutto e volano verso il Nord Europa in cerca di fortuna. I bimbi rimangono con i nonni, giusto qualche mese per trovare il lavoro e una bella casa. Dopo poco tempo lavoro e sistemazione sono già pronti ma in Eritrea scoppia la guerra: nessuno può uscire o entrare. Siamo nel 1993, finita la guerra, anche la dittatura chiude le frontiere. Nel Frattempo Aida e Mussie sono in Svezia, vivono e lavorano li, ma i nonni muoiono e i tre bimbi finiscono in tre diversi orfanotrofi. Il più grande è il primo a intraprendere il viaggio, una traversata che per lui sarà più semplice di quanto non lo sarà per i suoi fratelli.
A 17 anni anche Joseph, il secondo, si mette in cammino, arriva in Italia, a Bologna, e qui impara la lingua in una scuola allestita da un centro sociale, si diploma in fretta e oggi studia medicina. In un pomeriggio di primavera del 2015 Joseph è preoccupato: suo fratello, il più piccolo, lo chiama per dirgli che sta in Tunisia, sta aspettando nel seminterrato di una casa insieme ad altra gente. Aspetta di essere imbarcato su uno dei catorci che attraversano il mediterraneo carichi di esseri umani e disperazione. Il viaggio lo ha pagato con gli ultimi risparmi dei nonni, dai 2000 ai 5000 euro per un biglietto di sola andata per una nuova vita, o per il fondo del mare. Joseph è preoccupato perché anche lui ha visto il mare di notte, ha temuto di venire inghiottito dalle onde nere del Mediterraneo e ha provato l’angoscia di dover vivere l’ultima notte della sua vita. Joseph ha 16 anni e non ha quasi conosciuto i suoi genitori, vuole vivere e vuole studiare, sogna una vita degna.
Il 18 aprile 2015, lui e altre 700 persone non hanno visto la terra per la quale hanno intrapreso il viaggio.

*Hiba è nata in Italia così come sua figlia, è un’insegnante, i suoi genitori vennero qui al seguito di una ricca famiglia di coloni dell’Abissinia negli anni ’30 come domestici. Lei non è stata molte volte nella sua terra d’origine: è nata e ha vissuto in un Paese libero, non ama le dittature, non ama che le si imponga un pensiero, uno stile di vita. Oggi Hiba è seduta al tavolo della sua cucina e ha in mano il suo libretto di assegni e un nodo in gola.
Suo marito, con cui è separata da tantissimi anni, sta poco bene, è malato di cuore. Lui vive in Africa, la sua compagna ha un cancro terminale ed entrambi hanno una figlia di 12 anni, Sara.
Non possono attraversare le frontiere per andar via, né per curarsi. Fra pochi anni Sara sarà chiamata, come i suoi coetanei, al servizio militare – così chiamano i lavori forzati al servizio dello Stato. Hiba sa quel che succede alle ragazze sole nei campi di lavoro, ha sentito troppe storie di abusi e di stupri. 20.000 è la cifra che serve per far venire in Italia il suo ex marito, la donna che glielo ha portato via e la loro figlia, ma lei non ha dubbi, la dignità umana vale più dei risparmi di una vita.

Non ho raccontato queste storie, brevi ed esemplari, per destare pietà ma per provare a dare una risposta. Anche se nomi e luoghi non sono veri, il resto è pura realtà che ogni giorno abbiamo sotto gli occhi. Tutti sappiamo quale sia la sofferenza di chi lascia la propria patria, i propri affetti, per sfuggire a situazioni politiche che non lasciano spazio a una vita serena, eppure continuiamo a rispondere allo stesso modo a ogni richiesta di aiuto: non sono problemi nostri.

La domanda che mi pongo da giorni è come si può rispondere a una città scesa in strada a bloccare l’arrivo 12 donne e 8 bambini? Come può essere possibile che degli uomini dotati di ragione possano mobilitarsi per questo e rimanere inerti di fronte al continuo saccheggio dei loro stessi diritti? È possibile che un uomo a cui viene sottratto il diritto al lavoro, alla sanità e all’istruzione rimanga inebetito ad osservare lo scempio e obbedire, salvo poi mostrare il cane inferocito che è in lui quando vede aiutare 20 esseri umani in fuga da guerra e dittatura?
Ebbene, è la solita vecchia domanda che si rinnova: noi italiani siamo razzisti? Purtroppo sì, lo siamo, e siamo anche i più razzisti d’Europa, siamo i più ignoranti riguardo gli stranieri e le migrazioni.

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Ricordate 20 anni fa l’invasione degli albanesi? Io no, ero troppo piccola, ma rispolverando tg e giornali dell’epoca si vede la stessa solfa mediatica: ci invadono, ci colonizzano, non sappiamo dove metterli, ci porteranno al collasso!
E oggi dove sono finiti gli albanesi? Si sono perfettamente integrati.
E noi? Noi siamo ancora vivi, ancora qui, non c’è stata nessuna invasione e nessun collasso, non ci hanno buttato fuori dalle nostre case… Non è cambiato nulla, e, ahimè, nemmeno il nostro atteggiamento nei confronti degli stranieri.

Non c’è bisogno di raccontare i fatti successi qualche giorno fa in provincia di Ferrara, i media hanno già martellato abbastanza, ma la cosa più triste è che questo caso rappresenta solo un tassello dello scenario razzista Italiano. Non vogliamo ammetterlo, ci piace pensare che siano solo casi isolati, ma la verità è che siamo razzisti e lo siamo per educazione. A nessuno piace pensare di appartenere a un popolo egoista e criminale, mafioso e fannullone, crediamo nel mito dell’italiano buono, quello degli spaghetti e mandolino che si prodiga per aiutare chi ne ha bisogno.
Così, ammantati nella convinzione di essere eroi, una manciata di uomini e donne hanno impedito l’accesso di due decine di migranti in un morto paesino del ferrarese. La loro barricata l’ha spuntata, hanno vinto la loro piccola guerra contro l’umanità e la solidarietà.
La storia è su tutti i giornali e la conosciamo, è una storia esemplare perché ovunque in Italia ci sono tante Goro e tanta gente che, a modo suo, costruisce barricate. Erano solo 200 persone, molti sostengono che non rappresentano affatto la popolazione italiana, io penso ne rappresentino la maggior parte, soprattutto quella di paese, quella che non sa nulla riguardo al falso nemico che sta combattendo e che si chiude a riccio dentro la propria ignoranza considerandola una virtù.

Le barricate di Gorino (fonte: Repubblica.it)

Le barricate di Gorino (fonte: Repubblica.it)

Dietro l’orrore della ribellione di Goro e Gorino non c’è solo il gesto egoistico di chi non vuole offrire ospitalità per una notte a gente proveniente dal sud del mondo – perché la provenienza è il motore del gesto. C’è, prima di tutto, la chiusura.

Immaginate di vivere la vostra esistenza in un paese isolato di 1000 anime, dove l’unica e poco proficua attività è la pesca, dove la tv e i giornali sono l’unica finestra sulle realtà al di fuori, dove probabilmente in pochissimi hanno mai visto un’uomo dalla pelle scura dal vivo. In queste realtà il tempo – e la cultura – si è fermata a un periodo antecedente alla mondializzazione. Gli abitanti di questi posti assumono se stessi e il proprio luogo come centro, e quando questa prospettiva viene associata alla paura di perdere quel poco spazio nel mondo, si generano i conati di razzismo che il nostro paese rigurgita in continuazione.
Dietro il gesto triviale di quella manciata di uomini c’è anche la direzione di una politica burattinaia che utilizza i fenomeni migratori come pretesto per coagulare le masse più suscettibili intorno a un falso problema e per distrarle dalle realtà concrete. C’è la manipolazione mediatica attuata attraverso quegli unici strumento che sono la finestra sul mondo di chi vive confinato nei piccoli centri. C’è lo sfruttamento dell’opinione pubblica a scopi elettorali e dell’agitazione popolare per l’amplificazione dei problemi sociali.
Dietro quelle 200 persone che festeggiano l’aver respinto 20 profughi, stanchi e smarriti, con grigliate e canzoni fasciste, c’è una sorta di triviale lotta per un welfare che non esiste più. Ci sentiamo derubati di qualcosa che, in realtà, non siamo riusciti a tenerci stretto, crediamo che quei pochi diritti che ci rimangono saranno nostri finché li negheremo ad altri. Peccato che le barricate siano state costruite tardi, male e dal lato sbagliato.

Empatia di Stefania De Blasio

Empatia di Stefania De Blasio

Non si può non citare, infine, la volontà estrema di ignorare un problema: noi non vogliamo sapere da cosa scappano, non vogliamo sentire quale sia la causa dei loro viaggi disperati. A noi piace pensare che fuori dalle nostre frontiere i problemi non siano i nostri, il destino degli altri non ci interessa. Donne, uomini, bambini o anziani, non ci interessa dove finiscono, purché non sia qui. L’immagine dell’immigrato di colore, che non parla e aspetta la carità europea, quello di cui non si sa da dove venga, né dove andrà dopo, è l’immagine di un’umanità spersonificata e de-umanizzata che ci aiuta a etichettare un altro uomo come qualcosa di profondamente diverso da noi.
Ritornando alla mia prima domanda, l’unica risposta che mi viene in mente per tutte le Goro e Gorino è il racconto, è abbattere il muro del non voler vedere attraverso la narrazione delle storie, con la speranza che la paura lasci il posto all’empatia.

* Queste due storie sono fatti reali e recenti, ma i nomi e i luoghi sono inventati.

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