Verità del proprio tempo e verità del proprio momento

Per Lukacs Socrate è per l’uomo laico ciò che Gesù Cristo è per il cristiano. Per Bachtin Socrate è all’origine del romanzo moderno: grazie al suo modo di ricercare la verità attraverso il dialogo, il romanzo ha potuto rendersi pluridiscorsivo, pluriprospettico, dialogico. È così che il romanzo nei suoi più alti risultati scopre le verità del suo tempo: Engels per esempio confessa di aver capito i meccanismi della società attraverso i romanzi di Balzac e non attraverso i discorsi degli economisti. Ma come effettivamente si dialoga scrivendo, come può lo scrittore essere uno e tanti allo stesso tempo? Come raggiungere quest’impersonalità; rinunciare a se stessi per essere tutti è un modo per dire tutta la verità su di sé e sugli altri?

Rousseau con le Confessioni fonda l’autobiografia moderna. In aperto dissenso con Montaigne – che nei Saggi a detta sua si era messo di profilo, mostrando solamente la parte migliore di sé – decide di dire tutto, anche ciò che lo fa arrossire. Il suo obbiettivo è porre una pietra di paragone per l’uomo: dicendo ciò che nessuno osa dire, mostra alcune verità nascoste sull’uomo. Senonché più tardi nelle Fantasticherie del viaggiatore solitario dirà di esser stato a modo suo parziale come Montaigne: col proposito di sdoganare le abiezioni ha tralasciato di dire il buono della propria personalità. In fondo non è l’amore di se stessi o l’odio di se stessi a prevaricare quando ci confessiamo, di modo che si calca la mano o troppo elogiando o troppo screditando? L’uomo non può rivolgere a se stesso lo sguardo che rivolge agli altri. L’autobiografia dunque non è la via perché l’Io porta fuori strada. Bisogna perciò dimenticare se stessi per dire ciò che è più nascosto e indicibile (Giorgio Bassani in un’intervista con Ferdinando Camon arriverà addirittura a dire che l’Io profondo è ineffabile, così come lo è la Shoah).

Produrre il sonno della ragione, si tratta solamente di trovare la tecnica giusta per farlo. È in fondo una terapia, che ricorda da vicino la psicanalisi: ecco perché ha avuto tanta fortuna nei romanzi modernisti. Svevo, il cui capolavoro è un grande romanzo sulla psicanalisi, nei suoi taccuini parla di scrittura come purga e sfogo. Tozzi e Kerouac erano in grado di scrivere i loro romanzi in pochissimi giorni, come sotto l’influsso di un Dio: Tre Croci è stato scritto in quattordici giorni – una sorta di purificazione, liberazione – e per la pubblicazione ha avuto bisogno di pochissime correzioni di carattere formale.

Sono molti gli autori che hanno provato a perdersi nella letteratura e forse nessuno meglio di Gianni Celati ci può aiutare a trovarli. In un’intervista fa riferimento ai microgrammi di Walser in cui l’autore «nello scrivere si perde, scrive e va via con la testa che è il parallelo di quando si va a camminare». Parlando Celati fa il gesto della penna che segue un ordine ondivago, o per meglio dire nessun ordine. Il camminatore di Verso la foce nella Notizia iniziale ci dice: «Ogni osservazione […] ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita».

Altri nomadi dell’impersonalità si trovano nel canone che Celati ha eletto nella sua attività soprattutto di traduttore. Per Stendhal il primo getto supera in verità e naturalezza la prosa raschiata e limata. Celati nell’introduzione alla sua traduzione della Certosa di Parma fa notare che il lungo romanzo è stato scritto in soli cinquantadue giorni, improvvisando di volta in volta, esattamente il ritmo con cui Rossini scriveva la sua musica. «Affidarsi a un estro momentaneo […] serve ad evitare una distanza da ciò che si scrive, quel congelamento che nasce da una dissociazione tra il pensiero e la cosa che si sta scrivendo. […] evitare la dissociazione prodotta dalla consapevolezza di sé, lo sguardo su se stessi mentre si agisce, la dissociazione tra il pensare e l’agire, la distanza dall’emozione del momento». Esattamente il contrario dell’autobiografia se è vero che la sua specificità è la doppiezza: «Moy à cette heure et moy tantost, sommes bien deux», scrive Montaigne.

Tutto sembra prodursi al meglio assecondando gli estri momentanei. Ma così si perde la possibilità di un’opera unitaria. Poco importa perché non siamo da quella parte della letteratura in cui ci si preoccupa di legare al meglio le varie parti: si pensi al complesso lavoro di composizione che Madame Bovary aveva richiesto a Flaubert. Molti capolavori sono stati scritti in questo modo, Proust e Joyce sapevano bene che un solo estro non poteva prodursi costante fino alla fine dei loro romanzi fluviali. Come ci dice Céline in un’intervista con Jean Guenot, è lo spettro dell’oggettività ad ammorbare il mondo occidentale: «La debolezza dell’arte europea è d’essere oggettiva. Guardate l’arte asiatica. In Asia la regina delle arti, la pittura, esige prima di tutto che non si faccia niente di reale».

Celati nell’introduzione alla sua traduzione di Casse Pipe e Guignol’s band ci dice che «il prezzo pagato da Céline per distanziarsi dalla mentalità prosastica (che è qui un altro modo per dire della debolezza dell’arte oggettiva occidentale) è quello di non riuscire più a raggiungere la cosiddetta opera compiuta. Questo è comprensibile, perché la lingua lirica conosce solo slanci secondo il particolare impulso del momento; non possiede l’arte argomentativa della prosa per portare tutto a una logica conclusione». Dunque, l’impulso del momento. Riprendendo le domande che abbiamo posto all’inizio, gli scrittori da noi considerati in realtà non dialogano con nessuno e non fanno dialogare nessuno se non le proprie «voci arcane che ti vengono nell’orecchio tuo malgrado», scrive Celati. Riguardo alla verità possiamo dire che attraverso questi metodi si produce certamente questa verità: quella del momento. Jean Richardou ha scritto: «Il romanzo non è più la scrittura di un’avventura, ma l’avventura di una scrittura».

Bisogna precisare che Celati ha spesso in mente un valore di contestazione nell’arte dello scrivere. Elogiando Céline mette al centro la sua contestazione alla «prosa romanzesca, che ha sempre la pretesa di informarci e illuminarci sulla cosiddetta realtà», che è, per integrare questo discorso, «una falsa finzione […] sempre in cattiva fede», come dice Celati a Calvino parlando di Comiche. Sempre in questo discorso (indicato nel link sopra) Celati sul valore delle «voci arcane» scrive: «tutto quello che scriviamo viene dall’altro mondo: sia il cielo, sia come dicono altri l’Ade. […] ho la sensazione che il regno delle ombre viva con noi e in noi; che gli spettri esistano sul serio; che i morti non siano mai silenziosi». Questo per contestare, e lo facciamo in questa sede a nostra volta, quelli che considerano lo scrittore come invaso dal Dio un concetto superato e che considerano la scrittura come un lavoro al laboratorio, pensando che basti mescolare figure retoriche per arrivare a predeterminate reazioni chimiche. La letteratura è tanto più vera quanto più si rivela via facendosi.

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Questo articolo è inteso per accogliere due avvenimenti editoriali importanti per la diffusione della letteratura e del pensiero di Gianni Celati: l’attesissimo Meridiano, e una raccolta di articoli da Quodlibet di carattere saggistico su autori cari allo scrittore, Studi d’affezione per amici e altri.

Per rendere omaggio al nostro sito segnaliamo che Celati, nell’articolo sopra indicato, parlando della prosa di Céline scrive che si riduce ad occuparsi di: «poche questioni essenziali: dormire, ripararsi dalla pioggia, sfogare i propri umori. Ma è proprio questa riduzione dell’esistenza a pochi moti irriflessi, come i tropismi delle piante o degli animali, il segno di un’estrema lontananza dai conflitti del sociale».

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