Viaggio nella cattedrale dell’abbandono e delle pagine graffiate

C’era un tempo, in Italia, in cui la malattia mentale faceva paura. In quel tempo il nostro paese era costellato da tante strutture che avevano il compito, non solo di cercare di curare i matti, ma anche di rinchiuderli, di tenerli lontani dalla vista della “comunità dei sani” e di proteggerla da tali persone, senza considerare i loro reali bisogni e i diritti: questi luoghi erano i manicomi.

Con l’entrata in vigore della legge 180, nel 1978 si superò gradualmente la logica manicomiale, quel modus operandi della psichiatria che considerava la costrizione come propedeutica a ogni possibile cura, e, a mano a mano che si sperimentava un nuovo modo di rapportarsi al malato mentale, gli ospedali psichiatrici si svuotarono gradualmente. Questo lungo percorso, durato fino al 1994, portò l’Italia ad essere il primo (e ad oggi l’unico) paese al mondo ad aver abolito gli ospedali psichiatrici. Sono passati quaranta anni dal 1978, anno in cui la legge Basaglia decretò la chiusura degli ospedali psichiatrici, eppure ne esiste ancora molto tutt’oggi. Nel 1978 erano attivi 76 strutture sparse su tutto il territorio italiano, molte di queste, soprattutto quelle ubicate all’interno delle città, dopo il loro svuotamento, furono riqualificate e destinate ad altro uso, ma non tutte. Buona parte dei manicomi italiani si trovava in luoghi decentrati, a volte in periferia di piccoli paesini, per queste strutture il destino fu ben diverso: esse sono state abbandonate al tempo, allo sciacallaggio e giacciono tutt’ora dimenticate.

DSCF8317(1)Uno dei manicomi più conosciuti per fama è quello di Volterra, sperduto su un colle alla periferia del piccolo paesino sugli appennini. Nato nel 1887, l’ex ospedale psichiatrico di Volterra sorge in parte da una struttura che fu, in precedenza, un ospizio per i poveri. Già nel 1900 arrivò ad accogliere quasi 300 malati, che divennero 750 nel 1910 e quasi 5000 nel 1939, anno in cui fu raggiunta la massima capienza. Si capisce da questi numeri quali possano essere le dimensioni di tale edificio e l’ampiezza del terreno destinato alle strutture dell’ex manicomio.

Nei primi del Novecento la direzione venne assunta da Luigi Scabia, il quale impostò la struttura come se fosse un piccolo villaggio, le sue teorie progressiste contribuirono molto allo sviluppo edilizio della struttura, oltre che al tipo di vita che i malati potevano condurre all’interno. A Volterra i malati venivano lasciati liberi di muoversi nel parco che circondava le strutture, potevano dedicarsi a piccole attività lavorative e, all’interno, sorgevano addirittura dei piccoli esercizi commerciali e botteghe: una panetteria, una falegnameria, officine e una fornace per i mattoni. Per un breve periodo fu anche introdotta una forma di moneta utilizzata dai degenti per i loro scambi. Nonostante ciò, la reclusione e l’estromissione dalla società rimase un fattore costante, al punto che nemmeno le lettere degli internati venivano spedite ai destinatari, ma erano sequestrate ed entravano a far parte della cartella clinica del paziente1.

«Maestà, l’essere mio tutto è gracile, indebolito, causa il vivere da bestie. Un po’ d’aria l’ho avuta dopo ben ventisei mesi passati fra ogni sorta di puzze e infezioni!

Sono evaso due volte per sottrarmi a questi inumani abusi, a queste occulte ingiustizie; ma tutti i miei sforzi furono inutili. Dicono che io sono pericoloso e posso attestarlo poiché così mi trattano. Forse mi tengono qui perché sono orfano di padre e madre?

O perché quei pochi parenti che ho non se ne occupano?…

In sessanta mesi non ho avuto una sola riga di scritto, nessuno si è degnato confortarmi, consolare il mio tanto dolore…»

(Da “Corrispondenza negata. Epistolario della nave dei folli  (1883-1974)”)

Arrivare all’ex manicomio di Volterra non è difficile, l’accesso è formalmente vietato per via della poca stabilità degli edifici, ma, di fatto, è meta di molti. Il parco che circonda i padiglioni è molto grande, con una vegetazione fittissima che si estende, in alcuni tratti, fin dentro gli edifici e sui muri, le piante stanno ormai divorano tutto con la stessa velocità con cui lo fanno l’alternarsi delle stagioni, del sole e della pioggia. All’interno rimane ben poco di quello che fu il manicomio: quasi nessun arredo, tanti calcinacci e spazzatura. Nonostante questo, il luogo ha indubbiamente il suo fascino e contiene tracce, oltre che di puro vandalismo, anche di murales recenti.DSCF8353(1)

La sensazione che si prova è quasi quella di essere indiscreti e di violare un luogo testimone di tante sofferenze e memorie. Luoghi come questo vivono più vite: dopo aver funzionato per decenni come struttura per folli, viene abbandonato e qui diventa luogo di saccheggio, dal mobilio ai cavi elettrici, dai letti ai sanitari, tutto ciò che poteva essere riutilizzato è stato portato via già da tempo. Una volta svuotato, diviene meta di chi è alla ricerca di un tetto sotto al quale ripararsi, o almeno finchè la struttura ha retto al logorio del tempo. Infine ci sono i writers, i fotografi e i curiosi. Attualmente, non credo che il posto possa essere utilizzato come luogo di rifugio: i soffitti hanno squarci enormi, i muri sono pericolanti e umidi, e le scale che accedono ai piani superiori sono impraticabili. Il primo edificio che si incontra dal viale d’ingresso è il padiglione Charcot: tra gli ex uffici, le infermerie, gli spogliatoi, gli unici arredi rimasti sono degli armadietti vuoti, delle sedie e cumuli di reti e materassi ammassati l’uno sull’altro. Man mano che ci si addentra, si iniziano a scoprire le stanze in cui risiedevano i malati: sono piccole, buie, con robuste porte di legno con delle piccole fessure e non si riesce a fare a meno di chiedersi come dovesse essere la vita e il mondo visti da lì dentro. IMG_20160604_150047

Ogni finestra ha delle grosse sbarre da cui ora entra la vegetazione esterna, come a voler invadere quelle stanze vuote. Più ci si addentra tra le camere e più si ha l’impressione di essere circondati da un’aura spettrale che sta dissolvendo, a poco a poco, questi luoghi, teatro di eventi che possiamo conoscere solo in parte e la cui memoria si farà polvere, come queste rovine. La sala più grande doveva un tempo essere quella ricreativa dove i degenti stavano tutti insieme: è interamente piastrellata fino ad altezza d’uomo, gli interruttori della luce sono posti molto in alto e questo lascia immaginare che tanti malati lì dentro camminassero strisciando lungo i muri perimetrali. L’enorme spazio è interrotto soltanto da imponenti colonne e persino le alte porte che danno su un cortile interno – che ormai sembra una selva – sono chiuse da sbarre. L’edificio più grande è il Padiglione Ferri, il reparto criminale del manicomio, ma anche la parte più interessante. Ciò che rende speciale questa struttura non è quello che si trova al suo interno e nemmeno l’edificio stesso, ma le sue pareti esterne. Il muro perimetrale del Ferri è stata la tela di una grande opera lunga 180 metri: scolpita nel corso di quindici anni, lì è incisa la storia fantastica di un visionario che non ha mai conosciuto altra realtà fuori dal manicomio.

nof-5NOF4, Nannetti Oreste Fernando, matricola numero 4, è stato uno dei pazienti dell’Ospedale che, per centinaia di metri, incise strani segni alfabetici sui muri utilizzando la fibbia in metallo della divisa degli internati. Ad oggi ne rimangono circa 20 metri lungo il perimetro esterno del Padiglione, il resto è andato perduto da tempo. Di lui si sa ben poco: nasce nel 1927 da Concetta Nannetti e NN (sigla con la quale nei documenti si indicava il padre ignoto), viene presto affidato all’opera della carità e all’età di 10, anni inizia il suo calvario all’interno dei manicomi, prima a Roma e dintorni, poi a Volterra dove rimarrà fino alla sua definitiva chiusura. NOF4, disegna storie di astronavi, di allunaggi, di esseri alieni e di armi tecnologiche, con una lucidità che lascia stupefatti.

La parte più conservata del muro si riescono a intravedere i vari riquadri che formano come delle vere e proprie pagine

Nella parte più conservata del muro si riescono a intravedere i vari riquadri che formano come delle vere e proprie pagine

Lui non ha studiato, ma i suoi graffiti sono una lunga storia scritta con caratteri alfabetici che ricordano le formule alchemiche, la sua follia si presenta con disegni di antenne, figure umane e pianeti. Nanof, altro nome con cui si identificava, scrive molto di sé sulle pareti: «Nato a Roma, Italia, ore 23.40, rione Sant’Anna, moro, secco, spinaceo, alto un metro e 65, naso a y, secco, bocca stretta di materialista e spiritualista […] Come stella libera sogno e tutto il mondo è mio2» Il “libro” di Nannetti era alto 1.80 metri e non presentava interruzioni, egli incideva persino girando intorno alle persone sedute sulle panche del cortile e appoggiate ai muri, e ai medici che gli chiedevano i perché delle “onde” dei suoi graffiti, rispondeva che non se la sentiva di far spostare la gente seduta a godersi qualche raggio di sole.

"spaziale atomica fusione lancio ore 17 del..."

Sono visibili le parole “spaziale atomica fusione lancio ore 17 del…”

L’«astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale» o «l’uomo invisibile armato di fibbia catodica», modi con cui egli stesso si definiva, non aveva mai conosciuto nessun altra realtà se non quella del manicomio ed è così che è diventato un inventore di mondi, si è cucito un’identità che gli era stata sottratta fin da piccolo per ridare senso alla sua vita. 

I messaggi che ci arrivano da questa forma di arte – o di poesia – sono come spostati all’interno, irrazionali ma lucidi specchi di una visione diversa del pensiero e dell’esistenza. NOF4 è la rappresentazione della vita all’interno dell’Ospedale psichiatrico: è l’espressione del vuoto emozionale ed esistenziale, un vuoto istituzionalizzato e scandito dai ritmi dell’internamento, a cui il malato cerca di far fronte con ogni arma, ogni fibbia e ogni muro. Ma perchè proprio il muro e la fibbia? In tanti anni non gli fu mai dato modo di esprimersi con carta e penna, strumenti negati come la sua esistenza.

L'immagine di una famiglia nelle parole "nonno, madre, padre, zio, zia"

L’immagine di una famiglia nelle parole “nonno, madre, padre, zio, zia”

Le parole di Nannetti possono sembrare gli indecifrabili deliri di un matto, frasi senza senso, né senno, ma il flusso ininterrotto dei caratteri manifesta l’urgenza di scrivere e la determinazione nell’affermazione di una sua identità, nonostante tutto. Le emozioni e i pensieri, i crimini e la violenza vissuti dentro il Manicomio di Volterra sopravvivono ancora, lì dove gli è stata negata espressione, incisi sulle stesse mura che tutto ciò racchiudevano: «10% deceduti per percosse magnetico-catodiche, 40% per malattie trasmesse, 50% per odio, mancanza di amore e affetto» Quella di Nannetti è un’opera e una testimonianza che, purtroppo, non riuscirà ad essere tramandata: quel poco che resta dei suoi graffiti sono le foto scattate di ciò che è andato perduto e qualche brandello di intonaco ancora attaccato a quei muri abbandonati all’oblio3.

Trailer del documentario “I graffiti della mente”

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Bibliografia:

M. Trafeli (a cura di), N.O.F. 4 Il Libro della Vita, Ed. del Cerro -1985

C. Pellicano (a cura di), Corrispondenza negata. Epistolario della nave dei folli (1883-1974), Ed. del Cerro, 2008.

A. Tabucchi, Caro muro ti scrivo, articolo pubblicato sull’Espresso,14 settembre 1986.

L’osservatorio nucleare del signor Nanof, Documentario prodotto da Studio Azzurro con la regia di Paolo Rosa.

I graffiti della mente, Documentario di Erika e Piernello Manoni.

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Note:

1Le lettere dei pazienti sono state successivamente raccolte e pubblicate in: Corrispondenza negata. Epistolario della nave dei folli (1883-1974), a cura di C. Pellicano, Ed. del Cerro, 2008.

2Le traduzioni dei graffiti sono opera di Aldo Trafeli, infermiere che ha passato più di 30 anni all’Ex Ospedale Psichiatrico di Volterra. Oggi queste traduzioni sono pubblicate in un libro: N.O.F. 4: Il libro della vita, Ed. del Cerro, a cura di M. Trafeli, 1985.

3Gli unici calchi di una parte dei graffiti di NOF4 si trovano a Losanna, nel Musée Collection de Art Brut.

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