Voglio essere un Eroe

Ogni bambino sogna di diventare un eroe. Essere super potente, con la capacità di correre più veloce della luce o di diventare invisibile, o classico, con l’arco, le frecce e il coraggio, poco importa.
Quando frequentavamo il ginnasio, i professori ci hanno insegnato a sognare sui versi di Omero, ad ammirare il pelide Achille, l’ingegnoso Ulisse, ma anche Ettore, Agamennone e tutto l’insieme di quegli eroi, metà uomini metà dèi, che si schieravano nell’immaginazione come un coro di esseri meravigliosi, così eterei e densi di umanità allo stesso tempo.
I fumetti, il cinema e la tv hanno concorso ad arricchire quell’immaginario che la letteratura aveva avviato, proponendo uno spettro vastissimo di sfaccettature, plasmando e riplasmando la figura dell’eroe, fino a far convivere Spiderman con James Bond, Superman con Sherlock Holmes.

Se il concetto di arte come copia della copia ha il sapore di uno stantio rimasuglio platonico, è però da ammettere che, in quanto prodotto umano, essa dipenda necessariamente dalla percezione che l’artista, lo scrittore, lo sceneggiatore o il fumettista ha della realtà.
Achille, Ulisse o Superman sono quindi interiorizzazione e manipolazione di un’immagine, un’esigenza, un concetto. L’eroe è l’ennesima potenza di un qualcosa di umano, l’estremizzazione di una scintilla che brucia in fondo allo stomaco di ognuno di noi. È quindi la realtà la prima vera musa ispiratrice della figura dell’eroe.

Ma cosa accade quando la situazione è tutt’altro che eroica? Quando non esistono più le epiche battaglie e rimangono soltanto partite di carte? Quando gli eroi coraggiosi e statuari vengono rimpiazzati da giovani pigri e dormiglioni? Quando l’oggetto del rapimento non è Elena di Troia ma una ciocca di capelli? Quando Zeus, Era, Afrodite e Apollo sono andati in pensione e sono stati sostituiti dalle silfidi, spiritelli femminili, civettuoli e leggeri?
Ebbene: nasce The rape of the lock di Alexander Pope.

Il poema eroicomico è del 1712, e a detta dell’autore è stato composto in soli quindici giorni. L’opera è breve, soli cinque canti, l’impianto è quello di un poema epico in miniatura. L’arma di Pope è l’ironia sottile, non moralistica o giudicante, ma leggera, un po’ come le sue amate silfidi. Come suggerisce il titolo, l’oggetto della contesa è un ricciolo, che è stato rapito dalla folta chioma di Belinda (nella realtà Arabella Fermor) da un perfido barone. Dunque, dimenticate i campi di battaglia polverosi, stipati di cadaveri e ovattati di orgoglio e testosterone. Qui siamo negli Hamptons, e la nostra eroina è una ragazza aristocratica, che si trucca e si acconcia i capelli per prepararsi alla battaglia.

L’intento di Pope, come degli altri autori di poemi eroicomici, è quello di rappresentare la propria società in maniera realistica. Il suo affresco ritrae una società goffa e ben lontana dagli “eroici furori” di un tempo, eppure a suo modo simpatica e interessante. Pope, quindi, celebra senza celare, tirando i fili di un tessuto assai complesso, ma sempre calibrato.

Leggendo questo poema, ho pensato che sarebbe stato interessante tentare di tracciare un medaglione eroico 2.0, che attinga dalla realtà contemporanea, archetipizzandola.    Partendo dall’impronta semiseria di Pope, provare a delineare un profilo dell’eroe 2.0, stabilendone poteri, caratteristiche fisiche e psicologiche, abilità, punti di forza e di debolezza. L’operazione è più ardua di quel che sembri, in quanto l’obiettivo è riuscire a trovare il giusto metro di sintesi, per riassumere e fissare l’icona dell’epoca in corso.

In primo luogo, il nostro eroe 2.0 dovrà essere tecnologico. Nell’era di Google, Facebook e Whatsapp, il Nostro non può non possedere uno smatrphone, anzi un supersmartphone. La sua arma non è più un anacronistico arco da cui scagliare dardi infuocati, bensì un I-phone ultima generazione, inguainato in una cover scintillante e resistente ai colpi dei nemici. Tra i suoi poteri principali non possono mancare l’abilità nel catturare Pokémon e strappare migliaia di likes sui social. Il nostro eroe è capace di sconfiggere l’avversario a suon di cuoricini su Instagram, condivisioni Youtube e di farlo vergognare di fronte alla quantità inenarrabile di condivisioni che raggiungono i suoi post. Un essere mitologico metà uomo-metà social, in grado di superare ogni avversità con un click. E perciò l’oggetto della contesa non può essere Elena di Troia, ma nemmeno una ciocca di capelli. Il nostro Sacro Graal sarà, udite udite, un leggendario Mewtwo, sottratto ingiustamente da un perfido poser−castiga Pokémon.

Eppure gli anni duemila non sono soltanto questo. Il nostro eroe, infatti, oltre ad essere 2.0 è anche un nostalgico patologico. Siamo la generazione del revival, l’ossimoro nostalgia-progresso tecnologico è normalità e perciò ci si ritrova a maneggiare uno smartphone con cui simulare Snake.   E allora perché non dare questa impronta anche al nostro eroe? Perché non infilargli un bel paio di Google Glass modello Ray-Ban vintage? O uno Smartwatch modello Casio?

E voi, quali caratteristiche credete siano necessarie per il nostro prototipo di eroe 2.0?

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