Chilografia - Diario segreto di palla

Qualche passo a sinistra rispetto al reale. Intervista a Domitilla Pirro

Ci sono cose che molti lettori, così come troppi scrittori, danno per scontate. La prima che mi viene in mente è l’illusione che per creare una qualsiasi opera narrativa basti lo stile o una storia ben congegnata.

Una convinzione che crolla quando si ha la fortuna di leggere certi romanzi, opere dove abita qualcosa di più, una specie di richiamo, di appello che ti fa tornare, chiuso il libro, su una singola scena. Storie che ci fanno chiedere se avremmo agito come il protagonista, o magari dove abbiamo già vissuto queste cose. La potremmo chiamare urgenza di comunicare.

Chilografia – Diario vorace di Palla, romanzo di esordio di Domitilla Pirro edito da Effequ, nasce con questa esigenza. La vita di Palla è segnata da ossessioni, una fra tutte quella per il cibo, e mancanze. Mancanze di sicurezza, di amici, di comprensione. Chilografia ci trasporta su e giù fra la provincia laziale e nel mondo di The Sims, dai toni surreali e tragicomici del concepimento di Palla fino al drammatico finale, tenendoci agganciati e instaurando un rapporto genuino, franco con il lettore. Palma è strabordante, nel suo rapporto col cibo e nel suo modo di vedere il mondo, ci appare insieme lontanissima da noi e fin troppo vicina. Di lei e della sua storia parliamo con Domitilla Pirro, che ringraziamo.

Chilografia è un romanzo incredibilmente ricco. Di oggetti, reali e virtuali. Di espressioni, alcune molte ricercate e altre della provincia più spinta. Di periodi e mondi diversi. Di cibo, ovvio. Com’è nato? Hai dovuto fare molta ricerca per tenere insieme tutto quanto?
Mettiamola così: è un progetto giovanile a lieto fine. Ne ho presentate quaranta cartelle, le prime, al termine del mio secondo anno Holden: doveva essere l’elaborato finale con cui giocarsi l’eventuale borsa di studio e un po’ di altre occasioni. Mi ha dato quelle e il resto (persino il lavoro!), anche se a distanza di tempo.
Palla mi è apparsa un’estate in piscina. Letteralmente. Stava entrando in acqua col suo compagno e il pensiero lucido che ho fatto su entrambi — io che ero nascosta sotto l’ombrellone, come al solito; io che ero preda dei miei mostri, come al solito — è stato men che lusinghiero. Peggio: è stato da entomologo. È stato classificatorio. Non ne esco pulita, temo. Da lì per me si è susseguita una serie di macchinazioni volte a capire quel personaggio che storia avesse: l’ho immaginata per un po’, l’ho vista subito in una stanza non sua a fare quel che fa a fine romanzo, mi ha spaventata, ho deciso di prenderla alla larga e capire da dove fosse uscita. Anche qui: letteralmente.
La ricerca di verosimiglianza è un’ossessione personale: inseguo qualcosa di più del calco dal parlato, mi interessano quelle parabole disturbanti che sembrano nascoste appena qualche passo indietro o a sinistra rispetto al reale. Sapevo ad esempio che la campagna che s’intuiva fuori dalla finestra della stanza in cui doveva aggirarsi Palla a fine romanzo era quella laziale: da lì a cercare di registrarla fedelmente, da lì a saccheggiare i ricordi miei e altrui il passo è stato brevissimo.  

Chilografia è disseminato di frammenti, feticci, leitmotiv di tre decenni come gli anni ’80, ’90 e primi anni 2000 che sono sempre più spesso oggetto di revival, nostalgia, operazioni di recupero. La tua scrittura li attraversa con una specie di sadica malinconia, a metà tra evocazione e dissacrazione. Perché il richiamo di questa epoca è così forte?
Parlo a nome di quest’improbabile collettività vintagiòfila. È evidente: siamo tutte creature ombelicali, pigre quanto egoriferite. Scherzi a parte: è forse sempre vero che si racconta ciò che si conosce meglio, e nel caso di un percorso di formazione si tenderà a saccheggiare il proprio. Quando va male, lo si spiattella sulla pagina senza mediazione né elaborazione. Quando va meglio, lo si forza in un imbuto speciale, deformante, che ce lo restituisce alterato. Grottesco, magari. Ecco: è lì che andavo a parare. Se ci sono riuscita me lo confermano di volta in volta i lettori, la fortuna più grande.

Nel tuo romanzo tratteggi perfettamente la provincia italiana, nel tuo caso quella laziale. La provincia ha tanti aspetti, alcuni romantici e altri incredibilmente tragici. Il confronto sociale con le stesse pochissime persone, l’impossibilità di cambiare, l’immobilismo. Evidenzi benissimo questi aspetti e la loro rilevanza nelle vicende che racconti. Pensi che la vita di Palma sarebbe stata migliore in una grande città?
Ti ringrazio infinitamente per le belle parole. Palla nasce in una grande città, seppur in periferia, e si trasferisce in provincia per scelta. La sua è una decisione adulta tutto sommato consapevole, anche se l’atteggiamento da fantavalanga che spesso la guida sembra non lasciarle il tempo di ponderare tutte le conseguenze. Probabilmente da qualche altra parte avrebbe rimbalzato ugualmente, Palletta — col medesimo impatto, ecco. La sua vita è, come quella di tutti, condizionata dagli incontri: quello con Angelo è la tempesta perfetta, sono complici l’uno dell’altra e riescono ad assecondare il peggio di ciascuno elevandolo a potenza. Sarebbe accaduto da qualsiasi altra parte, temo.

Ci sono due modi per vivere e pensare la tecnologia: immaginarla come una protesi di se stessi* o come mondo parallelo. Palma sembra abbracciare questo secondo tipo: usa pochissimo il telefonino, conserva un’ingenuità bucolica che arriva da lontano, sembra sempre fuori sincrono. Ma al tempo stesso il suo computer è un portale verso un mondo diverso, su misura, dove Palma è padrona assoluta. Quanta differenza c’è con la scrittura?
Domanda straordinaria! La risposta, temo, non sarà all’altezza: qualsiasi tentativo di teorizzare il nostro rapporto col virtuale è, credo, fallimentare a prescindere. Ben altri hanno dissertato sulla generazione tecnoliquida, lascio a loro la disamina. Quel che so è che, se per Palla il cellulare implica un rapporto con persone reali ed eventualmente pronte alla risposta, per virulenta che sia, per negativa che sia, il computer è invece la membrana totipotente che la separa da versioni new and improved della propria, fallata, finita. La tecnologia è per lei funzionale alla gestione della frustrazione che le provocano tutte le altre relazioni che intesse; rispetto alla frustrazione Palla è completamente succube, rispetto alle persone che la circondano anche. Rifugge vigliaccamente il confronto. Sbotta sempre troppo tardi. Trova più facile rotolare alla fuga.
Se vogliamo, per molti freak come me la scrittura assolve a una funzione per certi versi analoga: ciò che risulta caotico e ingestibile IRL, nella vita vera, solo attraverso la scrittura si pettina per bene, galoppa entro binari, all’improvviso ubbidisce. Ha senso. Sta.

Una costante del tuo libro, soprattutto nell’incredibile finale, è la presenza di fatti indiscutibilmente negativi e momenti di dubbia catarsi. Torniamo in modalità The Sims: esistono dei bivi, delle strade non percorse, che avrebbero portato Palma a una situazione di serenità?
Adriano caro, qui non riesco a non attingere al mio aulico coté natio: “se mio nonno avesse avuto le ruote, sarebbe stato un calesse”, o qualcosa di simile (quella col flipper era una battuta ancor meno elegante, ne converrai). Di nuovo, scherzi a parte: quanto ti capisco. Mi è spiaciuto immensamente accompagnare il personaggio attraverso il dolore, giuro. Ma il suo climax è il biglietto da visita col quale mi si è presentata. A oggi non so quale percorso avrebbe salvato Palla più di quanto non sia riuscita a salvarsi, a modo suo, da sé. So che volevo raccontare la sua storia, so che il finale — quel finale — è la prima cosa di lei che ho saputo con estrema certezza, e so che per difendere quel finale ho rischiato di condannare questa storia all’inferno dell’inedito (che poi è inferno solo per i personaggi e per l’autore, s’intende: il resto del mondo è alle prese con ben altri inferni). Prima dell’incontro coi folli, generosi incoscienti di Effequ, nessuna casa editrice s’è voluta accollare il rischio di turbare i suoi lettori “con quel finale”: mi si è proposta alternativamente la riscrittura integrale dell’ultima parte, la sua ce(n)sura o la mai troppo divertente conversione in “facciamo che alla fine è tutto un sogno”; tante volte, ti assicuro, ho notato che un bivio qualsiasi avrebbe accompagnato Palla in libreria molto prima. Avrei tradito la sua storia, però: soprattutto, avrei tradito tutte le persone che mi contattano oggi per ringraziarmi proprio del finale, definendolo in tanti “l’unico possibile”.

Chilografia ha catalizzato interesse e affetto da parte dei lettori, arrivando di recente alla seconda ristampa. Hai avuto testimonianze di persone che si sono riconosciute nel libro, che si sono sentite finalmente raccontate?
Esatto, sì. Di loro parlavo. Quella che forse mi è rimasta più impressa è una bella signora che mi ha preso le mani, dopo la meravigliosa presentazione catanese, e mi ha detto “L’ho già letto, sono venuta solo per dirti grazie. Io ero Palla. Io sono ancora Palla”. Per fortuna ho testimoni, o penserei d’essere in pieno trip megalomaniaco da esordiente. Poi ci sono i messaggini sui social, le mail, perfino i vocali… Oggi chi scrive (e chi non scrive) vive in un magico spazio-tempo contratto: tra noi e chiunque altro i sei gradi di separazione sono svaniti, il contatto col lettore è immediato (quanto non-mediato) e, per ora, nessuna malia mi sembra più auspicabile.

Che libro o film avresti consigliato a Palma per stare meglio con se stessa, o semplicemente per stare meglio?
Oh! Vediamo. Prima l’avrei riaccompagnata in facoltà e l’avrei aiutata a dare gli ultimi esami, poi le avrei fatto imparare a memoria sia Kill Bill che Confessioni di una maschera di Mishima (contemporaneamente!); solo allora le avrei passato il nome di una psicoterapeuta coi contro-cosi. (Magari la stessa che, nel 2012, ho consultato in fase di documentazione: un po’ volevo sapere se ero pazza io ad aver immaginato una storia così, un po’ avevo un bisogno disperato di credere che Palla esistesse, da qualche parte e non solo nella mia testa. Sapessi quante ne ho incontrate, da allora.) La narrazione ti salva, Adri, è vero: ma è la terapia che ti cura, e io credo nella cura, non nei miracoli.

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