«Corpo della gioventù» – Intervista a Alessandra Corbetta

Corpo della gioventù (Puntoacapo Editrice), è l’ultima raccolta poetica di Alessandra Corbetta. Una raccolta profonda, a tratti schietta e a tratti disarmante; lo stile è curato, raffinato, elegante e mai banale. C’è ricercatezza, attenzione al più piccolo lessema, c’è in definitiva, un lavoro certosino di ogni più piccola parte del verso e il risultato non è mai stancante o tedioso, ma ogni componimento è spunto di riflessione profondo sull’io lirico del poeta, e ancor di più sull’io del lettore; questo è ciò che rende veramente interessante questa raccolta: i componimenti della Corbetta appartengono anche a chi si cimenta a leggerli, in un transfert magnifico che crea una complicità unica col lettore.

La raccolta è suddivisa in cinque sezioni: Fessure, Attraverso, Rintocchi, Battenti e Esplosione. I temi affrontati sono molteplici e vari, ma è il senso di rammarico che prevale a fine lettura; come se qualcosa si fosse spezzato nella lettura con dolore e cupa sorpresa. Quelle di Corbetta sono poesie amare, che lasciano un senso di rassegnazione che spingono ad interrogare i recessi della propria anima. E nonostante questa cupezza, è una poesia che si fa colore (un tripudio di colori!), vivace e densa di numeri, in cui il ricordo è tema cardine, ma anche il cambiamento, il dolore, la malinconia. Emozioni che si tingono delle mille sfumature dell’alba. Da questa riflessione è nata l’idea per un’intervista. Ne è seguito un piacevole scambio che è mio dovere (e piacere!) riproporvi. 

Corpo della gioventù” è la tua ultima raccolta poetica e nella post-fazione di Ivan Fedeli capiamo che il “corpo” di cui parli è un non-luogo. Vuoi parlarcene?

La raccolta è tutta giocata sul non detto e sul contrasto, elementi per me imprescindibili nella fase di componimento e senza i quali non riuscirei a dar forma alla mia espressione poetica. Il corpo, a cui si fa riferimento già a partire dal titolo, è il capro espiatorio prescelto per alludere, in modo ossimorico, ad altro; ponendolo in abbinamento a “gioventù”, il lettore produce in sé l’immagine di prestanza fisica, di bellezza, di carica erotica, di leggerezza ma, i componimenti dell’opera, portano volutamente a far divergere da questa rappresentazione iniziale, poiché il corpo, in quel preciso momento di vita – quello della giovinezza- è la prima cartina tornasole del tempo che passa e, quindi, dell’inafferrabilità dei volti cari, delle situazioni, della vita. Il corpo ci mostra senza tregua cosa non siamo più e cosa non potremo mai più essere: da qui il rimpianto e l’ostinazione, sterile ma potente, di provare a trattenere gli anni, i propri anni.
Ed ecco che allora, come Ivan ha acutamente definito, il corpo diventa non-luogo, terra anonima in cui, nonostante gli sforzi, non possiamo ritrovarci né, tantomeno, fermare il tempo.

Leggendo la tua raccolta, colpisce la rielaborazione di alcuni temi cari già alla letteratura. È il caso, della poesia Alba, dove colpisce l’intimità della costruzione del verso che conduce alla rielaborazione della separazione degli amanti (“urge la pazienza della lievitazione lenta,/ serve forza per sottrarsi agli abbracci!”) che ricorda per certi versi il genere occitano dell’alba; ecco, quale è il tuo metodo di lavoro nell’elaborazione di un testo poetico?

Sul lavoro sono una persona molto metodica, quasi svizzera direi, per un innato senso del dovere, per l’educazione che ho ricevuto, e anche per il luogo a cui appartengo, in cui il metodo e il rigore ci vengono –credo- tramessi al momento della nascita.
Ma la poesia non è lavoro, la poesia è arte; è una ferita dolce e tremendissima ed è anche la sua cicatrice, dolcissima e tremenda. Il metodo è antecedente alla composizione del testo poetico: è un insieme di letture, di rielaborazioni, di sperimentazioni, di esperienze letterarie e non in continuo accrescimento, che vengono assimilate e fatte proprie, in maniera più o meno conscia. Così, quando ci si metta a scrivere, almeno nel mio caso, non si ci avvale di un metodo ma si dà forma, non sempre nello stesso modo o con lo stesso ordine, a questo amalgama di elementi eterogeni che risiedono in noi.

Quali sono i poeti che maggiormente hanno influenzato il tuo stile?

Il mio percorso di studi, nonostante qualche esame opzionale e i vari corsi di scrittura frequentati, non è stato di tipo letterario, quindi il mio ventaglio di autori conosciuti e letti in modo approfondito è più ridotto rispetto a chi ha avuto una formazione letteraria in senso stretto; ma leggo e studio ogni giorno per entrare in contatto con sempre più numerose voci significative che so potrebbero accrescere e migliorare la mia scrittura e la mia visione delle cose, perché la poesia è prima di tutto capacità di guardare il mondo e ciò che in esso accade. Questo per dire che, a oggi, non sento di avere dei maestri di stile, sebbene ci siano autori che amo particolarmente e da cui mi sento arricchita più di altri e sebbene, col passare del tempo, mi rendo conto di prediligere sempre più la versificazione scarna, poco ampollosa, dove il senso dell’opera non sia il gioco linguistico o l’esercizio stilistico.

Credi nell’ispirazione, c’è un momento particolare in cui senti la necessità di scrivere?

Credo moltissimo nell’ispirazione, non intensa come lingua di fuoco che dall’alto ci entra nel corpo e ci porta in una dimensione altra, ma come predisposizione e grande sensibilità di porsi nel mondo e di osservarlo. L’ispirazione è per me il contatto empatico con ciò che ci sta dentro e intorno. La poesia è la forma in cui meglio confluisce questo processo, che ha sempre un’origine interiore e intima, ma non l’unica: scrivere un saggio accademico, se lo si fa con passione, ha una buona dose di ispirazione alla base; così come dire “ti voglio bene” a qualcuno. L’ispirazione è un motore potentissimo che vive con me e che, come me, è ondivago: in molti momenti mi porta a fare, a dire; in molti altri a scrivere. Non ce n’è uno preciso, ma ce ne sono moltissimi. Senza scrivere (e soprattutto senza leggere) farei fatica a immaginare la mia vita.

C’è una sezione che ho trovato molto profonda e che mi ha trasmesso molto. Si tratta di Rintocchi, in cui le poesie sono straordinariamente intime e profonde, ed è difficile leggerle rimanendo indifferenti. Sono poesie, caratterizzate da horror vacui, da senso di mancanza, da rassegnazione. Ti va di parlarcene?

Rintocchi è la sezione più cupa della raccolta, in cui prima di provare a creare un nuovo paradigma di sopravvivenza, si resta paralizzati proprio da quegli elementi che tu hai saputo così bene cogliere: terrore del vuoto, mancanza e rassegnazione.
Nel passaggio dalla giovinezza all’adultità c’è un momento in cui si percepisce chiaramente che alcune cose non potranno più tornare; soprattutto non tornerà il poterle vivere in un certo modo: non si potrà più amare così, né guardarsi così allo specchio né provare le stesse emozioni. E se ogni fine è un non-ritorno, allora la morte, i fantasmi, il vento che sibila tetro diventano, inevitabilmente, i nostri compagni di viaggio, almeno fino a quando non saremo in grado di andare oltre i noi stessi che eravamo.

Questa domanda, in realtà, è una questione che pongo spesso ai giovani poeti, ed è un tema che mi sta molto a cuore: scrivere poesie oggi, nell’era dell’immediatezza dei social network, dove tutto è frammentario e imminente; credi nel futuro della poesia?

Sono teaching assistant in Comunicazione dei New Media e dei Social Network e in Psicologia dei Media, quindi la tua domanda colpisce il mio campo di ricerca, ovvero l’ambito che da anni indago e in cui riverso gran parte del mio tempo e della mia energia. Avrei tantissime cose da dire a riguardo, come puoi immaginare, tanto è vero che sto lavorando a un saggio su Poesia e Rete; mi limito a dire che sì, sì, sì la poesia ha e avrà futuro, insieme a tutte quelle persone che la studiano, la amano, la coltivano, la vivono e la rispettano e che i SN non sono mostri provenienti da pianeti sconosciuti, ma prodotti dell’uomo che andrebbero meglio conosciuti e molto meglio utilizzati, anche in relazione alla Poesia.

Quale consiglio daresti a un esordiente che vuole intraprendere la tua stessa strada?

Mi sembra che la vita sia, in tutti gli ambiti, un continuo esordio e che noi ci troviamo quindi a essere, ogni volta, degli esordienti.
Se devo, però, dire una cosa a riguardo, allora dico questa: andate avanti seguendo la vostra indole, senza tradire voi stessi per qualcosa che, di certo, non vale tanto quanto voi. Ogni realtà, anche quella della Poesia, è fatta di persone, con le loro bellezze e le loro brutture, quindi non aspettatevi un eden abitato da angeli, ma una terra fatta di imperfezioni. Ponetevi verso gli altri con gentilezza e umanità e che il confronto sia paragone per crescere e mai invidia per rivalersi o danneggiare. Proteggetevi, proteggete quello in cui credete e trovate dei maestri che siano degni di questo nome, capaci di estrapolare il vostro talento e di dargli forma. E poi, leggete. E vivete, che gli anni, come “Corpo della gioventù” ci ricorda, non tornano più.

 

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