Un gallone di kerosene – intervista a Henry Ariemma

L’ultima raccolta di Henry Ariemma, Un gallone di kerosene (edito Transeuropa), è una raccolta densa, di non facile assimilazione, che necessita inevitabilmente di tempo per essere digerita e apprezzata; una poesia a tratti ermetica,  a tratti quotidiana. In questa dicotomia, il lettore ha il tempo di perdersi in sé e nelle parole, ed è poesia quando questo accade. Da Los Angeles a Roma, Henry Ariemma ci fa dono di una raccolta raffinata e ricercata, dall’emozione rarefatta e per questo (straordinariamente) ancor più presente. La si potrebbe definire una raccolta nostalgica, volta al ricordo, ma sarebbe solo una mezza verità: il ricordo è atto poetico, strumento per analizzare il presente.

Partiamo dalla poesia che dà il titolo alla raccolta, “un gallone di kerosene”. È poesia che crea indubbiamente sentimenti contrastanti, di orgoglio e delusione, il tutto vergato dai ritmi confusi del ricordo e dell’infanzia. È chiaramente una delle poesie più personali della raccolta, in cui, credo, si riassuma completamente l’intero senso della stessa. Vuoi parlarci di questa figura rigida (o forse solo severa) che si intravede in questo componimento?

Più che una figura rigida o severa potrei parlare di una anteposizione tra un noi dell’essere amici o amichevoli (anche in modo potenziale, quindi di gesti, intenti e fatti che aprano la strada) e quella di chi non lo è, appunto. Di chi si comporta (e fa una scelta, consapevole o meno) come in gara saccente perenne o continua competizione per una ragione inesistente di “vedere più in là”, anche nei confronti di un bambino. Credo che queste relazioni tenere e obbligate anche tra parenti o conoscenti in famiglia possano essere emblematiche su quello che l’amicizia o un rapporto amicale non debba o possa essere; meglio, di tutto quello di cui bisogna disfarsi per porre le condizioni per una amicizia o rapporto amichevole che sia punto di arrivo (e partenza) ai comportamenti maturi di ogni relazione dove non esistono verticalità che non soccombano all’ampio orizzonte del cooperare. La ricerca quindi che ci ponga nella condizione del saper dare e anche scegliere, dell’apertura che ci faccia accettare: Uno altro, con rispetto e silenzi, discrezione e tempo aspettando incontri = amicizia.  

 

Come si intravede dal titolo, ed è quasi una domanda obbligatoria, si percepisce l’America nelle tue poesie…

Sì, si percepisce l’America come punto di partenza e già di arrivo (come un ritorno) anche etico, sia nella  formazione che toglie a volte i panni del Vecchio mondo tante volte per fazione e litigiosità a una individualità per esprimersi più liberamente e apertamente come di withmaniana memoria, sia anche tramite esperienze di vissuto personale anche indiretto con parenti pionieri apripista per altri.

C’è un momento particolare in cui senti la necessità di scrivere?

A volte nasce come conflitto di valore di visioni contrastanti che si antepongono nella memoria con più attori in mia veste di protagonista, come anche di solo osservazione a una realtà presente o passata da esprimere. A volte nasce come vuoto, come perdita di ciò che non è stato o di ciò che non potrà esserci mai con il solo ausilio di una musica da afferrare di una bellezza da vedere e puro cuore.

Quali sono i poeti che maggiormente hanno influenzato il tuo stile?

La lezione dei classici latini è aperta e continua. Majakovskij per la visionarietà e forza di immagini (suoi). Luzi, Fiori, Pavese.

Una delle sezioni che ho giudicato più interessanti è Mancati noi: si tratta di una serie di poesie, 21 in totale, in cui l’io lirico si concentra inevitabilmente nel confronto con l’altro, ed è confronto, appunto, mancato. Tutta la sezione costituisce un unico grande componimento e deve essere letto nella sua interezza. Si tratta di una serie di “tu” che descrivi con naturalezza disarmante, ed è come se l’io lirico si rivolgesse a chi legge; data la sua particolarità e la sua organicità, mi chiedevo se volessi descrivere ai nostri lettori come nasce una sezione come Mancati noi, la sua genesi e gestazione.

Mancati noi, sono musicalmente parlando delle variazioni su un tema. Sono la descrizione di tipi umani, quindi umano in partenza, laddove l’essere incentrato su se stesso porta per svariate ragioni alle conseguenze del solo “tu” e quindi solo “tuo io” mancando possibilità a un noi dell’amicizia, alla sua nascita e all’aspettarsi conseguente considerazioni  di “amico” nate come funzioni di ascolto e mai vero scambio.
La genesi e la gestazione si incontrano, la prima nasce da una osservazione continuata di relazioni personali come anche di altri, suffragate per accumulo a comune determinatore. Il passo è breve, si accende la miccia, gestazione a rabbia, contestazione e ironia alla nuvola di gas.

Un altro tema comune è il cambiamento, sia esso un qualcosa di momentaneo come un viaggio, sia esso un evento drastico e permanente che inevitabilmente stravolge la vita. In realtà, nelle tue poesie, si percepiscono più i secondi dei primi. Alcune poesie sono crude, drammaticamente vere, e lasciano con un senso di profondissima inquietudine. E questo, sia chiaro, è un valore aggiunto. In questa crudezza, si percepisce però la sensibilità del poeta. Ecco dunque la domanda, e sarà una domanda sciocca, ma anche essenziale: c’è molto di Ariemma nelle tue poesie?

Come nelle altre risposte, confermo al cento. E non potrebbe essere altrimenti (come da domanda). Le esperienze, la quotidianità sono quello che viene prima nella gestazione di una poesia, almeno che non si voglia parlare astrattamente di bellezza e di alberi, ideale e deità e anche li parla il poeta, il suo stile, quindi: persona+persona+p.=poesia

Questa, è una domanda che ricorre spesso nelle interviste ai nostri poeti: quale consiglio daresti a un esordiente che vuole intraprendere la tua stessa strada?

Di confrontarsi e di leggere tanto, soprattutto contemporanei da abbinare possibilmente a quel che si ha da dire per dirlo nel migliore e unico dei modi.

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