Se Pikachu compie vent’anni. Intervista a Loredana Lipperini su Pokémon e mondi narrativi

Non è semplice dare un’età ai Pokémon, creature immutabili e senza tempo. Bisognerebbe anche trovare dei punti di riferimento: il loro mondo narrativo nasce sotto forma di videogioco, sviluppato dalla GameFreak sotto la direzione di Satoshi Tajiri, che possiamo definire il papà. Era il 1996, e il videogioco era una cartuccia da inserire in un Game Boy, ve lo ricordate? Non aveva neanche i colori, i pixel erano pochissimi e le immagini in due dimensioni, ma ci piacevano un casino.

via Wikipedia

Molti di noi hanno comprato un Game Boy, o la sua evoluzione con parvenze cromatiche Game Boy Color, soltanto per giocare con loro, i Pokémon. E dire che in Europa, i Pokémon, li abbiamo conosciuti in un altro modo. Era il 10 gennaio del 2000, l’alba di un nuovo millennio, e il pomeriggio di Italia 1 proponeva un cartone animato completamente nuovo. C’era un ragazzino, Ash, che andava in giro con Pikachu e con delle sfere Poké per catturare altri Pokémon. Gotta catch ‘em all, diceva la sigla, acchiappali tutti, un sogno che abbiamo coltivato per vent’anni.

In questi 20 anni ci sono state varie generazioni di Pokémon, che sono passati da 151 a 809. I videogiochi sono passati dal Game Boy al Nintendo 3DS, fino al Nintendo Switch. Ma è con Pokémon Go, una semplicissima app per lo smartphone, che abbiamo finalmente potuto realizzare il sogno di catturare dei Pokémon in giro per il mondo, il nostro mondo. Sono passati abbastanza in fretta alcuni epigoni che ci sembravano copie mal fatte, dai Digimon a Monster Rancher, troppo simili per poter evitare paragoni e troppo poco interattivi per poter impensierire un impero fatto di giocattoli, figurine, fumetti, videogiochi, cartoni animati, film, app, emanazioni ufficiali e ufficiose che ci hanno accompagnato per vent’anni.

via Corriere

E che hanno fatto parlare di sé non solo fan e detrattori, ma tanti intellettuali che si sono interrogati sul fenomeno e hanno cercato di rintracciarne i motivi, il contesto, l’onda lunga che lo ha generato. Una di questi è Loredana Lipperini, giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica. Lipperini, lo sappiamo, ha sempre inteso la cultura come un campo da gioco molto vasto. Proprio nel 2000, quando ancora i Pokémon sembravano una delle tante novità che ci regalava questo inizio di millennio, aveva scritto per Castelvecchi un saggio dal titolo Generazione Pokémon. I bambini e l’invasione planetaria dei nuovi «Giocattoli di ruolo».

All’interno avevo trovato alcune idee che rappresentavano benissimo i motivi del successo dei Pokémon: l’importanza della socializzazione, il collezionismo, la non-storia, la serialità, il possesso. Ero troppo curioso di sapere il suo punto di vista, cosa era cambiato in questi vent’anni e cosa invece non poteva che rimanere immutabile. Grazie a Loredana Lipperini di aver capito e di essersi messa in gioco con noi.

 

Quando hai capito l’importanza del fenomeno Pokémon, al punto da dedicargli un libro?
Quando ne ho osservato i meccanismi, tra la fine degli anni Novanta e il 2000. Guardando i miei figli, allora bambini, mentre giocavano col Game Boy e giocando io stessa. Chiedendomi il significato di un giocattolo che agiva quasi in autonomia rispetto al suo possessore, di cui però aveva bisogno per crescere. Intuendo che quello dei Pokémon era un universo complesso, tutt’altro che invasione o ossessione planetaria come venne definita ai tempi. E il gioco, anche, era una storia di formazione non così lontana dalle tematiche classiche: come Wilhelm Meister, Ash prende congedo dalla madre e parte per il suo viaggio, per scoprire centinaia di creature impossibili. Mi sembrava tutt’altro che trascurabile.

 

In Generazione Pokémon analizzavi degli aspetti che hanno trovato conferma e addirittura un nuovo slancio nel corso del tempo. Uno di questi è il collezionismo, su cui riporti uno splendido esempio di Luca Raffaelli: «È come se da piccoli ci avessero presentato la storia che ha per protagonista un ragazzino che riesce a completare la raccolta di figurine dei calciatori, cosa che non è riuscita a nessun bambino di mia conoscenza. È chiaro che saremmo tutti impazziti». Perché questa storia ci appassiona così tanto?
Perché collezionare è faccenda antica, e certamente la spinta a ottenere più di quel che abbiamo è aumentata negli anni. Del resto, Pokémon nascono dalla fantasia e dalla vocazione al collezionismo del giovane entomologo che li ha creati. Ma, questo è il punto, chiedevano sempre un’interazione: non potevano crescere ed evolversi senza un allenamento. Pensa alla differenza con quel fenomeno che si chiama unpacking o unboxing: in sostanza, si tratta di video su YouTube, che mostrano qualcuno che disimballa, scarta, apre qualcosa. Un telefonino, le carte di Magic, giocattoli. Soprattutto giocattoli. Non succede nulla, in quei video. Qualcuno racconta, fuori campo, e intanto si vedono le sue mani che aprono scatole, pacchetti, uova. Hanno un successo mostruoso. Milioni e addirittura miliardi di spettatori. Specie bambini incantati a guardare ovetti di cioccolata che vengono aperti. In America qualcuno si interroga, qualche giornalista guarda gli ovetti ascoltando, con orripilata fascinazione, la voce fuori campo che annuncia che in quel video mostrerà 55 sorprese. Ecco un pony, ecco un coniglietto. Il video ha 66 milioni di visualizzazioni su YouTube. I bambini piccoli, intorno ai due anni, restano ore a guardare cosa c’è nelle uova. Non c’è alcuna comunità, alcuna partecipazione: solo visione di qualcosa che avviene lontano da te. Anche in questo caso c’è una sollecitazione del collezionista: ma passiva.

 

Loredana Lipperini

A proposito di storie: quella dei Pokémon è una non-storia. Sia nel cartone che nel videogioco la trama è un fattore secondario, non c’è una vera e propria formazione nel protagonista, il tutto si riduce nel collezionare Pokémon, renderli più forti e nel migliore dei casi farli evolvere. Un meccanismo che oggi è diventato comune, soprattutto in ambito videoludico. Ma come si fa a mandare avanti una non-storia?
Oggi in ambito videoludico ci sono anche storie narrativamente forti, come, per fare un solo esempio, The last of us. Però nel caso dei Pokémon erano il percorso, la ricerca e l’esercizio a sollecitare attenzione e curiosità. E la possibilità di scambiare i mostriciattoli con un altro giocatore: era la prima volta, ai tempi, ed era moltissimo.

 

Hai paragonato in più occasioni l’allenatore di Pokémon in una specie di Zio Paperone, entrambi emblema del “possesso puro”, privo di senso e di utilità. Semplice voglia di accumulare, senza porsi dei limiti. Che tipo di ricchezza, che tipo di desiderio è?
Era la ricchezza inesistente di quella che gli studiosi chiamavano ipermerce, ovvero quegli oggetti che sembravano dotati di una propria vita e un proprio destino. L’ allenatore di Pokémon, che non ambisce altro che a possederli tutti per poter combattere con altrettanti possessori, aveva forse a che vedere con zio Paperone e il suo deposito in cima alla collina, dove si ammucchia una ricchezza tanto inquantificabile quanto priva di senso perché priva di utilità. Si sosteneva, allora, che la merce fosse più rappresentazione che produzione. E contemporaneamente ai Pokémon uscì No logo di Naomi Klein che, da vie diverse, arrivava allo stesso concetto. La merce produce e soddisfa un’ economia del desiderio. Desiderio cui non corrisponde la mancanza perché a muoverlo è una trama complessa, una macchina autocostruita e senza controllo. Perché la Vespa è merce di culto? Perché esprime una felicità di ieri, vera o fabbricata molto bene, come le fotografie d’ infanzia dei replicanti di Blade Runner e come la vita antecedente del giocattolo Woody in Toy story 2. Oggi, certo, è diverso: non solo la merce, tutto è rappresentazione.

 

Nati come un passatempo da bambini, i Pokémon hanno uno zoccolo duro di appassionati ormai cresciuti che continua a giocare, collezionare e… criticare. I Pokémon sono passati da 151 a ben 809, e i fan della prima ora rimpiangono il passato, visto come l’età dell’oro, un’ideale di purezza inarrivabile. Insomma, la nostalgia si è impadronita pure dei Pokémon. Perché siamo diventati tutti passatisti?
Perché la freccia del tempo punta all’indietro invece che al futuro. E’ il motivo per cui trionfano le distopie e non le utopie, per cui impazziamo per gli anni Ottanta (in serie come Stranger Things o Dark) e non riusciamo a immaginare qualcosa di diverso in quel che ci sta davanti.

 

Loredana Lipperini

L’innovazione dei Pokèmon risiede in alcune dinamiche di gioco che ne hanno decretato il successo. Per collezionare tutti i Pokémon è necessario l’aiuto di un amico con cui scambiare i propri Pokémon con i mancanti. Pokémon Go è stato il primo esperimento che ci ha portato fuori dalle nostre case a stanare i Pokémon, sovrapponendo il nostro universo al loro. Socialità e dialettica tra il nostro mondo e il mondo narrativo: pensi che queste caratteristiche potrebbero essere mutuate anche dalla letteratura, dal cinema e in generale dalla cultura “ufficiale”?
Dovrebbe essere così, e in parte già avviene: potrebbe migliorare se solo si smettesse, da parte di quella cultura, di considerare ininfluente la cultura pop.

 

Ultima domanda, la più importante: qual è il tuo Pokémon preferito?
Stat Pikachu pristina nomine, nomina nuda tenemus.

 

 

 

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