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La Casa sull’albero – No Music on Weekends di Gabriele Merlini

Data la situazione Covid-19 molte librerie sono state costrette ad annullare e/o a cancellare gli eventi. Sappiamo che è giusto così, anche se ci dispiace molto, soprattutto per gli autori e le autrici i cui libri che stanno continuando a uscire, per tutta la filiera editoriale che si trova in difficoltà. Per questo abbiamo deciso di aprire uno spazio virtuale temporaneo qui su Tropismi, dedicato esclusivamente alla presentazione dei libri orfani di presentazione. Pubblicheremo brevi interviste agli autori, come se ne stessimo parlando in libreria, con qualche domanda e, se possibile, qualche riga di estratto. Non potremo dare a ogni libro il pubblico e il tempo enormi che meriterebbero, ma cercheremo di riservare uno spazio di benvenuto per tutti.

L’ospite di oggi è Gabriele Merlini con il suo libro No Music on Weekends, edito da Effequ.

Come nasce l’idea di questo libro?

No Music On Weekends è figlio del desiderio che da tempo avevo di scrivere qualcosa che fosse abbastanza lungo e articolato – sebbene mai avrei pensato di arrivare a 300 pagine – su una tra le mie passioni più radicate: il rock. La scelta della new wave, e del mondo che ha partorito il fenomeno, deriva viceversa da due dati: uno anagrafico e l’altro di provenienza. Ho 41 anni e il periodo del quale ho scritto tende a sovrapporsi a molti ricordi personali, il me bambino che osserva dalla distanza questi buffi individui vestiti di nero nel centro della mia città che, tra l’altro, è stata un luogo centrale per il genere: Firenze. Di fatto No Music On Weekends è un saggio su gruppi strani, dischi e concerti, ma anche un diario che indaga il rapporto tra musica e memoria. 

Riassumi il nodo centrale del libro in una frase.

Scindere la musica dalla quasi totalità di quanto ci circonda – politica, relazioni familiari, sentimentali – è una follia e, benché banale come constatazione, è sempre utile sottolinearlo (frase lunga: me ne rendo conto.)

Che tipo di lavoro hai fatto?

La prima fase è stata ricognizione sul campo. Nel mio caso vecchi negozi di dischi, sale da concerto in disuso, chiacchierate con i protagonisti in giro per l’Italia e non solo. Poi, con il materiale a disposizione, l’approccio classico del reportagista: taglia, cuci e prova a essere interessante.

Hai dovuto compiere delle ricerche?

Molte. Non è il paleolitico, ma possono capitare lungaggini nel reperire materiale di fine anni settanta tra etichette indipendenti, libretti interni di vinili e ricordi di chi, ai tempi, spesso era sbronzo. Però mi è piaciuto da matti: sono un tizio meticoloso con le fonti e disorganizzato nella rielaborazione. È stata un’avventura stimolante.

Chi ti piacerebbe che lo leggesse?

Spesso mi sento dire «ho apprezzato il tuo libro, anche se di new wave non ci capisco niente.» Dopo avere pubblicato un saggio sulla new wave mi sento più vicino che mai a chi non non ci capisce niente di new wave, ed bello che mi leggano: sono quelli con i quali parlo delle sezioni narrative e, mi illudo, dai riscontri più onesti. Inoltre ho lavorato tanto sullo stile e mi piacerebbe No Music On Weekends fosse letto da coloro che abbiano qualche propensione per le forme letterarie ibride, dettagliate ma leggere, inusuali e – c’è da augurarselo – ironiche.

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