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La Casa sull’albero – Crocevia di punti morti di Matteo Grilli

Data la situazione Covid-19 molte librerie sono state costrette ad annullare e/o a cancellare gli eventi. Sappiamo che è giusto così, anche se ci dispiace molto, soprattutto per gli autori e le autrici i cui libri che stanno continuando a uscire, per tutta la filiera editoriale che si trova in difficoltà. Per questo abbiamo deciso di aprire uno spazio virtuale temporaneo qui su Tropismi, dedicato esclusivamente alla presentazione dei libri orfani di presentazione. Pubblicheremo brevi interviste agli autori, come se ne stessimo parlando in libreria, con qualche domanda e, se possibile, qualche riga di estratto. Non potremo dare a ogni libro il pubblico e il tempo enormi che meriterebbero, ma cercheremo di riservare uno spazio di benvenuto per tutti.
L’ospite di oggi è Matteo Grilli con il suo Crocevia di punti morti, edito da effequ.

Come nasce l’idea di questo libro?
Avevo un’idea molto vaga del ritorno a casa di tre persone e di un drago morto nelle fogne, tutto il resto è venuto fuori mentre lo scrivevo in dormiveglia.

Riassumi la trama del libro in una frase.
Tre persone distrutte e un mostro ferito esplorano un paese di provincia in cerca di orrori e magia.

Quali sono le tue influenze, letterarie o meno?
Evito quelle letterarie e dico le altre: le vhs caricate su YouTube, videogiochi strani, fumetti usati come ipersigilli, qualsiasi cosa horror, Harmony Korine, il post-strutturalismo come ricordo dolce/terrificante di quando studiavo filosofia.

Questo per te è un esordio. Come lo stai vivendo?
Sinceramente non me ne rendo conto, sono un po’ spaventato e spero solo che resti qualcosa a qualcuno del mostriciattolo di carta che ho evocato.

Chi ti piacerebbe che lo leggesse?
Non è tanto chi ma come. Idealmente mi piacerebbe che venisse preso totalmente a casaccio da una libreria, magari con la copertina tutta rotta e le pagine ingiallite e una dedica misteriosa al suo interno. Sarebbe bello.

 

Estratto:

Leonardo ricorda un patto di sangue

Essere funzionale quando sei in un corpo che non è il tuo è già un casino, farlo mentre sei in una spirale paranoide è ancora peggio ma, cristo, se devi lavorare da remoto allora per favore Dio, fa’ che una pallottola vagante mi arrivi dritta in fronte e mi spenga per sempre. Grazie.
Leonardo ascolta gli altri che parlano nella call con il cliente ma non riesce a dare un senso al flusso di termini che gli arrivano da ogni parte; ne prende un paio, li attacca dentro il doc Word aperto e spera abbia tutto senso una volta inviato ai colleghi.
Li chiamano Stage, per lui sono come gli stadi di una malattia terminale.
Ne ha fatti quattro, li ha portati a termine tutti, ma ogni volta perde un pezzo di qualcosa lungo la strada. A ogni autobus, taxi, passo fatto da casa al lavoro avverte i denti di qualcosa che gli strappa via la carne.
Mangiato, vengo mangiato, mangiato vivo. Nessuno sa cosa voglia dire essere ‘mangiati vivi’ perché nessuno sa davvero cosa si prova quando ti viene strappato via un pezzo di carne: le terminazioni nervose che impazziscono, forse si sente freddo, pensare a un osso del mio corpo esposto mi fa sentire freddo. E pensare a qualcosa che gode mentre si mangia un pezzo di me mi fa stare ancora peggio.
Ma non posso smettere di pensarci.
La sua collega gli scrive in chat, vede spuntare la notifica su Telegram, apre e legge: “sei ancora più carino con gli occhi tutti gonfi ;)”.
Leo si incupisce, le risponde di smetterla, deve concentrarsi su cosa sta dicendo il cliente.
L’inglese del tizio è terribile, e anche il suo non scherza, quindi deve restare concentrato. Focalizzato al massimo, funzionale, una macchina. Pensa che vorrebbe solo tornare a letto, non dormire e ricadere nella spirale, stava costruendo qualcosa nel suo taccuino e sperava non lo tormentassero se si fosse preso dei giorni di malattia.
I giorni si sono accumulati, in ufficio si chiedevano che cosa stesse facendo quell’efebico stramboide dello stagista, la sua tutor gli ha scritto: “Leo, mi serve una mano per la call di domani mattina, ci sei?”.
Stare a letto era sempre invitante, strisciare verso il divano, stordirsi di ASMR, dormire, fare la spesa, vedere qualcosa su Netflix, dormire.
In un fumetto antichissimo ricorda l’immagine di un toro con la canottiera e dei pantaloni luridi, la barba sfatta, che diceva rassegnato: “Lasciatemi stare, sono depresso”; una mosca gli girava attorno e sentenziava: “E ci credo, guardalo, va ancora in giro con i pantaloni del pigiama”.
Leo non va mai in giro in pigiama. Ti vesti appena esci dal letto, così nel letto non ci torni, sei costretto a fare cose. Il lavoro ti spacca la giornata, ti mangia, consuma le ore e consuma te e in questo modo quando torni sei bello stanco e dormire ha un senso. Se ti svegli, ti alzi: è la regola. Il problema è quando tutto questo non funziona più, perché la mattina ti spari un rumore bianco per proiettarti in una dimensione di emotività ridotta allo zero assoluto, e se hai gli occhi aperti alle sette magicamente sono le otto e quarantacinque e sei già in ritardo, corri a prendere l’autobus, il treno, la metro.
Arrivi in ritardo, ti scusi, anzi no, ti scusi di cuore e dici che non succederà più. Poi lo rifai, ed edifichi una cattedrale ricorsiva di colpa ed espiazione, tutto per arrivare alla fine di uno stadio terminale lavorativo che se per caso si spezza, oh sì Leo, torni nel Pozzo dove ci sono tutti i tuoi amici nascosti nelle fogne.

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