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Storia di uno scrittore che ci insegnò a volare

Se sei nato negli anni Novanta, con ogni probabilità ti è stata regalata la Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare per qualche occasione importante o per incoraggiarti a leggere. È così che quasi sicuramente hai incontrato Luis Sepúlveda, uno dei più importanti scrittori cileni del secondo Novecento.

Amico stretto di Cortázar, appassionato di Carver e di Cervantes, Sepúlveda è stato molto di più che quello che viene venduto in Italia come scrittore di favole adatte ai bambini. Attivista politico e ambientale, romanziere, combattente, giornalista, prigioniero, esiliato politico, innamorato e sposato due volte con la stessa donna, la poetessa e attivista a sua volta Carmen Yáñez. Da sempre diviso tra il Cile e l’Europa, in particolare Germania, Francia e infine Spagna, dove viveva da tempo e dov’è morto il 16 aprile 2020.

Eppure, quella che ti è capitata tra le mani più di venti anni fa è la storia piccola di una manciata di piccoli personaggi, silenziosi e ai margini, che riescono nella loro impresa proprio perché consapevoli della loro piccolezza, della differenza che può fare ogni singolo gesto, dentro il quale mettono tutto il loro impegno.
Questa è l’abilità di Luis Sepúlveda, maestro dei dettagli e delle cose da vedere da vicino, delle voci tralasciate e dei confini, viaggiatore instancabile e altrettanto instancabile guerriero d’azione e di parole.

Per nessuno è un segreto: io l’ho capito sempre. Io sono un uomo formato in una cultura di sinistra, orgogliosamente di sinistra, e scrivo una letteratura di sinistra. La maggioranza dei miei lettori è gente di sinistra. Se mi legge qualcuno dell’altra parte va bene, ma io scrivo sostanzialmente per la mia gente.

Luis Sepúlveda, a La Repubblica delle Idee 2018 (Bologna, Piazza Santo Stefano)


Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare

«Banco di aringhe a sinistra!» si colloca in cima alla mia lista degli incipit indimenticabili, assieme ad Anna Karenina («Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo proprio») e Cent’anni di solitudine («Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio»).

A gridarlo è il gabbiano di vedetta dello stormo del Faro della Sabbia Rossa, stormo a cui appartiene Kengah. Lei è tra i gabbiani che finiscono invischiati in una macchia di petrolio nel tentativo di catturare le aringhe e, con molta fatica, riesce a liberarsi e a librare in volo fino a un balcone della città di Amburgo, dove atterra esausta per deporre il suo uovo.

All’istinto di sopravvivenza della specie di Kengah farà da contraltare il nascere di un goffo ma sincero istinto materno in Zorba, il gatto grasso che vive nell’appartamento a cui appartiene il balcone su cui la gabbiana ha esalato gli ultimi respiri. Non prima, però, di aver chiesto a Zorba di prendersi cura dell’uovo e del piccolo che ne nascerà e, soprattutto, di insegnargli a volare.

Io credo nell’etica.

Luis Sepúlveda, a La Repubblica delle Idee 2018 (Bologna, Piazza Santo Stefano)

A uscire dall’uovo è una gabbianella, chiamata Fortunata dai gatti del porto amici di Zorba che con lui iniziano a prendersene cura. Tra pericoli e disavventure, quello che è l’obiettivo comune – insegnare alla gabbianella a volare – diventa una scoperta collettiva di qualcosa di più profondo, di un legame che va oltre le penne e le vibrisse, che li porta perfino a rompere una legge felina (non miagolare l’idioma degli umani) e a chiedere aiuto al padrone di Zorba. Il tutto per qualcosa di più grande, che non è solo il mantenere una promessa, ma la scoperta di sé tramite l’altro, l’accettazione del diverso: «Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana» ricordano i gatti a Fortunata.
Se non è una fiaba anche per adulti questa…

© FLICKR.COM / PAOLO BENEGIAMO


Incontro d’amore in un paese in guerra

Una raccolta di racconti che sembrano pennellate, piccole finestre aperte su mondi distanti e su tempi lontani o vicinissimi, sequenze di dialoghi serrati e immagini perfettamente incastonate, atmosfere che si rimbalzano dal Cile all’Est Europa senza perdere un colpo nel filare delle pagine.

In mezzo a tutto questo, uomini e donne, vecchi e giovani, pazzi ed esiliati, innamorati e soldati. A tenerli assieme, il filo della politica e del terrore che corre a volte a pelo d’acqua ma sempre ben evidente, il senso di nostalgia pregnante come uno di quegli odori inconfondibili che si respirano tra le parole degli scrittori sudamericani.

A salvezza stanno proprio le parole: torture, ansie, disillusioni, appuntamenti mancati, complotti e amori impossibili hanno la stessa autorevolezza nella vita di questi personaggi, che soffrono e combattono con la medesima energia, che si tratti di amore o di guerra.

Come scrittore, so di avere la capacità di essere un creatore di bellezza. […] Mi piace quando la parola che scrivo, quando la frase che ho finito, quando la pagina che ho finito è bella, che ha una dose di bellezza forte. È un contributo a combattere contro tutto quello che è brutto.

Luis Sepúlveda, a La Repubblica delle Idee 2018 (Bologna, Piazza Santo Stefano)


Diario di un killer sentimentale

Breve, intenso, mirato: Diario di un killer sentimentale è un colpo in canna nella narrativa di Luis Sepúlveda. Anche qui, l’amore si mette di mezzo: ma in un modo che quasi potrebbe costare la vita e la professione, se non si tiene a bada.

Anche mentre insegue i suoi target da un lato all’altro del mondo, senza sosta, portando a termine le missioni che di volta in volta l’uomo degli incarichi gli commissiona, il nostro killer si dimostra impeccabilmente professionale. È questo che gli ha portato fortuna e sempre più incarichi, anche se negli ultimi tempi ha iniziato a commettere alcuni imperdonabili errori.

Tenere le faccende di cuore fuori dalla porta dell’ufficio è difficile quando sei un sicario che è appena stato lasciato dall’unica donna della sua vita e del suo cuore – sì, anche i killer hanno un cuore che può essere spezzato. Tra malumori e disattenzioni, valigette e fotografie, il killer sta cercando l’unica persona che in tutto il libro abbia un nome, Victor Mujica: è l’ultimo target della sua fulminante carriera, dopo il quale potrà andare in pensione. C’è qualcosa, però, che comincia a insinuarsi nelle pieghe appena visibili della camicia del nostro killer, che ha un volto tra tanti, con un nome così trascurabile da non dover nemmeno essere tramandato, sempre invisibile come un sicario che si rispetti. Cosa sarà più forte, la professionalità o i sentimenti? A cosa si è più attaccati, al lavoro o al passato? Quale legge è più forte, il dovere o la pietà?

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