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#MonterosaRacconta | Figlio del Lupo, di Romana Petri

Il primo momento in cui con chiarezza ho pensato alla morte avrò avuto sette od otto anni, me ne stavo a letto e la voce di mio padre leggeva Zanna Bianca per farci addormentare. Ancora oggi, vent’anni dopo, quando mi fisso le mani che battono sui tasti – che è più o meno tutto il giorno tutti i giorni, anche ora – non faccio che pensare alle prime pagine di quel libro.

Jack London, Zanna Bianca, 1906

Una visione incredibile della morte, perché resa, appunto, visibile: nessuno struggimento ultraterreno, nessuna ansia metafisica, nessun mistero da svelare. Solo, la presa di coscienza che la perfezione del nostro corpo non ci salverà dall’essere sbranati e sparire così dalla faccia della Terra, in una notte qualsiasi nel cuore dell’Alaska.

Un lutto per se stessi, per la propria forza e per la propria umanità – in senso fisico, in senso antropologico, in senso culturale. Un concetto di morte e mortalità che passa attraverso l’esaltazione del proprio corpo e la presenza fisica, intesa anche come spazio occupato nel mondo, oltre che l’esserci e l’esistere. E se questo passo mi aveva aperto gli occhi da piccola, oggi posso rileggerlo sotto una luce diversa grazie a Romana Petri, inquadrandolo ancora meglio all’interno dei pensieri, dell’etica, della scrittura e della vita di quella figura quasi mitologica che fu Jack London.

Oggi 1° Agosto, infatti, Romana Petri presenta a Monterosa Racconta, di cui Tropismi è media partner per il secondo anno, Figlio del Lupo (Mondadori, 2020), in cui ripercorre la biografia di Jack London trattandolo da vicino, mostrandocelo in momenti intimi, perso tra i propri pensieri, a confronto con tanti senza nome nei bar, al seguito di una ciurma, in trepida attesa sotto casa di un’amata. Dalla sua nascita alla sua morte, una meteora – come lui stesso si definiva – che lasciava gli altri a bocca aperta mentre gravitava sicuro, attratto da una forza da cui non era dominato e che non poteva dominare, ma con cui aveva stretto un patto: sarebbe diventato lo scrittore più importante al mondo. Nel frattempo, però, l’importante era esistere, sperimentare la vita «e succhiare tutto il midollo di essa».

Quanta più vita vedevo, tanto più me ne innamoravo.

Jack London, citato in Romana Petri, Figlio del lupo

Non sapevo tante cose di Jack London, che pure è stato tra i primi autori che mi siano mai stati letti: per esempio, partendo dalla fine, il suicidio; o i matrimoni; gli innamoramenti senza speranza; che fosse un marinaio, oltre che un cercatore d’oro; che non avesse un padre e che proprio per questo ne avesse due; che fosse un padre a sua volta; che fosse un agricoltore; che fosse ritenuto lo scrittore più importante degli Stati Uniti; che riuscisse a scrivere anche quattro libri l’anno; che fosse un socialista; che fosse uno scrittore socialista.

Quella in cui ci conduce Romana Petri è una vera e propria scoperta, un’esplorazione in terre sconosciute proprio come fu la corsa nel Klondike, in cui si era convinti che si sarebbe trovato esattamente cosa si andava a scoprire – io: uno scrittore appassionato di natura, di Alaska, di oro, un uomo dei suoi tempi – e invece si tornava, quando si tornava, con poco oro e altre rivelazioni altrettanto luminose – lui, ad aspettarmi: una forza della natura, umana e vegetale, animale e marina, in grado di reinventarsi agli altri e affermarsi a se stesso senza tregua, senza riposo, senza fallimento.

«E cosa vuol dire essere figlio del lupo?» gli chiese Charmian guardandolo negli occhi.
«È il nome che danno gli indiani artici all’uomo bianco conquistatore.» «E tu, Jack, sei un conquistatore?»

Romana Petri, Figlio del lupo

Una vita da conquistare: tanto con la forza fisica – prestante, pugile, seduttore: le lodi di Romana Petri costellano il libro – quanto con quella intellettuale, con il pensiero, con il ragionamento, con l’istruzione. I rivali nella vita di ogni giorno e quelli sul piano ideale, come i grandi classici di lingua inglese, l’incontro letterario con scienziati come Darwin e filosofi come Nietzsche diventano un corpo a corpo, in cui Jack London è messo e si mette alla prova, e da cui esce rafforzato, rigenerato, pronto a combattere per sé e per la propria affermazione.

Anche il negativo, però, appare nel Figlio del lupo. Perché ci sono parecchi atti mancati, come lui stesso li definiva, nella vita di Jack London. Forse le cose che più lo struggevano quando rimaneva solo, quando l’alcol non aiutava più, quando non stava scrivendo, quando non era il migliore.
Un figlio maschio, per esempio, mai arrivato da nessuna delle sue mogli o amanti; oppure l’amore con Anna Strunsky, scrittrice e poetessa russa emigrata negli USA con cui scrisse a due mani un libro sull’amore socialista, che rimase per sempre vero e sospeso, mai concretizzato; un libro di poesie, mai scritto.

È in queste mancanze, su cui la forza di volontà e la forza fisica non riescono ad agire e avere la meglio, che si rivela un Jack London lontano dall’immagine che di sé aveva modellato attraverso gli anni, anche attraverso l’indefessa fiducia della madre Flora, dalle abilità medianiche, il supporto pratico della sorella Eliza, anche manager del ranch di Jack, i suoi ammiratori e i suoi antagonisti. Rimane un Jack London che si voleva figlio di un lupo, conquistatore della terra e della scrittura in egual misura – se è vero che «se pareba boves»– , che ottenne cose incredibili tanto con le sue imprese quanto con i suoi libri, e che comunque non poteva fare a meno di desiderare quello che desideriamo tutti: potersi esprimere davvero, e un po’ di amore.

«Noi due siamo molto pericolosi insieme.»
«Mi stai dichiarando qualcosa, Anna?»
«Non facciamo altro da quando ci siamo conosciuti. Ma non riusciamo a venirne fuori. Si vede che doveva andare così.»

Romana Pietri, Figlio del Lupo

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