Le luci della città

di Stéphane Zuliani

Le luci della città se le guardi a lungo sfarfallano. Corso Buenos Aires di notte che gli sfilava intorno leggermente pallido come un mattino nebbioso. L’insegna rossa del teatro, quelle giallo-dorate degli alberghi, il verdolino intermittente dei cartelloni pubblicitari a venti metri d’altezza sopra piazza Argentina, che per vederli dovevi accartocciare la nuca come una fisarmonica – come quando, ma eri da un’altra parte, alzavi la testa per vedere le stelle.

Lui guardava i riquadri rossi della metropolitana (Palestro, Porta Venezia, Lima, Loreto, Pasteur…), s’immaginava il reticolo sotterraneo e così aveva imparato a orientarsi, non con le stelle, ma con la metropolitana. Gli piaceva quell’unica mappa comprensibile della città, piana, geometrica, le linee di diversi colori come un disegno stilizzato (a cosa siamo disposti a rinunciare purché le cose siano semplici? a un’intera dimensione? a tutto ciò che affiora tra l’asfalto e il cielo buio?). Ma la tua vita non è mai piana quando vivi in città, non è fatta di linee dritte che si dipanano in ogni direzione, ma di spirali che si aggrovigliano entro nomi e cognomi che non sono quelli di Garibaldi e di Pasteur, e perciò si dimenticano in fretta.

Lui, che teneva ancora a memoria tutte le fermate della linea rossa in entrambe le direzioni, quei nomi non se li ricordava più. Alcuni erano entrati e usciti dalla sua vita nel giro di una notte, erano rimasti solo volti senza nome, e poi solo dettagli senza volto, un tatuaggio strano, lo smalto verde alle unghie, qualche frase detta o ripetuta. Come un musicista brasiliano che aveva incontrato a Porta Venezia, gli aveva offerto gin tonic e cocaina, ma il suo nome era scomparso insieme col volto mulatto e le parole biascicate di un ragazzo strafatto che cerca pubblico.

«Un fascista buono è un fascista appeso» – questa è l’unica cosa che restava del musicista. Ma sotto la luce di quella notte doveva essergli sembrato che svelasse un arcano.

Poi le insegne delle librerie che una volta aveva frequentato: la rossa, la verde, la nera… ognuna con la sua storia e i ricordi chiusi dentro le saracinesche abbassate, di quando lui andava all’università e coi suoi compagni giravano le librerie senza comprare mai niente, ma solo per svago, per conoscere i nomi degli scrittori – che erano nomi della specie di Garibaldi e di Pasteur, non della specie del musicista brasiliano. Alcuni di quei compagni si sarebbero indignati se avessero saputo che nei suoi occhi c’erano proprio le luci delle insegne erette a celebrare il capitalismo popolare (al più, piccolo borghese) di corso Buenos Aires. Si sarebbero incazzati se lo avessero visto come stava, seduto al tavolino di un MacDonald’s a tentare di spremere fuori le storie mai annotate di quei giorni.

Le luci della città, se le guardi a lungo, bucano il buio – scribacchiava roba del genere. Milano sembra più spaziosa di notte, perché i fili del tram sono invisibili contro il cielo nero. E ci sono queste forme colorate e sfarfallanti che gli vengono incontro a ogni passo – con il ritmo esatto che pensava di trovare a Piccadilly Circus e invece lo poteva trovare solo qui.

Si chiama Isaia, come il profeta. Isaia Bacher. Non ha mai profetato un bel niente, e anzi, è una fortuna che le sue poesiole adolescenti non siano mai state recuperate dalle pagine incartapecorite dei vecchi taccuini. Si chiama Isaia ma i compagni lo chiamavano Ringo per via dei capelli tagliati a scodella. Lui prima di venire a Milano di Ringo e degli altri non aveva mai sentito parlare perché a casa sua le sue sorelle ascoltavano Anastacia e Robbie Williams. Glieli ha dovuti far sentire Gino, una sera, inginocchiato sul materasso giapponese con il grosso laptop affondato in un cuscino.

«Tipo Eleanor Rigby, anzi no, Yellow Submarine! Come è possibile che non conosci Yellow Submarine, ma da dove vieni, da Marte?»

No, Isaia viene da un paese che si chiama Calalzo di Cadore, dove ci sono le montagne, il lago, e ancora le montagne. Anastacia ci è arrivata ma i Beatles pare di no.

«Non è possibile Ringo, i Beatles vengono prima

«Lo so, se li saranno dimenticati.»

«Ma senti qua, come fai a dimenticartela questa roba?»

Suona Tomorrow Never Knows. Ringo fa spallucce.

È diversa dalla musica che suona nella sua testa quando alza gli occhi dal taccuino e guarda fuori dalla vetrata del MacDonald’s. Quella è un’altra delle cose che loro disapproverebbero. Una canzone che fa: The lights go out and I can’t be saved, eccetera eccetera.

Dove sei adesso? Sei nel tuo sguardo distante? Nel tuo taccuino spolpato? O da qualche altra parte – vicino ma non abbastanza al cuore di un dedalo di ricordi sfocati? Seduto tra le colonne di San Lorenzo ad aspettare gli spacciatori neri che in quegli anni bazzicavano ancora lì. Una donna gli si è avvicinata, vuole una sigaretta, lui gliela dà. Mentre l’accende, il viso della donna s’illumina con la fiamma alta dell’accendino. Lui ha l’impressione di averla già vista da qualche parte, ma forse è solo uno dei tanti universitari sfuggenti, musicisti brasiliani e Isaia Bacher che non saranno mai Garibaldi e Pasteur in questa vita. Sta per dirle che ha un’aria familiare, ma la donna si volta timida, e ha quello sguardo come di una che non è troppo familiare neanche a se stessa.

Al circolo quasi tutti hanno una donna o un uomo. Restano fuori Lala, che ha un occhio che guarda al Sole e uno alla Luna, Diego, a cui non gliene importa niente delle donne né degli uomini, e Ringo. Lui ci ha provato, ha scritto delle poesie per Margherita, se l’è immaginata ogni notte da quando è arrivato, e aveva diciotto anni mentre lei ventiquattro; le ha regalato un libro di poesie e offerto decine di birre, niente da fare. Poi c’è stata Kaynia, che aveva l’età giusta, la pelle marrone, uniforme, morbida, i capelli a treccine, ma se n’è andata in vacanza e non è più tornata.

«Sei un allocco,» gli diceva Gino, e Ringo trovava molto gentile che gli desse dell’allocco e nient’altro. Perché in fondo era vero, non era mica un brutto ragazzo Ringo, era solo un allocco. Non gli era difficile rimediare una scopata con chicchessia, ma una ragazza vera lui non ce l’aveva mai.

Ecco un ricordo quasi nitido. Una sera è arrivato al circolo col fumo. Potrebbe essere lo stesso giorno in cui ha incontrato quella donna alle colonne di San Lorenzo, ma è improbabile. Ad ogni modo, è arrivato là che c’era più gente del solito. Qualcuno aveva portato dell’erba e il suo fumaccio delle Colonne se lo dimenticarono, non è una questione di opportunismo, ma di opportunità, si diceva sempre. Isaia uscì da solo, il vento fermo, il calore che esalava dall’asfalto; si sedette sul gradino di una rosticceria, le spalle appoggiate alla saracinesca, e sopra la testa un’insegna spenta che diceva “Rostecciria”. Si stava girando la sua canna, quando vide che nell’ombra una porta si apriva, e qualcuno usciva fuori. Era un ragazzo riccio e abbronzato, uno del circolo, che gli faceva il filo da un po’. Scambiarono qualche parola, poi si sedette anche lui sotto la “Rostecciria” e fumarono insieme. Quella sera gli riuscì di portarselo a letto, ma è qui che il ricordo finisce, come il lato A di un’audiocassetta che s’interrompe prima di un ritornello. Chissà che fine ha fatto dopo. Ormai quel ragazzo non ha più un volto, solo i capelli ricci e la schiena abbronzata. Chissà cosa ne è stato di lui.

Chissà cosa ne è stato anche del circolo. Si dice che quella zona della città sia stata riqualificata, qualunque cosa significhi. Isaia ricorda che uscivano in strada di notte, a fumare, e i marciapiedi erano mezzi illuminati e mezzi no, il che era di gran lunga meglio che vedere per intero lo sporco lurido di quel posto. Riqualificarlo poteva voler dire tanto aggiungere i lampioni che mancavano, quanto togliere quelli che c’erano. Una volta non avrebbe avuto dubbi su quel che andava fatto.

Oggi camminava sui marciapiedi illuminati a giorno, le luci della città come una benedizione. La stessa lunga passeggiata che aveva fatto ogni mattina per anni. Si alzava mezz’ora in anticipo e andava all’università a piedi. Quando arrivava c’era sempre Gino che fumava fuori dall’ingresso del civico numero 3. Diceva a tutti che Ringo vuole fare l’atleta (che non era vero) ma poi diceva a Ringo che aveva un gran fisico (che era vero). In realtà a lui piaceva alzarsi all’alba e attraversare la città prima che sorgesse il sole, cogliere di sorpresa la notte prima che facesse in tempo a dileguarsi.

Gli studenti erano troppi e i banchi troppo pochi, si finiva seduti sui gradini e di prendere appunti non c’era verso. Gino però era un grandissimo sbobinatore, e Ringo approfittava delle lezioni che il compagno registrava e trascriveva nel pomeriggio, rincantucciato nella biblioteca interrata del dipartimento. Era il posto dove tutti i secchioni andavano a nascondersi come talpe lontano dalla socialità dei cortili, con le sue facce vagamente consuete e i nomignoli urlati da un capo all’altro del chiostro.

«Senti Gino, com’è che tu conosci tutti ma non parli mai con nessuno?»

«Ma va là, cosa dici, io parlo.»

«Non so, ad esempio quel tipo che ti ha salutato prima… io non ho mai visto che ci parlavi.»

«No?»

«No.»

E Gino ci pensava su, cercava di ricordarsi dove aveva conosciuto quel tipo. Ma in realtà faceva finta, perché era un tipo abitudinario anche lui, e attaccava bottone sempre nello stesso posto: al mattino, fuori dal civico numero 3, mentre fumava e aspettava che Ringo finisse la sua maratona.

Allora, percorrere la città a piedi, era un modo per possederla. L’avrebbe calcata tutta, ogni viale e ogni vicolo. Si sarebbe svegliato troppo presto, avrebbe fatto tardi a lezione, avrebbe mancato di parlare con Gino e di conoscere tutta quella gente senza nome e senza volto con cui lui attaccava bottone ogni mattina. Non ha importanza. Allora percorrere la città a piedi, attraversarla nel buio, lasciarsi circondare dalle luci, dal traffico, dal gelo, dalla nebbia, dalla pioggia, da tutta quell’energia tremolante e inafferrabile, sconosciuta e vivida, sentirla mentre lo permeava, sentirla sulla pelle e nel corpo, allora era la cosa più grande a cui si potesse ambire.

E adesso? Cosa voleva dire camminare anni dopo nella città semibuia, accanto a tutte quelle cose che non erano mai cambiate, i lampioni pallidi e le fermate degli autobus coi led arancioni? Non era cambiato niente, solo che stanotte Isaia avrebbe volentieri preso il tram.

E dov’è Ringo, mentre Isaia Bacher percorre via Costa fino a piazza San Materno? Non è più notte, ma un mattino soleggiato che sembra preso in prestito a una città del sud. Isaia Bacher ha infilato il taccuino nella tasca posteriore dei pantaloni e si è incamminato guardandosi attorno, non può rinunciare, fino a quando calcherà queste strade il suo sguardo correrà in ogni angolo male illuminato a cercare l’ombra di quello studente coi capelli tagliati a scodella.

La chiesa imponente è gremita. Sopra la grande folla resta sospeso un grande silenzio. Le persone, sedute a quattro o cinque per panca, ben distribuite, tacciono. È come se nessuno di loro conoscesse gli altri. Si scambiano pochi sguardi estranei e ottusi. Isaia si spalma contro la parete di una nicchia, dietro le candele accese, da lì riesce a vedere bene le prime file, vuote.

Attacca la marcia e la gente si alza. Dietro la cassa, la famiglia che va a occupare le prima file, una moglie mai vista, due figlie mai viste, dei fratelli sconosciuti. Ma no, non è vero: una delle figlie, la più grande – Isaia la guarda a lungo – non porta gli occhiali da sole, e il suo viso, benché pallido e stravolto, gli sembra ancora illuminato dalle luci della città. È un viso vero, nitido, un viso familiare, Isaia ne è sicuro. È il viso di Gino che si stacca dal colore indistinto della chiesa e gli va incontro, lo cattura, gli parla come se si fossero incontrati giusto ieri l’altro nella biblioteca interrata del dipartimento.

Isaia non ha il coraggio di andare a fare le condoglianze. Resta lì come un allocco, indeciso se svignarsela o associarsi a qualcuno, cerca i vecchi compagni di università, quelli del circolo, ma nessuno, nessuno si palesa. Avranno fatto tutti stessa fine di Ringo, ovunque sia. Facce scure, occhi vuoti e sofferenze estranee. Ecco quello che rimane.

Esce da una porta laterale, è investito dal sole e dalla puzza di sigaretta. È lei, la figlia maggiore, che fuma appoggiata alla parete della chiesa.

«Salve.»

«Salve.»

Isaia esita. «Condoglianze,» mormora. La ragazza lo guarda intimidita, avrà sì e no vent’anni, occhi grigi, piccole mani. «Andavo all’università con tuo padre, mi chiamo Isaia Bacher.»

Annuisce, ma nulla fa pensare che abbia già sentito questo nome. Forse conosce Ringo, deve conoscerlo per forza.

«Era tanto che non lo vedeva?»

«Sì, era tanto.»

Sta per ricominciare a piangere, ma dalla sigaretta succhia un’ultima riserva di forza. Fa un piccolo sorriso.

«Buona giornata.»

«Buona giornata.»

Nell’allontanarsi dalla chiesa, Isaia pensa a un percorso, una strada tracciata sulla mappa con una spessa riga rossa che si chiama Loreto, Lima, Porta Venezia, Palestro, San Babila. È così semplice vista da questa prospettiva, così piatta. Bisogna solo accettare di ridurre tutto a una spessa linea rossa, a dei nomi passati alla storia e dei nomi persi per sempre. Si fa un grande affare se si rinuncia.

Isaia Bacher sfila dalla tasca il taccuino con dentro i suoi sforzi. Lo appoggia su una panchina di via Costa, lo guarda, la copertina ruvida, le pagine spiegazzate, lo stesso di sempre. Esita un momento, poi torna a gettarsi nel flusso anonimo di corso Buenos Aires, nelle insegne colorate, nei riquadri delle stazioni della metropolitana, cammina tra le persone stanche e le persone sole e le persone senza volto e senza ricordi, tutti quelli che non hanno regole da seguire e di cui il mondo non tiene conto, tutti quelli dimenticati e quelli che hanno già smesso di esistere perché non c’è più un nome con cui chiamarli.

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