Lo sguardo avanti – Il richiamo del “bufis”

«Ho visto amici così disillusi da abbandonare i libri per imbracciare le armi e padri di famiglia rischiare la pelle per mantenere i propri cari, ed è in un contesto del genere che molti ragazzi hanno cominciato a crescere con un’idea in testa, una sorta di richiamo che ti prende e non se ne va più dai tuoi pensieri. Erano ossessionati dal bufis: il viaggio. E non parlo di un viaggio di piacere. È difficile da spiegare, ma vivendo in un mondo di guerra a un certo punto, improvvisa, senti nascere l’idea della fuga verso un altro Paese.»

Sono nata in una cittadina dell’entroterra siciliano e ci sono rimasta fino ai diciotto anni. È una città in cui si vive discretamente ma da cui sono voluta fuggire per diversi motivi che non starò qui a spiegare. Di fronte casa di mia madre – non so neanche perché non scriva “casa mia” – c’è uno spazio abbandonato, un ex mercato ortofrutticolo che è stato sequestrato. Quand’ero piccola dentro casermoni abbandonati ci stavano alcuni cavalli e nelle belle giornate i vecchi ci andavano a giocare a bocce. Ogni domenica è pieno di auto, le persone che vanno alla messa domenicale posteggiano lì. Negli anni in cui mi sono trasferita altrove nella mia città natale, nella zona del campo sportivo, è stato aperto un centro di accoglienza che non è stato proprio accettato all’unanimità. Questa cosa mi fa sorridere amaramente perché se siamo fatti di radici e origini allora bisognerebbe ricordare più spesso che la mia città, secondo le fonti, fu fondata nel X secolo durante il periodo islamico in Sicilia e il suo nome è arabo.

In ogni caso in estate quello spiazzale di cui sopra – quando fuori ci sono temperature elevate e noi stiamo in casa con condizionatori e ventilatori accesi – si popola di giovani migranti che vanno lì a giocare. Si sono ingegnati: hanno costruito una rete per fare sport perché lo sport unisce molto più di quanto si creda (ne scriveva Adriano giusto ieri). Quando vedo questi giovani che si fanno un paio di chilometri a piedi, sotto il sole cocente delle tre di pomeriggio, mi interrogo sulle loro storie: perché siete partiti? Come siete riusciti ad arrivare? Com’è stato il vostro viaggio? A volte mentre li guardo gli occhi mi lacrimano perché sono sicura che dietro le loro scelte ci sia tanta sofferenza, ma anche tanto coraggio.

Lo sguardo avanti di Abdullahi Ahmed, pubblicato da add editore, è un testo prezioso. Ogni scuola dovrebbe averne una o più copie in biblioteca, o addirittura sarebbe più ottimale averne una copia in ogni classe. Non è soltanto la storia dell’autore, ma anche un importante strumento didattico perché alla fine è corredato da un’appendice in cui ci sono parole e numeri: un glossario per usare i termini giusti e anche una sitografia, utilissima se si vogliono svolgere delle ricerche e confrontare i dati (che, diciamolo chiaramente, sono spesso gonfiati dai servizi in televisione). Per esempio, sapevate che il numero di musulmani in Italia si aggira intorno ai due milioni (ovvero circa il 3% dei 60 milioni di italiani?). Secondo un sondaggio fatto qualche anno fa da ipsos la media degli intervistati ha risposto che, a loro avviso, i musulmani rappresentavano il 20% della popolazione italiana.

Abdullahi, classe 1988, nasce in Somalia ed è da lì che a diciannove anni decide di partire, affrontare un viaggio lungo sette mesi, settemila chilometri, percorsi in autobus, macchina, camion, a piedi, in barca e in aereo. Cinque nazioni attraversate: Somalia, Etiopia, Sudan, Libia, Italia. Parte perché dentro di lui si accende qualcosa, desidera allontanarsi dalla guerra, dal suo Paese devastato, dagli orrori, dagli attentati. Il viaggio – anzi il bufis, parola somala che significa “desiderio di partire” – viene narrato da Abdullahi con attenzione e dovizia di particolari. Il racconto è sincero, corale, le parole trasudano la paura, ma anche la speranza.

Abdullahi arriva in Italia, precisamente a Lampedusa, nel 2008. Viene trasferito con altri a Torino ed è lì che comincia un altro capitolo della sua vita. È solo un ragazzo, eppure quante cose ha già vissuto. Crede molto nella comunità, nell’interazione con le persone, è aiutato e questo lo spinge a fare una delle cose più belle e solidali che possano mai esistere: aiutare gli altri, di rimando, un gesto istintivo e nobile. Abdullahi impara l’italiano, comincia a lavorare come mediatore culturale e nel frattempo fa volontariato. Gira per le scuole, parla con moltissimi adolescenti e fa da interprete per le persone appena arrivate in Italia. Nel 2016 diventa cittadino italiano e alla domanda “Perché hai scelto l’Italia?” risponde: «Potrei rispondere in due modi. Dire che non sono stato io a scegliere o affermare che, in qualche modo, ci siamo scelti a vicenda. Questa è la risposta che preferisco». Tra le cose di cui va più fiero c’è sicuramente il Festival dell’Europa e del Mediterraneo che si tiene a Ventotene e l’associazione GenerAzione Ponte con la quale fa dialogare i ragazzi somali con quelli italiani perché lo scambio di punti di vista ed esperienze è quello che ci arricchisce maggiormente.

E la Somalia? Abdullahi doveva tornarci il primo marzo del 2020 e non soltanto per rivedere la sua famiglia. Uno degli scopi del viaggio di ritorno, infatti, era distribuire a Mogadiscio delle borse di studio ai ragazzi somali.

«In Somalia lo Stato è così distrutto dalla guerra civile che neppure riesce a garantire l’istruzione a tutti i cittadini e sono le fondazioni private che permettono ai ragazzi di andare a scuole nelle strutture che gestiscono. La Zamzam Foundation è una di queste. La retta mensile per ogni studente si aggira attorno ai 12-15 euro per le scuole medie, cifra che arriva a 17 per le superiori, una manciata di euro che da questa parte del mondo sembra poca cosa, ma che rende impossibile per molti genitori somali garantire ai figli un’istruzione di base.»

A causa della pandemia globale Abdullahi non ha potuto fare ritorno in Somalia (e speriamo possa andarci presto), ma ha approfittato di questi mesi per scrivere Lo sguardo avanti, svolgendo – secondo me – uno dei doveri più importanti: “partecipare al percorso di crescita della società”. E sono certa che questo libriccino, ribadisco, prezioso faccia da ponte e trasmetta a tuttə il vero significato di comunità.

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