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Il contrario della solitudine: un femminismo in comune

Per vivere più femministə: libri, podcast, arte, musica, newsletter e fonti per allargare gli orizzonti e aprire le menti. Oggi parliamo de Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune di Marcia Tiburi, edito in Italia da effequ.

La cosa che più mi ha colpito, addentrandomi sempre di più nella lettura di queste pagine, è come sia matter-of-fact: concreto, pratico, diretto. Tante delle cose che ho trovato in questo libro già le avevo sentite dentro di me, pensate e ragionate, ma trovarle scritte nero su bianco ha acceso una parte diversa del mio cervello, quella dell’apprendimento. Sto parlando di cose apparentemente palesi, come «l’identità è storica e non naturale» (97) oppure l’indipendenza economica non equivale alla libertà. Eppure trovarle argomentate con precisione e interconnesse logicamente è stata una piccola rivelazione che mi ha motivata ancora di più nell’aprire gli occhi e imparare.

Una cosa simile mi è successa qualche settimana fa: nell’ultimo anno ho deciso di aumentare la mia consapevolezza come persona che acquista e indossa abbigliamento, intimo e scarpe. Inizialmente l’ho fatto per una questione ecologica ed economica, ma qualche settimana fa, senza cercarlo con intenzione, su Instagram ho letto qualcosa che ha cambiato di nuovo la mia prospettiva: come puoi dirti femminista se indossi abiti che sono prodotti in condizioni che non tutelano i lavoratori, che nel caso del tessile sono per lo più donne e bambini, anzi sono pensate per sfruttarli apertamente? Mi sono vergognata di non averci pensato un anno fa, quando ho iniziato a ragionare sulla questione da un punto di vista puramente ambientale. Ero cosciente dello stato di sfruttamento di chi lavora, eppure lo riconducevo a un problema del Paese in cui queste persone lavorano, di assenza di tutela dei loro diritti. Riduciamo però la questione all’osso: da dovunque lo si guardi, è invece puro sfruttamento da parte di chi detiene il potere verso chi non ne ha, e da sempre è in posizione subordinata. Donne e bambini, appunto. Non si tratta quindi più solo di una questione di sostenibilità, ma anche di giustizia – e, in definitiva, di femminismo.

Marcia Tiburi non ha paura di prendere la questione da tutti i lati: la parola, l’azione, le antenate, il lavoro, l’oppressione e persino l’ambiente. In 17 capitoli tematici, Marcia affronta il femminismo e i suoi detrattori, la condizione della donna e le trappole culturali in cui cadiamo, il futuro e il passato intrecciati. E noi impariamo con lei e da lei, pagina dopo pagina.

Se de Beauvoir ha ragione e nessunə nasce donna ma lo diventa, è altrettanto possibile dire che nessunə nasce femminista ma lo diventa.

Marcia Tiburi, 98

Femminismo e Capitalismo

Ho scelto una e di congiunzione, al posto di una disgiuntiva, perché la vedo anche come giustapposizione: non esiste il femminismo senza il capitalismo, perché il femminismo «non è un’ideologia come i suoi detrattori misogini vorrebbero far crede. Il femminismo è una lettura che mette in discussione ciò che esiste – ciò che è dato – per poterlo analizzare» (82).

È nell’ottica capitalista, che è un’ottica di potere economico e politico basato sul lavoro, che dobbiamo pensare il femminismo, perché «non possiamo dimenticare che viviamo in un determinato momento storico e le nostre azioni appartengono a questo tempo» (98). Ed è qui che Marcia Tiburi porta alla nostra attenzione che, se la società capitalista si basa sul lavoro, non possiamo pensare al femminismo senza pensare al lavoro. E, ancora, invece di ritenere che le donne siano svantaggiate nell’assetto sociale, politico ed economico attuale, Marcia ci suggerisce un ribaltamento di prospettiva: è il lavoro a essere «un vero problema di genere» (27).

«Ci troviamo di fronte a una divisione del lavoro basato sull’idea di una differenza sessuale» (28), che rispecchia il sistema patriarcale in tutta la sua forza, lo certifica e lo perpetua. È quindi anche dal lavoro e dalla nostra posizione e funzione di lavoratrici che dobbiamo partire, considerarci e ribellarci.

Sempre di più emerge la celebrazione, tutta femminile, dei successi economici: my own boss, boss lady, entrepeneur, donna in carriera sono termini che circondano queste figure di donne che ce l’hanno fatta. Ma a fare cosa, essenzialmente? A duplicare, e quindi uniformarsi a, l’ideale del maschio etero bianco di successo, che viene promulgato dagli stessi maschi bianchi etero che ci stanno a guardare dall’altro lato. E questo è un punto che fa male, a noi donne a cui è stato permesso di studiare per crearci un futuro migliore, dove per futuro si deve leggere e intendere lavoro: «molte donne si illudono di essere libere perché hanno raggiunto l’indipendenza economica» (75). Non siamo più liberə perché ci possiamo pagare le bollette e abbiamo, a fine mese, duecento euro in più “da parte”: per farlo, abbiamo bisogno di lavorare molto più di otto ore al giorno, e se il lavoro in una società capitalista equivale a un’oppressione sistematica, non siamo più liberə di prima o di quanto credessimo.

Per prosperare, il capitalismo si basa sullo sfruttamento: storicamente, le donne sono dalla parte delle vittime. Per rompere questo circolo vizioso, è necessario iniziare a pensare in ottica femminista.

Il femminismo è un’eticopolitica, ed è un’etico-politica che punta a destabilizzare uno stato di cose caratterizzato dall’ingiustizia.

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Marcia Tiburi (a sx: dal suo account Flickr | a dx: da DCM)

Femminismo e Potere

«Il femminismo è qui per aiutare le persone a interrogarsi sui giochi di potere legati alle proprie vite» (38). Attenzione, perché Marcia non parla solo di donne: parla di persone. Tutte quelle che non sono il maschio bianco etero, cioè la norma: tutti gli altri sono, appunto, gli altri. Emarginatə, abbandonatə, dimenticatiə, inutilə (se è vero, come lo è, che la società si basa sull’utile, cioè sul capitale): il femminismo è molto più inclusivo di quello che i detrattori vorrebbero farci credere, perché il potere è esclusivo per sua natura.

Proprio come Chimamanda Ngozi Adichie ci spiegava perché possiamo (e dobbiamo) essere tuttə femministə, anche Marcia Tiburi ci spiega, capitolo dopo capitolo, tema dopo tema, come il femminismo comune sia la soluzione a un sistema basato sull’ingiustizia perenne, in quanto quest’ingiustizia colpisce discriminatamente tuttə colore che non sono la norma.

E il potere, da sempre, si esercita con la violenza: fisica, psicologica, sociale. Il femminismo, quindi, è tutt’altro che violento: è la lotta alla normalizzazione della violenza.

Possiamo suggerire ai maschilisti che se ne stiano ad aspettare seduti sui loro troni di privilegi. Non perdono niente ad aspettare. Alle donne suggeriamo che non facciano lo stesso.

Marcia Tiburi, 120

Il libro: Marcia Tiburi, Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, effequ 2020
Un’intervista da leggere: Márcia Tiburi, la creazione di alleanze è l’antidoto contro violenza e oppressione, su Il manifesto

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