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Verso “L’isola di Caronte” con Alessandro Buttitta

Andrea Mangiapane ha trent’anni, due lauree e zero lavoro. Per fortuna, però, la sua famiglia ha abbastanza contatti da potergli trovare un’occupazione rapidamente pur di tenerlo in Italia e impedire al suo cervello di fuggire all’estero: è così che il nostro protagonista finisce catturato dal mondo di Vita Natural Durante, l’agenzia di pompe funebri in via Pindemonte, a Palermo, di proprietà del signor Antonio Durante, presso cui lavora anche la nipote Beatrice.

Ci troviamo così in viaggio verso L’isola di Caronte, il romanzo di esordio di Alessandro Buttitta (Laurana Editore): l’isola è Ustica, al largo di Palermo, dove l’equipe è diretta per prendersi cura di una recente dipartita, quella di Giuseppe Vella. Andrea viene affiancato da necrofori più esperti, Giacomo Castiglia, Nino e Salvo, perché il nostro protagonista «di morti si è occupato solamente nei libri» (p. 10): la sua tesi magistrale, infatti, era intitolata La mappatura letteraria dei cimiteri di Palermo.

I preparativi per il funerale, però, vengono continuamente ostacolati e rimandati: a quanto pare, la morte del Vella non può essere attribuita con chiarezza né a una caduta accidentale, né a un suicidio, né a un omicidio. Era, infatti, un giornalista impegnato nella denuncia della mafia: meglio non escludere l’intervento di un mandante. Ad alimentare questo sospetto sono l’avvenente vedova e l’editore di Vella, Airoldi, che a poche ore dalla scomparsa ha già diramato ovunque un comunicato stampa che pone il Vella nell’Olimpo degli eroi antimafia.

Al telefono la donna ricostruì le ultime ore del marito: dispensò dettagli (“L’ho trovato in acqua, senza vita, appena tornata a casa dopo aver fatto la spesa. Sarò mancata tre quarti d’ora, al massimo”), sconsolate considerazioni (“È un omicidio. Lo hanno ammazzato per quello che scriveva”), inevitabili suggestioni (“Chi poteva volerlo morto se non la mafia?”) e un’imprecisata quantità di malizia (“I carabinieri stanno indagando, ma non mi sembrano all’altezza. Spero di sbagliarmi”).

L’isola di Caronte, p. 35

Ma Andrea sembra portato per la lettura degli indizi: è così che L’isola di Caronte si trasforma in un giallo. Pensando e osservando, inizia a mettere assieme pezzi che non sempre sembrano fatti per stare vicini, che mantengono una forma incerta pagina dopo pagina, che apparentemente si escludono tra loro.

Tra cimici fissate sotto la bara e capogiri nei cimiteri, tra abiti da cerimonia e cognate astiose, tra appuntati confusi e preti che arrivano in anticipo, comincia a delinearsi una traccia che Andrea segue con sguardo attento. Ma è proprio Airoldi a fornirgli l’assist decisivo: davanti al maresciallo, ai congiunti e ai becchini, cita Il consiglio d’Egitto di Sciascia come un libro particolarmente caro a lui e all’amico Vella.

Inizia a profilarsi l’unica risposta possibile alle indagini a vuoto, ai rumori usticesi e alla fretta dei cari, che lascia aleggiare comunque degli interrogativi. Quello che scopriamo con sicurezza, verso il finale del libro, è che per non soffrire di mal di mare bisogna sedersi nella parte centrale del catamarano e che Andrea dovrà andare alle dieci e trenta del giorno dopo per firmare un contratto ufficiale con l’agenzia Vita Natural Durante.

Andrea è, etimologicamente, un uomo, un po’ come il viaggio di Dante doveva essere universale («nostra vita»): mentre si trova a rivestire i panni di un Caronte, che promette un viaggio di sola andata, quest’uomo deve imparare a diventare invisibile ma indispensabile, deve acquisire i gesti per comporre e omaggiare altri uomini e altre donne e chiunque sia morto, farlo non per sé ma per gli altri, per chi rimane. Allo stesso tempo, però, deve essere gli occhi e la mente che tengono i fili, quelli che fanno esperienza per noi e ci mostrano una lettura possibile della realtà, anche dove noi non riusciamo a vederla.

Conta più come si vive o conta più come si muore? Si può riscattare un’esistenza anonima? I nostri peccati in pensieri, parole, opere e omissioni meritano realmente di essere giudicati?

L’isola di Caronte, p. 142

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