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Le storie del negozio di bambole di Yasumi Tsuhara

Nell’esordio italiano di Yasumi Tsuhara, le bambole del titolo sono più principesse comprimarie che vere protagoniste della narrazione: Le storie del negozio di bambole (Lindau, 2020) è uno studio sugli esseri umani che le creano, commerciano o acquistano; si interrogano sulla loro ambigua natura; le distruggono o se ne prendono affettuosa cura nel corso delle sue oltre duecento pagine.
Non è un caso che la copertina dell’edizione originale, al posto di figurette e pupazzi, metta in poetica mostra i tre umanissimi personaggi principali, i veri protagonisti delle sei storie che compongono l’opera: Mio, proprietaria del negozio Tamasaka più per caso che per vocazione; il rampollo di buona famiglia Tominaga-kun, giovane genio viziato; e il maturo Shimura, espertissimo artigiano, premuroso quanto elusivo.

Un romanzo di natura episodica, una collana di racconti legati dal filo rosso del narrato: a unire personaggi umani e bambole è l’intreccio di sentimenti, ossessioni e aspettative che i primi proiettano sulle creazioni antropocentriche per eccellenza – ben più che più che semplici oggetti, insieme uovo e specchio.

Le bambole sono i primi giocattoli di cui si ha notizia: tra le più antiche figurine umanoidi, le paddle – dalla funzione ancora incerta – ritrovate in tombe egizie del ventunesimo secolo a.C.

Le bambole sono vere istituzioni del Sol Levante: le preistoriche, fittili doğu; i funerari haniwa; le regali hina, con la coppia imperiale e i membri della corte del periodo Heian; le semplici hitogata di carta, per combattere il male; le intagliate nara; le lignee kokeshi; le ichimatsu, col viso di un noto attore kabuki del periodo Edo; i paffuti, bianchissimi bambini gosho; le tonde daruma, modellate sul monaco Bodhidharma; le hakata dalla pelle luminosa, che rappresentano l’ideale di bellezza tradizionale con i tratti minuti e l’incarnato perfetto – come quella che illumina la copertina dell’edizione italiana. E poi le bambole moderne, dalle BJD alle dutch wife.

Presenti o meno tra le pagine del romanzo-raccolta, sono tutte quante, in ogni caso, ningyō, termine che abbraccia il significato più ampio dell’oggetto-bambola: figure umanoidi di diversi materiali e fatture, non necessariamente giochi né unicamente destinate ai bambini. La loro natura ambigua e multiforme è già suggerita dall’etimologia del nome, unione di 人 (hito, cioè “persona”) e 形 (kata, “forma”): letteralmente, “dalla forma di essere umano”.

Come nella realtà non sempre è facile, se non possibile, tracciare una linea netta tra giocattolo per l’infanzia, testimonianza dell’evoluzione sociale, feticcio e artefatto artistico, così nell’opera di Tsuhara le bambole sono creature di confine. Intermediarie tra il mondo fisico e quello psichico. Tant’è che ci si interroga spesso sulla loro verità profonda.

Le bambole che cosa sono?
È una domanda che non mi tolgo dalla testa. Però, non ero cosciente di esprimere questo mio dubbio ad alta voce.

Mio, Gabu

Inevitabilmente, riflettendo su oggetti a “forma di persone” nascono spontanei interrogativi che riguardano la nostra stessa natura, di esseri umani. Ogni storia è una piccola crescita, un indizio sottile quanto un capello che, comunque, riesce a solleticare la voglia di scoperta.

C’è Mio, che ha ereditato l’attività dal nonno senza essere un’artigiana e non è in grado di comprendere appieno sentimenti e pensieri dei suoi sottoposti; una trentenne che ha perso il lavoro e senza una propria famiglia, quasi smarrita in un Paese ancora profondamente maschilista: il futuro non promette di essere particolarmente generoso con lei.

Tre anni fa c’è stata una ristrutturazione del personale nell’agenzia pubblicitaria in cui ero impiegata e sono stata licenziata. Me ne stavo rintanata nel mio piccolo appartamento di cucina-sala da pranzo e due stanze, ancora frastornata, quando sono stata convocata da mio nonno, che era stato ricoverato in ospedale. Mi ha consegnato un plico di documenti che riguardavano la donazione in vita del negozio e della sua casa. Ho preso i documenti senza pensarci troppo.

Mio, La bambola rotta

Alle sue dipendenze, l’eccellente Shimura: un uomo di mezz’età che si nasconde persino dalle persone con cui lavora e trascorre la maggior parte del tempo; al riparo oltre le vetrine del Tamasaka, chiuso nella «stanza dei sei tatami», rifiuta a sé stesso e a collezionisti ed estimatori di bambole il proprio, incredibile talento.

Shimura ha risposto che si sarebbe informato consultando un suo vecchio conoscente. Non ci ha detto chi. Rispettoso com’è nei confronti di chiunque, tanto che a volte io e Tominaga finiamo per arrabbiarci, non spiccica una sola parola quando gli si domanda qualcosa della sua vita privata. Controbatte con molta serietà che il fatto di non dirci nulla non è d’impedimento al lavoro che svolge. A ben pensarci, noi due non sappiamo neppure se abbia una famiglia oppure sia single.

Mio, La bambola rotta

Tominaga-kun è in principio una personalità acerba, non rifinita: nonostante sia baciato da una «grande fortuna» – «non ha bisogno di guadagnarsi il pane quotidiano» come i comuni esseri umani – e un portento «nelle arti manuali e nell’artigianato», è una creatura inquieta e sregolata, spesso spigolosa, «una specie di vagabondo». Di incontro in incontro, saranno gli avventori del negozio a modellare la sua umanità: lentamente, da un ragazzo di legno diventa un essere empatico e desideroso di essere parte di una famiglia, per quanto priva di legami biologici.

Tominaga è davvero unico. È estremamente intelligente e tranquillo, ma a volte dimostra una crudeltà infantile che lo fa sembrare incapace di sentimenti.

Mio, L’amore è l’amore

Ci sono anche le storie di chi entra al Tamasaka. E quelle delle persone che, pur al di fuori dai suoi confini, incrociano Mio, Shimura e Tominaga. Ogni contatto è uno – o l’insieme – dei colori dell’ampio spettro dei sentimenti, che conferiscono a ogni capitolo-racconto una sfumatura propria. A volte quasi di genere.

La bambola rotta, la prima e più misteriosa tra tutte le storie, ha echi cupissimi, orrorifici: varcata la soglia del Tamasaka sembra quasi di aver messo piede nella serie Pet Shop of Horrors – manga breve di Matsuri Akino, dalla medesima struttura episodica – con Mio e i suoi aiutanti coinvolti in due oscuri casi. Prima l’enigma della perfetta e incomprensibile somiglianza, quasi soprannaturale, tra una donna e la sua bellissima bambola, entrambe di età indefinibile. Poi quello inquietante di un orsacchiotto continuamente mutilato dal suo piccolo proprietario che, tuttavia, non sembra capace di addormentarsi senza di lui.

Al principio non ho percepito la differenza d’età. Usavamo le parole della stessa generazione. Parlando con lei non sentivo nessun gap tra di noi. Il suo viso era bellissimo. Come quello di una bambola. Una tale similitudine per chi fa il mio lavoro può sembrare scontata. Eppure, nell’istante in cui è entrata in negozio ho avuto la sensazione che una specie di alcol denso e gelido mi risalisse lungo la schiena.

Mio, La bambola rotta

In realtà il dolore, la crudeltà e le debolezze dei personaggi di questi racconti appartengono al reame del quotidiano: l’opera di Tsuhara è uno slice of life che non necessita dell’elemento fantastico per disorientare, turbare o impressionare. Del resto, il topos della bambola malvagia nell’immaginario giapponese è decisamente poco comune rispetto a quello occidentale.

Il secondo racconto, L’amore è l’amore, ha carattere josei: Reimi, un’avvenente ragazza di gomma siliconica, attrae gli sguardi e le attenzioni degli uomini ma provoca del disagio in Mio, gelosa delle cure che Tominaga riserva alla love doll. Probabilmente è lo scritto più sentito dell’intero volume, per le forti tematiche e l’atmosfera dolceamara, con scene che potrebbero ritrovarsi nel clampiano seinen Chobits; è anche una delle storie in cui sono affrontate, in maniera maggiormente controversa, similitudini e differenze tra noi – gli esseri umani – e loro – le bambole –, indagati i rapporti che ci legano.

Insieme abbiamo accompagnato fuori Reimi. Una volta rientrati in negozio, abbiamo trovato Shimura seduto sulla panchina, vicino a dove si trovava fino a poco prima la love doll.

«L’atmosfera qui dentro si è fatta malinconica, vero?».
Ha dato voce ai nostri stessi sentimenti.
Siamo tornati alla nostra silenziosa quotidianità. Silenziosa… È strano che noi esseri umani la percepiamo in questa maniera. Reimi non ha mai parlato, che fosse rumorosa era soltanto un’impressione nella nostra testa.

Mio, L’amore è l’amore
La sempre più diffusa preferenza dei giapponesi per compagne inanimate è un preoccupante sintomo del grave stato di salute sociale di un Paese diviso da solitudine e profonde disuguaglianze di genere.

La terza storia attinge al genere giallo: diretta a Murakami per ammirare alcune preziose bambole, Mio si fa quasi una novella detective Conan quando un’improvvisa morte getta ombre sospette sui cari del defunto.

L’ultimo spettacolo ha, piuttosto, le sfumature fantastiche di una strana fiaba della buonanotte. E nel racconto Gabu si sfiora il complotto internazionale, quasi un thriller. Il libro si chiude con il ritorno al più autentico slice of life, un vero “spaccato di vita” che mantiene lo spirito tradizionale del finale aperto.

Le storie del negozio di bambole è anche un documento su un più puro stile di vita giapponese: benché il Paese abbia ormai adottato una buona dose di cultura straniera, Tsuhara ne trascura gli aspetti più occidentalizzati e con orgoglio decisamente patriottico si concentra sulle manifestazioni più intime del Sol Levante.

L’opera è davvero un viaggio che il lettore gaijin – lo straniero: insieme di 外 “di fuori”, 人 “persona” – compie attraverso le pagine, apprendendo storia dopo storia usi e costumi di un mondo distante dal proprio non solo geograficamente parlando; un mondo pieno di forti e persino violente contraddizioni, ma che a volte gli sembra davvero quello incantato dei balocchi. In questo senso il piccolo glossario in chiusura è un’utile mappa, indispensabile al pari delle numerose note che aiutano a orientarsi tra storia e curiosità varie.

Un libro sicuramente interessante per i nippofili, anche se un po’ appesantito dalla mole di informazioni e dettagli sulle grandi coprotagoniste dell’opera. Bellissime e impenetrabili, le bambole sembrano originarie di un’altra dimensione e faranno la gioia degli appassionati. A chi soffre di pediofobia potrebbero piuttosto sorridere loro con una piega sinistra, mostrando i dentini scintillanti come perle dietro le boccucce affamate.

Ornella Soncini

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