Racconti scritti in punta di nervi. Intervista a Gianluca Cincinelli

Se qualcuno, puntandomi una pistola alla tempia, mi chiedesse di riassumere in due frasi l’intero movimento comico che va da Alessandro Gori a Valerio Lundini, passando per Maccio Capatonda e Rocco Tanica, non disdegnando Aldo Nove e Etgar Keret, citerei probabilmente – in mancanza di un nome ufficiale di questa corrente umoristica; che prima o poi, io credo, andrà trovato – l’epigrafe de La variante Manfredonia di Gianluca Cincinelli, edito da Visiogeist:

Sotto la panca, sopra un gelato / muore un biscotto col cioccolato. / Forse si scioglie, forse rimane / forse lo mangia una coppia di rane.

La citazione è tratta da un’oscura canzone di dieci minuti, Panca Bestia, dell’oscuro cantante indie Babalot (che si autodefinisce l’identità segreta di batman).

Ora. Tutto ciò fa ridere? Discutibile, almeno per il concetto condiviso e nazionalpopolare di risata. Ma far ridere è forse lo scopo ultimo degli artisti nominati all’inizio? Altrettanto discutibile.

Per loro contano di più lo straniamento, il nonsense, lo stupore, il ribaltamento, la risata come mezzo più che come fine. Odiano i tormentoni, le ovvietà, i luoghi comuni. Sono inadeguati, talvolta volutamente cringe, fuori luogo e fuori dal mondo.

È da poco nata una collana editoriale, della casa editrice astigiana Visiogeist, che si ripromette si tracciare una linea precisa, di sondare questo territorio quasi sperimentale della comicità contemporanea. Visiogeist è una casa editrice che unisce parole, immagini e infografiche. Meme, sociologia e tutto ciò che vi è collegato. Fatevi un giro tra le loro pubblicazioni e vi sarà tutto più chiaro. La collana in questione si chiama Lo Sgargabonzi presenta, ed è appunto curata da Alessandro Gori, noto sul web come Lo Sgargabonzi grazie alla sua inenarrabile pagina Facebook, che si occupa dello scouting – perlopiù di autori esordienti, o quasi. Il primo volume edito è stato Rammaricandoci per la bellezza della sposa di Niccolò Re; una raccolta di racconti, citando la prefazione, divertenti, crudeli, morbosi e unticci.

Il secondo libro è questo stranissimo La variante Manfredonia di Gianluca Cincinelli, ex compagno di liceo di Alessandro Gori e suo storico collaboratore, che attraversa il mondo con lo stesso straripante entusiasmo di Francesco Bianconi. La dedica che mi ha scritto al Salone del Libro di Torino 2021 sul suo volume è:

“Salvami!

Gianluca Cincinelli”.

La variante Manfredonia raccoglie una serie di racconti autobiografici e sopra le righe, che vanno dal rifacimento di una Vespa a una mattinata al bar in cui Cincinelli viene quasi adottato da una famiglia di passaggio, racconto in cui si afferma che anche Michelle Hunziker la domenica mattina è piena di malinconia.

Impossibile dire quanto ci sia di vero in queste storie, e quanto d’inventato. O se davvero esista e abbia senso una differenziazione dei due aspetti.

Per capirci qualcosa di più, ho direttamente intervistato Gianluca Cincinelli.

Ciao Gianluca. La prima domanda che ti faccio è una di quelle domande che si fanno sempre a chi scrive qualcosa di comico – anche se nel tuo caso, come in quello di Alessandro Gori, questa parola ha un significato molto particolare. Per questo vorrei sapere: che cosa ti fa davvero ridere, nella vita? E che cosa, invece, proprio non ti fa ridere (e, magari, agli altri sì)?

Non saprei farne un elenco. Mi piace quando mi trovo di fronte ad una comicità strutturata che non riesco a risolvere sul momento, e piuttosto immagino che ci sia dietro dell’altro. Il quanto mi fa ridere non è mai stato il mio il metro di misura principale, anche se arrivare alla risata sicuramente mi piace. L’importante è che sia inserita in un contesto che la valorizzi. Immagino un autore che spicca rispetto alla gag, che potrebbe permettersi di sostituirla con un’altra e otterrebbe lo stesso risultato comico.
Un esempio che mi viene in mente è Felice Caccamo (Teo Teocoli), inviato di Mai dire Gol, che era capace di non fare una battuta per tutto il tempo del collegamento, eppure era un personaggio puramente comico. Ti divertiva dall’inizio alla fine e non sapevi bene perché. Era molto percepibile, quasi reale. Se fossi andato a Napoli come minimo mi sarei aspettato di incontrarlo.

Non mi piacciono i tormentoni.

È stato diverso lavorare a questo libro, rispetto ai precedenti volumi (Bolbo e Il problema purtroppo del precariato, Fuorionda) scritti invece a quattro mani con Alessandro Gori?

Abbastanza, sono passato dal lavorare su blocchi di testo, a dover avere una visione d’insieme, tanto del singolo racconto, quanto del libro. Trovare un equilibrio al tutto, rendere omogenea la scrittura, ma eterogenea l’opera nel complesso. È stato ogni volta un calarmi nel racconto per scriverlo, poi tirarmene fuori per vedere che effetto faceva dall’esterno.
Questo sguardo da regista però non è mai stata una mia attitudine, al punto che nei precedenti libri pubblicati con Alessandro Gori ho lasciato che se ne occupasse più che altro lui, mentre io, disteso nel letto, ogni tanto buttavo là qualche suggerimento giusto per dargli l’idea che mi stessi impegnando.
Inizialmente quindi ho faticato a calarmi nella parte, poi man mano che il libro ha preso forma, è cresciuta la confidenza. Plasmarlo per intero, curare ogni dettaglio, mi ha portato a camminare su sentieri meno battuti ed è stato molto stimolante.

Quando sono nati i racconti di La variante Manfredonia? In generale, come e perché ti sei avvicinato alla scrittura?

Alcuni sono nati anni fa, era materiale d’archivio che ha avuto bisogno di un adattamento, a volte di una revisione profonda, per essere in linea con il linguaggio de La variante Manfredonia. La maggior parte, invece, sono stati scritti recentemente, nell’ottica della pubblicazione del libro con Visiogeist.
Ho iniziato a scrivere perché è il giusto mix, per le mie caratteristiche, fra creatività e razionalità. Spesso convivono, a volte cozzano uno contro l’altra e mi piace doverli gestire. Mi permette di esagerare e poi tornare sopra a quello che ho scritto e limarlo fin che non giunge al suo massimo potenziale. La musica ad esempio, mia arte preferita, richiede un’astrazione e una capacità di sintesi che io non ho.
Alla scrittura mi sono avvicinato al liceo. In realtà sono partito con dei fumetti mono pagina, disegnati male perché non so disegnare. Sfruttando l’orrore di quegli sgorbi come fattore comico e aggiungendo cattiveria come se non ci fosse domani. Roba che non so se avrei il cuore di fare adesso. Qualche anno dopo, sul blog de Lo Sgargabonzi, scrissi con Alessandro Gori i primi racconti, più qualche sortita in solitaria. Siamo negli anni ‘00.

Copertina de La variante Manfredonia
La variante Manfredonia

C’è un racconto del libro a cui ti senti più legato, che per qualche motivo consideri il tuo preferito?

Potrei sceglierne tre: Attenti al pane!, Il Trionfo della Normalità ed Il bidello Ficcadenti. Messi insieme sono una buona sintesi dello stile de La variante Manfredonia e del mondo del suo protagonista. Preferisco però immaginare che ognuno che leggerà questo libro possa avere un suo racconto preferito, in base alle proprie corde.

Ma poi: tu ti ritieni effettivamente un autore comico? O soltanto un autore?

Alla fine, dei tre libri che ho scritto, due dei quali appunto con Alessandro Gori, solamente Il Problema purtroppo del Precariato è quello più schiettamente comico, ed anche lì c’è prima di tutto un protagonista che sovrasta la scena. Bolbo invece è un’Iliade moderna e surreale dove la comicità è per lo più sottesa e la fantasia è padrona.
Ne La variante Manfredonia mi sono quasi forzato a lavorare per sottrazione, rinunciando, anche con fatica, ad uscite comiche dalle quali ero sicuramente tentato, ma che rileggendo il pezzo, invece di aggiungere qualcosa, mi distraevano.
Quello che ho capito è che non mi piace che il fine ultimo del racconto sia la risata. Preferisco una scrittura dove la gag è sottomessa alla costruzione di un paradigma più intimo e personale, dove non è necessario fare la battuta per suscitare curiosità e interesse in chi legge. Mi piacerebbe che il lettore fosse stuzzicato anche da quello che non trova scritto nella pagina.
Credo che scrivere non sia una cosa banale, è una porta che l’autore apre su sé stesso perché gli altri ci spiino dentro, ma con i paletti imposti dall’autore stesso. Direi quindi che sono attratto da una narrazione comica, più che dalla comicità.

I tuoi racconti sono, o almeno sembrano, fortemente autobiografici, a volte fai anche nomi e cognomi (e soprannomi) di altre persone, a te vicine. Spesso parli della tua infanzia o adolescenza, e non ho potuto non notare una certa malinconia sotterranea per quei periodi della tua vita. Quanto c’è di vero in quello che scrivi?

Mi piace chiamare col loro nome i coprotagonisti dei racconti, spesso miei amici, perché mi aiuta a rievocare la situazione per come l’ho vissuta. D’altra parte sì, c’è abbastanza di vero in quello che racconto: parto spesso da episodi osservati o vissuti in prima persona che poi finiscono nel tritacarne di un’isteria, la mia, che è quella di chi non ha mai voluto trovare un posto dove sedersi in pantofole Epson taglia 42, omaggio con stampante HP Laserjet Fulmine 2000 quasi funzionante.

E quanto sei ancora legato agli eventi del tuo passato? Che rapporto hai con i tuoi ricordi?

Bisognerebbe aprire una parentesi per distinguere tra ‘legato’ e ‘incastrato’. Non so se sono legato al mio passato più di quanto tutti lo siamo, però ho un pessimo rapporto con i miei ricordi. Primo perché è come se gli mancasse sempre qualcosa, secondo perché sono troppo pochi.

Scusa per quella cosa sopra della stampante, mi ero un attimo innervosito.

Nel racconto Tecnico Atari scrivi: “In realtà fin da piccolo non ho mai voluto lavorare, né crescere, né raggiungere i 18 anni per poter finalmente guidare un trattore”. L’età adulta ti fa ancora paura, ora che sei costretto a viverla? Che cosa ti spaventa, soprattutto?

Fondamentalmente ho passato la vita a cercare di non lavorare, anche mentre firmavo un contratto di assunzione. In pratica attivavo un lavaggio del cervello, grazie al quale mi convincevo che proprio grazie a quella firma, mi stavo allontanando sempre più dal pericolo di trovare lavoro.
Ora, per tutta una serie di coincidenze, ci sono finito dentro, ma mi auguro finisca presto.
Secondo me se non ti fa paura l’età adulta devi farti controllare. Lo step successivo è la vecchiaia, poi di nuovo giovane, poi purtroppo la morte. Non è una bella prospettiva.

Cambiando argomento. Uno degli aspetti più originali e divertenti del libro, per me, è quello dei tuoi acrostici (che tu chiami “agronomi”). Per esempio, PULLMAN: Praticamente Una Lunga Lunghissima Macchina A Nafta; oppure CECI: Cadono E Ci Inciampi. Il migliore per me è quello di PADRE PIO, ma non voglio rovinarlo ai lettori. Quando hai iniziato a scriverli e come ti è venuta questa idea?

Gli agronomi ho iniziato a scriverli molti anni fa, forse anche prima che uscisse Bolbo nel 2014. È un tipo di composizione che mi mette a mio agio, un momento leggero e divertente, zona di decompressione rispetto ai racconti stessi, che invece sono scritti in punta di nervi.
Decompressione ma fino ad un certo punto, perché anche lì sono costretto a seguire delle regole ed un improvvisato senso logico. Si potrebbe dire che rappresentano l’altra faccia dell’isteria che è il filo conduttore del libro. CECI e PULLMAN, tra l’altro, sono anche nella mia top five. PADRE PIO non c’è, controlla meglio.

Chiudo con una mia curiosità. Devi sapere che io sono abruzzesamente cresciuta nella città d’origine di Corradino D’Ascanio, inventore della Vespa, e quindi non posso che ammirare la tua ossessione – nel racconto “La Vespa”, citato già nella prefazione del libro – per il restauro della 50 bianca: quattro mesi di lavoro, frequentazione ossessiva di forum di motori e spesa totale di più di 1000 euro. Una chiara metafora della vita di tutti noi. E, ancora una volta, il tentativo di far tornare in vita il passato, di fermarlo. Che fine ha fatto, oggi, quella Vespa?

Grazie per lo spunto così chiariamo questa cosa: non ho un’ossessione per la Vespa e non sono un fan della Vespa. Per esempio non me ne è mai fregato che fosse originale in tutte le sue parti, non ho mai posseduto un adesivo con scritto “I Love (emoticon del cuore) Vespa!”, e non capisco quelli che vanno ai raduni. Io immagino la giornata tipica da raduno come una sorta di incubo. È per colpa di gente così che poi mi vergogno di dire che ho la Vespa, ho paura di essere frainteso.
Il ciclomotore comunque è qua fuori, ha un colore ormai indefinito, chiazze di spray antiruggine a casaccio e la sella scotchata di giallo. Rigorosamente esposta ad acqua, polvere e sole. L’importante, e lei lo sa, è che vada in moto con un paio di calci, perché se mi girano ci metto poco a cambiarla con un Phantom Malaguti.

Valeria Lattanzio

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