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Il nostro campo di battaglia

Per vivere più femministə: libri, podcast, arte, musica, newsletter e fonti per allargare gli orizzonti e aprire le menti. Oggi andiamo alla scoperta del nostro Campo di battaglia. Le lotte dei corpi femminili di Carolina Capria (effequ, 2021).

Se Femmina non è una parolaccia, di cui Carolina è co-autrice, è un libro che si rivolge a chi è più piccolə, Campo di battaglia ci conduce attraverso tutte le età, e quindi le fasi, del corpo biologico della donna: dall’infanzia alla preadolescenza, dai vent’anni alla vecchiaia. No, meglio: dalla prebuscenza alla prima mestruazione, dalla fertilità alla menopausa. Perché è così che il corpo che cambia, queste sono le sue tappe e queste sono le sue funzioni. Anche sociali.

Una premessa doverosa, che anche Carolina Capria rimarca più volte durante il saggio: tutto si basa su un’esperienza personale che, se non è decisamente universale, è almeno locale. Si parla di un corpo femminile bianco e abile, privilegiato nella possibilità di esprimersi e muoversi attraverso lo spazio domestico e urbano. È un privilegio fittizio, però, perché concesso proprio da chi vuole limitare queste possibilità.

Campo di battaglia è diviso in 9 sezioni: Prologo – Corpo, Sangue, Rughe, Capelli, Cosce, Aspetto, Ossa, Utero, Epilogo Occhi orecchie mani. Una suddivisione che non è puramente anatomica o tematica, ma culturale e addirittura cognitiva: sembra che le donne siano state disabituate a intendersi come un intero, occupano il proprio tempo e le proprie energie facendo body monitoring – attività che le rende iper vigili, ma anche tremendamente esauste.

Secondo uno studio dell’Università del Sussex […] le donne sono maggiormente inclini a pensare al loro corpo come una costruzione di mattoncini tutti suscettibili di giudizi e migliorie, mentre gli uomini pensano al loro corpo come un’entità unica, non scomponibile.

Carolina Capria, Campo di battaglia, p. 101

Il sangue, le rughe, i capelli, le cosce, l’utero non solo solo parti del nostro corpo, sono anche quelle attraverso le quali ci percepiamo e veniamo percepite in quanto donne, come siamo rappresentate dai media, a cui si rivolgono sempre più prodotti, procedure, interventi. Perché a legare un capitolo all’altro, una parte del corpo all’altra è lo sguardo esterno, cioè quello della società patriarcale, interiorizzato e assunto a regola, e la sua ossessione per la bellezza e per canoni estetici che dobbiamo smettere di chiamare irrealistici: sono semplicemente commerciali.
Un bell’aspetto dev’essere contemporaneamente innato e costantemente agognato, raggiunto e mantenuto, perché – ci viene inculcato – è l’unico modo per sopperire al terribile disguido che ci è successo: siamo nate femmine.

Ce lo ripetono più o meno dal 350 a.C., quando Aristotele definisce la donna difettosa e priva di qualità – Ipse dixit, giusto? – e la misoginia comincia a radicarsi e trasformarsi in un pensiero universale, che abbraccia tutte le discipline, le credenze, gli aspetti della nostra vita, e che condanna le donne a un ruolo inferiore in quanto imperfette, dove la perfezione è l’uomo bianco cis etero abile.

Ospitə del corpo

Quest’ossessione per l’apparenza diventa ossessione per l’aspetto, la stessa che sviluppa Cassie ne Il libro di X: è come se le donne fossero «obbligate a occuparsi del corpo loro malgrado» (p. 13), un compito a cui sono chiamate collettivamente proprio in quanto donne e a cui non possono sottrarsi, se vogliono provare e continuare a essere un soggetto sociale, poter essere prese sul serio o, addirittura, aver diritto di esistere.

Mentre sto finendo di leggere Il secondo sesso di Simone de Beauvoir per il Book Club organizzato proprio da Carolina, trovo lo stesso lucido malessere nei confronti di questo compito: «è un’impresa costosa addobbare l’idolo, innalzargli un piedistallo, costruirgli un tempio» (SdB, p. 622), eppure le donne lo devono fare senza tregua.

Ho cominciato a sentirmi ospite all’interno del mio corpo […] ero semplicemente la persona che se ne doveva occupare. Come una guardiana, una custode, una governante.

Carolina Capria, Campo di Battaglia, p. 13

Entrate in società dopo la prima mestruazione, in quanto finalmente (?) siamo in grado di riprodurci, non possiamo più sfuggirvi: abbiamo l’obbligo morale (degli altri) di non trascurarlo, depilarlo, tonificarlo, ringiovanirlo, tingerlo, truccarlo – anche per nascondere il fatto che sanguiniamo ogni mese, più o meno. E dobbiamo anche agghindarlo. Non troppo altrimenti daremo l’idea sbagliata, non troppo poco o non avremo svolto bene il nostro compito (l’unico!, ci rassicurano) e il nostro errore sarà sotto gli occhi di tutti.

Continua Simone de Beauvoir: «la donna […] è giudicata, rispettata, desiderata attraverso il suo abito. Originariamente, i suoi vestiti sono fatti apposta per votarla all’impotenza e sono rimasti fragili» (SdB, p. 660) e fa proprio l’esempio dei collant. Io non me ne ero resa conto fino a un momento prima di leggerlo in un libro del 1949, ma ho smesso di portare gonne e abiti in inverno negli ultimi tre-quattro anni. Prima, tra i miei 19 e 26 anni, erano tutto ciò che indossavo e ho smesso solo perché un giorno mi sono stufata del denaro e dell’attenzione che dovevo dedicare a questo indumento che mi dava solo insoddisfazioni e malumori, con la sua fragilità intrinseca, e per lo spreco che generavo ogni due settimane, se mi andava bene e non si strappavano mentre le indossavo per la prima volta. Una scheggia nel tavolo, un’unghia poco uniforme, una zip frettolosa ponevano fine alla brevissima vita del paio di collant di quel giorno, dandomi un’aria sciatta se stavo tornando la sera o facendomi desiderare di sparire se stavo andando a un esame o a lavoro.

Il mito della bellezza, come dice Wolf, non riguarda le donne, ma gli uomini e il loro potere, perché non è altro che un’arma politica contro il progresso delle donne.

Campo di battaglia, p. 87

Farci piccolə, sparire: non è solo quello che ci succede sotto uno sguardo indagatore, uno lussurioso, uno minaccioso. Non ci succede solo perché siamo riservate o a disagio. È quello che ci viene insegnato: «a rispettare i confini» (p. 118) e a dedicarci alla performance della femminilità, a essere «predisposte a provare vergogna per il nostro corpo» (p. 107). Anche i disturbi alimentari possono essere ricondotti a due parole terribili, «spazio e potere» (p. 143): tutto ciò che, in quanto donne, non possediamo e a cui non abbiamo né avremo mai diritto. Allora l’eating disorder è improvvisamente ben lontano dal desiderio di assomigliare a delle modelle, non solo perché è attestato da molti più secoli rispetto alle passerelle: se il corpo è l’unica cosa di cui possiamo occuparci, significa che è l’unica cosa su cui abbiamo potere di decisione – anche una distruttiva. Perché il nostro corpo è davvero un campo di battaglia.

Il culmine di questo percorso è la presa di coscienza che il nostro «corpo è un mezzo, non un simulacro» (p. 47), una presa di coscienza che non arriva senza sofferenza perché comporta indagare, questionare e mettere in discussione non solo la nostra formazione personale, ma anche quella della nostra famiglia, dellə nostrə amicə, la cultura del lavoro e, finalmente, quella del patriarcato.


Se hai bisogno di aiuto, 1522 è il numero gratuito da chiamare per antiviolenza e stalking.
Se pensi di soffrire di un disturbo alimentare, il numero verde è 800180969 (non sei solə: negli ultimi due anni le chiamate sono aumentate del 30%).
Se hai pensieri suicidi, puoi contattare il Telefono Amico chiamando il numero 0223272327 oppure scrivendo su WhatsApp al +393240117252.
Se non sei mai andatə in terapia perché hai paura dei costi, ti consiglio (perché la utilizzo io stessa) Psicoterapia Aperta.

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