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A incontrare il dio dei crocicchi con Pier Franco Brandimarte

È stato Adriano a dirmi «questo libro ti piacerebbe». E a quanto pare Adriano mi conosce bene. 

Più che un racconto, Il dio dei crocicchi. Diario galiziano di Pier Franco Brandimarte (Mattioli 1885) è un ricordo autobiografico – perché i ricordi possono anche non essere fedeli, anzi sono autorizzati a non essere tali, come ben dice Filippo Tuena nell’introduzione: «il problema è che quando metti per iscritto una tua vicenda quella si modifica e diventa altra cosa». Ma c’è bisogno che l’io scriva, perché si trova a un punto della propria vita in cui fa fatica a dire e dirsi chi sia, e si sa che se il raccontare ha un potere è quello di definire: «l’identità è una forma approssimativa per narrazione. Attraverso narrazioni acquisisco la mia identità» (p. 27).

Il pretesto della scrittura è una residenza artistica o un ritiro di scrittura in Galizia in cui prendersi del tempo e dello spazio per dedicarsi alla redazione di un’opera. Il Diario, però, non è il risultato di quella residenza né il diario vero e proprio della permanenza, perché inizia molto prima dell’arrivo in Galizia; allo stesso modo, non è un quaderno di appunti e non è solo una raccolta di pensieri e di riflessioni: è la mente del protagonista che si rovescia come si fa con una borsa, la scuotiamo con delicatezza ma decisione e da questa rotola fuori tutto ciò che vi stava nascosto dentro, come oggetti scoloriti e souvenir del tempo.

Cosa vuole scrivere l’io narrante (o pensante) durante questo ritiro?

Un’Odissea se però Itaca fosse dimenticata o distrutta come Troia, oppure un’Eneide se Roma fosse del tutto invisibile. […] Sarà il sogno di un ritorno a casa che in realtà non esiste.

Pier Franco Brandimarte, Il dio dei crocicchi, p. 22 e p. 24

Perché, un po’ come Odisseo ed Enea (e come me), l’io del Diario è sempre quasi–senza–casa e questa cosa lo tormenta anche dal di dentro: anche la struttura del suo corpo, l’unica che avrebbe diritto di abitare, sembra non appartenergli del tutto. In questo corpo (e nella mente) accoglie l’andirivieni di un sé di cui ammette l’esistenza ma che forse non riconosce del tutto, con cui fa fatica ad aderire: «oggi ho ricevuto la visita di me stesso, di ciò che mi abita e non sono io» (p. 18).

Si tratta di un io arrivato a metà del cammino, ma è un cammino che sembra più un girovagare e uno sbattere la testa, dolorante del continuo mancare l’obiettivo – Itaca è dimenticata, Roma invisibile, la casa («del cuore», come dirà più avanti) non esiste – e, ancor di più, per la disillusione con cui ha dovuto imparare a convivere.

Avevo fiducia in ciò che sarebbe venuto. Poi il tempo è passato. 

Pier Franco Brandimarte, Il dio dei crocicchi, p. 16

C’è un momento nella vita di ciascunə di noi in cui ci rendiamo conto, più o meno improvvisamente, che il tempo è passato. Che qualcosa si è spento di colpo o poco a poco, ma che non siamo più veramente noi dopo che abbiamo vissuto «molti anni senza messaggi dal cielo» (p. 24). Perciò quando finalmente riusciamo a scorgere un incrocio in lontananza, quando arriva un segno da terra o per telefono, come l’offerta di una residenza in Galizia, lo teniamo stretto e vi leggiamo un messaggio in codice solo per noi.

Già da prima dell’arrivo nella residenza l’io sta riflettendo su messaggi e messaggeri, su religioni e credenze: vedere le croci a segnalare l’incontro e il dividersi delle strade, luogo prediletto di Ermes con il simbolo di Cristo, non significa solo ritrovare i propri pensieri in terra sconosciuta, ma scoprirli con un diverso ritmo di vita e una tridimensionalità storica e materiale inaspettata. A indicare una commistione, una possibilità di esistenza, una bivalenza che appartiene a Gesù, uomo e divino, mortale ma risorto, così come a Ermes, dio dei ladri e dei commercianti, messaggero delle faccende olimpiche e accompagnatore delle anime che vanno agli Inferi. Interprete di cose oscure, Ermes vive sempre tra due stati, è in un baratto continuo, è in perenne movimento, tanto da rischiare la confusione e far arrivare l’io a chiedersi se questo dio «è guida o colui che fa perdere, è protettore di chi si smarrisce o colui che ci fa smarrire» (p. 43).

Un unico principio per due poli opposti, per due ritmi. Febbre e stasi. La tensione massima del cuore e il suo spegnimento patrocinate dalla stessa figura.

Pier Franco Brandimarte, Il dio dei crocicchi, p. 59

Ci sono parole che per ciascunə di noi avranno un suono diverso che per lə altrə: per me “crocicchi” è Cesare Pavese, sono i Dialoghi con Leucò nell’edizione con la sovraccoperta in carta degli Anni Sessanta. In Brandimarte, il dialogo è con noi stessə, rivolto verso l’interno, con il noi del passato e con quello che continua a portare con sé. Nei Dialoghi con Leucò c’è lo stesso senso di atemporalità, di vicinanza con il sacro che l’io del Diario sperimenta in Galizia, di fronte al mare, per le strade e nei boschi, che non poteva incontrare nella città e nella vita da cui è partito. Un senso di possibilità che sta nella natura e in ciò che non si vede e che, per aderenza, passa anche a noi. Come se a un incrocio potessi trovare Ermes che ti attende: ti sta offrendo l’affare della vita o ti sta tendendo un messaggio che non riuscirai mai a decifrare?

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