Questo è il corpo Marcelli Tropismi cover

Incantesimo per un mondo nuovo – Questo è il corpo di Simone Marcelli Pitzalis

Intervista di Maria Gaia Belli e Cristina Catanese

In Queste oscure materie di Philipp Pullman le streghe praticano un incantesimo dell’invisibilità banale quanto efficace: basta rendersi totalmente anonimi alla vista degli altri per sparire dal loro raggio di attenzione. In questo modo riescono a infiltrarsi dove vogliono, possono stare ferme in un angolo a osservare senza essere viste, tendono le orecchie in silenzio, ascoltano.

Ho sempre pensato che Pullman sia riuscito a racchiudere il millenario concetto di “strega” di un solo incanto: strega è colei per forza una lei, senza riferimento al sesso che porta tra le gambe che raccoglie storie e ne fa qualcosa.

Questa definizione breve, empirica ma efficace, risuona nel romanzo d’esordio di Simone Marcelli Pitzalis, Questo è il corpo. Rituale dei giorni nuovi (effequ 2022): la voce narrante è invisibile agli altri, grazie a un complesso rituale di emarginazione che esperisce dalla prima infanzia, e questa totale invisibilità lə permette di osservare, ascoltare, raccogliere, raccontare.

Cover Marcelli Pitzalis Questo è il corpo
Simone Marcelli Pitzalis, Questo è il corpo. Rituale dei giorni nuovi, effequ 2022.

Questo è il corpo è la storia di due sparizioni: della scomparsa di uno spirito, quello di Veronica, ragazza transgender che viene trovata immobile, alienata come una bambola; e della scomparsa di un corpo, quello della voce narrante, che presenzia in ogni scena, non notatə, non rilevante per nessuno, e raccoglie la storia. Le storie hanno infatti un valore, non solo simbolico, e possono essere scambiate con qualcosa: sono le Matrone a volerle, e le pagano con premonizioni e promesse di un mondo nuovo.

Le Matrone, un organismo plurale femminile, sono le streghe di questo romanzo, che vivono ai margini geografici e spirituali della società. Sanno come rideterminare i confini di un paese troppo chiuso. Sanno come contattare l’onniscenza delle Sante, divinità adorate solo da loro, e che solo con loro parlano.

Le storie raccolte dalla voce narrante verranno offerte alle Matrone e al loro culto primitivo, e non serviranno solo a scoprire la verità su quel che è successo a Veronica, ma anche a innescare la trasformazione di un paese stantio, ripiegato su sé stesso da troppo tempo.

L’autorə ambienta la storia in un mondo dal sapore distopico, non post-apocalittico ma quasi-apocalittico, nel senso che in ogni pagina è sempre percepibile l’imminente catastrofe in arrivo, annunciata da molti segni e premonizioni.

L’autorə Simone Marcelli Pitzalis.

Come accogliere la catastrofe? Come vivere in un mondo che si sgretola, infestato da piante e animali alloctoni, da girovaghe senza meta, da turisti dissociati che succhiano la linfa di un territorio già morto?

La risposta sembra essere non solo nella storia, ma nella lingua distopica con cui è raccontata.

Il mondo nuovo sta arrivando. Bisogna solo aver fede.


Simone Marcelli Pitzalis ha risposto ad alcune domande per noi, e lo ringraziamo per averci portato queste storie.

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Questo è il corpo è una storia di emarginazione, di soprusi, di rivincite, di piccole e grandi vendette. Come nasce questa storia? Quali sono i semi da cui è spuntata?

Mi piacerebbe poter dire da qualcosa di diverso dall’esperienza personale, ma ahimè una simile quantità di tensioni violente e relazioni degradanti è solo dalla vita reale che si può pescare, soprattutto se si tratta della vita reale di una soggettività minorizzata. La mia infanzia, la mia adolescenza, l’esperienza di totale annichilimento di quella volta che ho lavorato in un McDonald’s, la lingua oscena che ci tocca ascoltare ogni giorno attorno a noi, tra la gente o al telegiornale. E quando ti accorgi che tante altre persone patiscono i tuoi stessi dolori, non è certo mezza pena: quando capisci che questo dolore è un fatto di comunità ed è sistemico, programmatico, ti rimane una cicatrice di rabbia che non si rimargina più.

E poi ci sono i semi di ailanto. L’ailanto è una pianta incredibile, alloctona e tremendamente invasiva, radica ovunque, se ha poco spazio lo crea spaccando il cemento con le radici, lo tagli e gemina in polloni numerosi e forti. Non te ne liberi più, anche se con il tuo pensiero minuto credi che distrugga il tuo mondo, e forse lo fa. Che meravigliosa esperienza di sopravvivenza e dignità. Questo romanzo è infestato di ailanti.

Di cosa parla questo romanzo?

Preferisco sempre che a questa domanda risponda chi lo legge. Da parte mia, posso forse dire che parla dei corpi, umani e non, irriducibili, nucleo inscalfibile di senso e centro di ogni agire nel mondo. Il corpo è ciò che ci rimane, se ci levano tutto. Parla dei corpi che fanno comunità, e dei linguaggi che queste possono adoperare per riattivare una narrazione che produca immaginari, e schiuda visioni di futuro. Parla di lingua e linguaggio, dell’urgenza di rompere la nostra lingua opprimente e riabilitarla a essere un linguaggio che ci consenta di dirci e conoscerci, di liberarci.

All’interno della storia spuntano le Matrone. Chi sono queste figure e cosa rappresentano?

Sono le leader di una comunità di persone assurde, in fuga dalle proprie storie, raccolte paese dopo paese nelle loro peregrinazioni. Arrivano in una cittadina, ne raccolgono qualche disperato, e ripartono. E la loro ripartenza non è mai indolore. Sono sacerdoti di un misterioso culto delle Sante, che assicurano un dono alle loro adepte. Nulla sappiamo delle matrone come individui, sono una soggettività collettiva. Portano nella scena la sovraestensione del femminile, in questa loro società rovesciata e speculare a quella nostra con cui entrano in conflitto.

A narrare la storia di Questo è il corpo c’è una voce non binaria. Hai usato diversi espedienti per fare parlare questa voce, e tutti risultano naturali e scorrevoli nel testo – in barba a chi afferma che una letteratura non binaria “suona male”. Puoi parlarci di questo aspetto?

Una persona non binaria subisce una violenza davvero esemplare da parte della nostra civiltà, la quale disconosce al punto la sua identità da escluderne nel linguaggio i presupposti cognitivi.  In altre parole, ci mancano le strutture grammaticali per pronunciare la nostra verità, tanto è profondamente binaria la lingua d’uso. Il problema per noi, dunque, è ancora prima che letterario: questa afasia pronominale, per così dire, è esperienza quotidiana e costante. Non poteva che riflettersi anche nell’esercizio letterario. Il grande paradosso tragico è nel cercare di dire qualcosa con una lingua che nega quella stessa cosa. Eppure questa lingua abbiamo. In assenza di una possibilità non binaria del linguaggio, la lingua di questa voce narrante manomette il binarismo dall’interno, oscillando continuamente tra maschile e femminile, negando dunque ogni polarizzazione binaria. Il maschile e il femminile si rincorrono, si completano, si sovrappongono. Affinché questa soluzione fosse solida e credibile, ho lavorato sulla prosa, a livello sintattico e ritmico, soprattutto, per creare una partitura fatta di continue ripetizioni e variazioni. Le figure di ripetizione e variazione sono per me davvero importanti, perché traducono un’esperienza di frattura dell’esperienza. Ne risulta una lingua allucinata, perché quella che possediamo è allucinante. Se chi legge la trova naturale è scorrevole è soltanto per l’incantesimo del suono, per la ritmica magica che ho tentato di eseguire.

Nel romanzo fanno capolino i parrocchetti. C’è un motivo particolare per cui li hai scelti?

Ogni anno sono di più, nelle nostre città. Lampi di verde nei viali, garriti squillanti sulle nostre miserie, colonie vivissime che non sanno che in teoria, secondo la nostra teoria minuta, questo non sarebbe il loro posto. Eppure se sono qui, questo ora è il loro posto. Sono angeli del Signore, e perdersi seguendone il volo veloce è fare una preghiera.

La storia è ambientata in un mondo in parte simile al nostro. Una provincia del Centro Italia socialmente devastata dal turismo, assediata da nuove specie di flora e fauna alloctone che ne modificano il paesaggio. Che mondo è? Quali sono le sue caratteristiche peculiari? È il nostro possibile futuro, o un altro?

Forse è una versione incoerente di un nostro possibile futuro. Non mi interessava dare le previsioni del tempo, mi interessava produrre un’esperienza intensa e significante: l’incoerenza è voluta ed è il risultato dei processi di accelerazione che ho messo in campo. Ho preso uno spazio circoscritto, quello di un paese rurale del Centro Italia, e come in un esperimento di laboratorio ho attivato una serie di processi traumatici al fine di spezzarne l’equilibrio. Così, alla fine, questo biotopo subtropicale è esso stesso poco in equilibrio, è l’ipotesi allucinata di un processo di mutamento impazzito. Mi interessava arrivare alle soglie del crollo, al punto di rottura: perché è lì che avvengono le cose.

Sappiamo che questo libro ti ha richiesto moltissimo lavoro. Puoi raccontarci la genesi del progetto e come ne hai gestito l’evoluzione?

I primissimi appunti risalgono a circa quattro anni fa, quando scrivevo raccontini un po’ inquietanti sulla mia esperienza lavorativa in un McDonald’s al confine tra Francia e Svizzera. Lì ero degradato perché lavoratore non qualificato, degradato perché straniero. Poi ho iniziato a ricollocare la storia in Italia quando sono tornato e per qualche mese ho vissuto al paese della mia adolescenza, e mi ci sono sentito nuovamente alloctono come quando ci sono arrivato per la prima volta dalla Sardegna. Tentativi di voce, e tentativi di racconto, ne ho fatti negli anni su varie riviste, e in un gruppo di scrittura al quale partecipavo con le mie amicizie più care. Il lavoro sulla voce non binaria è arrivato per ultimo, e vorrei soffermarmi per un momento su quanto questo sia drammatico: io, persona non binaria, davo per scontato di dover narrare con una voce binaria, probabilmente maschile. Ci ho messo un sacco a sganciarmi da questa violenza.

Questo è il corpo è scritto in una lingua incredibile, quasi distopica e in questo caso a essere distopico non è tanto il significato, ma il significante. Come hai sviluppato questo stile? Quanta poesia c’è nella tua prosa?

Dici bene, il significante. Come anticipavo, in questo romanzo tutto è voce e tutto è suono e ritmo. Io sono ossessionato dal potere del significante, perché mi riporta alla dimensione strumentale, magica e pragmatica del linguaggio. Attraverso un ritmo percussivo, attraverso la tessitura sonora, un racconto si fa mantra e incantesimo, richiama la comunità attorno al fuoco, manifesta mondi, spinge all’azione. Diventa rituale collettivo. Mi piace molto questa definizione di lingua distopica: in un certo senso lo è, perché è una lingua distruttiva, e questa forza distruttiva si genera innanzitutto nei suoi movimenti interni, nel suo ripiegarsi e ripiegarsi e ripiegarsi, ossessivamente, divorando tutto il mondo che tocca, eppure non arrivando a dirsi mai. Io provengo dalla poesia, e forse non me ne sono mai andato. Questa tensione magica di linguaggio che attraverso il proprio ritmo si inabissa è propria della poesia, e in poesia ho innanzitutto elaborato il mio personale ritmo, la mia formula magica. Seguendo i miei battiti, il mio fiato: un verso o un periodo non si concludono finché non è dispiegata la loro energia interna. Ed è anche questo a generare le mie tante ripetizioni o variazioni: alcune frasi non era ancora il momento di chiuderle, e quindi le allungavo.

Il tuo romanzo mi ha ricordato Streghe di Brenda Lozano sia per l’ambientazione ma soprattutto per il linguaggio. Ci sono dei romanzi o dei saggi che ti sono stati d’aiuto durante il processo di scrittura o per i quali potresti dire “Se non li avessi letti, non avrei mai scritto questo romanzo”?

Sono sempre tentato di non rispondere a questa domanda, perché talvolta sottintende una visione autoreferenziale del linguaggio letterario: come se la letteratura si nutrisse solo di letteratura, e dunque chi non ha mangiato a questa mensa non può che restarne fuori. Io credo alla letteratura come sistema aperto: è un luogo in cui fluiscono esperienze e immaginari. Fatta questa premessa, mi è possibile rispondere. La prima e più importante lettura è la Bibbia, per molteplici aspetti: il senso profetico del tempo, il significato della violenza, il linguaggio sapienziale, il mistero linguistico del sacro, la figura di Cristo che si manifesta in tutti i libri, come filo di trama.

Poi non saprei o forse non voglio individuare singoli libri, ma tantissime voci meravigliose che ho letto e ascoltato e che ora si amalgamano nella mia testa come in uno sterminato serbatoio di suoni e immaginari. Vibrano insieme alle tante altre voci che ascolto, come quella di mia nonna diventata antenata, di persone che ho incontrato e dimenticato, del vento tra i canneti nel sud della Sardegna, delle cicale impazzite in una minuscola comunità della Louisiana, dei parrocchetti che garriscono squillanti sulle nostre miserie.

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