Poesia che rimani: una lettura di Antonia Pozzi

E poi – se accadrà ch’io me ne vada –
resterà qualche cosa
di me
nel mio mondo –
resterà un’esile scìa di silenzio
in mezzo alle voci
Novembre, Milano 29 ottobre 1930

 

Un paio di settimane fa avevo espresso qui la necessità di tornare a leggere la poesia di Antonia Pozzi, anziché ricamare sulla sua tragica vicenda umana: di guardare la luna anziché il dito, per intenderci.

Una fotografia dei Navigli di Milano scattata da Antonia Pozzi nel 1938.

Una fotografia dei Navigli di Milano scattata da Antonia Pozzi nel 1938.

Qualcuno l’ha fatto, e anche brillantemente, ma non si è ancora arrivati a un’analisi critica puntuale ed esauriente dell’opera complessiva della poetessa. La ragione principale di questo ritardo è la difficoltà di ricostruire la sua produzione poetica al netto delle manomissioni critiche e analitiche operate dal padre Roberto Pozzi, che oltre a essere intervenuto sui testi, con intento moralistico e censorio, ha curato la maggior parte degli apparati critici delle raccolte di Antonia pubblicate postume.

Superare le distorsioni critiche e filologiche non è affatto un’operazione semplice, specialmente perché si tratta di errori sedimentati su cui si è stratificata una tradizione di interpretazioni semplicistiche o approssimative della poesia pozziana, interpretazioni quasi sempre forzate, volutamente imprecise, più orientate a minimizzare che a comprendere.

Esemplificativa di quest’atteggiamento ostruzionistico è la scelta, da parte di una buona fetta di critici e accademici, del componimento della Pozzi intitolato Pudore come rappresentativo della sua poesia. Ne ripropongo il testo:

Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.

1° febbraio 1933

Antonia Pozzi all'Università Statale di Milano.

Antonia Pozzi all’Università Statale di Milano.

Questa poesia è del 1933, Antonia ha appena 21 anni quando la scrive, e tutto ruota attorno a una similitudine molto semplice, oserei elementare, attorno all’equazione per cui la parola sta al poeta come il figlio sta alla madre. Non ci sono virtuosismi linguistici, meccanismi retorici complessi, elementi di una voce poetica distinta e riconoscibile: è una poesia immatura, in cui affiora ancora l’ingenuità della parola e la poetica pozziana è appena accennata.

Ma le prime poesie di Montale, o del compagno universitario di Antonia Vittorio Sereni, il più grande poeta dopo Montale, non sono così diverse da questa, non sono meno “infantili” nell’impronta né contengono un’elaborazione del sentimento più attenta e lucida; l’unica differenza, sostanziale, risiede nell’approccio critico: le meno buone tra le poesie di Montale o Sereni non sono reputate rappresentative della loro poesia, vengono, com’è giusto che sia, solo ignorate.

Non c’è poeta che non perda un colpo, che scriva poesie tutte egualmente belle, egualmente vibranti o dall’alto valore letterario, proprio come (per riprendere la similitudine centrale in Pudore) non tutti i figli, pur essendo figli della stessa madre, hanno gli stessi caratteri, gli stessi pregi o gli stessi difetti. Ma c’è una critica che si propone di valorizzare il meglio, una che lo fa ma lo fa male, fino a valorizzare tutto, e un’altra, spesso faziosa, che persegue l’obiettivo di valutare il peggio. La differenza tra i due tipi “cattivi” di critica, quella che valorizza tutto e quella che valuta il peggio, è che la seconda, quando riesce nel suo intento, ci priva della possibilità di accedere alla bellezza di pagine straordinarie della nostra letteratura, della nostra poesia.

Antonia Pozzi non compare nelle antologie di Letteratura italiana, non rientra nei programmi di Poesia del Novecento delle nostre università, non è ben commentata: non trova posto tra chi la mitizza e chi la liquida, né trovano spazio le sue parole migliori. Per esempio queste:

Sento l’antico spasimo
– è la terra
che sotto coperte di gelo
solleva le sue braccia nere –
e ho paura
dei tuoi passi fangosi, cara vita,
che mi cammini a fianco, mi conduci
vicino a vecchi dai lunghi mantelli,
a ragazzi
veloci in groppa a opache biciclette,
a donne,
che nello scialle si premono i seni –
E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.

Nel tramonto le fabbriche incendiate
ululano per il cupo avvio dei treni…
Ma pezzo muto di carne io ti seguo
e ho paura –
pezzo di carne che la primavera
percorre con ridenti dolori.
21 gennaio 1938

Si tratta di Periferia, uno degli otto componimenti scritti nell’ultimo anno della sua vita, i più maturi nel contenuto e nello stile,  e fa parte di un “ciclo” di 4 liriche (di cui fanno parte anche Periferia del 19 gennaio del 1936, Periferia in aprile e Via dei Cinquecento) dedicato alla periferia milanese, dove – dirà Sereni – la città / in un volo di ponti e di viali / si getta alla campagna.

In Periferia convergono due linee poetiche: una che richiama l’espressionismo tedesco, con colori forti e tratti visionari, quasi surreali, e un’altra realistica e malinconica, assimilabile al tratto della “linea lombarda” secondo la definizione di Luciano Anceschi. Antonia Pozzi dipinge con pennellate inquiete e intense i mutamenti della periferia: la terra che sotto coperte di gelo / solleva le sue braccia nere, le fabbriche incendiate che ululano per il cupo avvio dei treni. E poi, con delicati tocchi, con tenera malinconia, la realtà dei vecchi dai lunghi mantelli, dei ragazzi / in groppa a opache biciclette, delle donne / che nello scialle si premono i seni.

In chiusura, l’avversativa ma (un ma presente anche, in ampia misura, nella poesia di Vittorio Sereni): la primavera che nella rinascita esacerba il dolore (si noti l’ossimoro ridenti dolori), il muto pezzo di carne che si paralizza e si scalda al contempo, nel fiato caldo della vita. È una poesia bellissima. E racconta in appena quattro versi, nemmeno una trentina di sillabe, la trasformazione della periferia, il silenzioso avanzamento delle fabbriche sulla natura, il turbamento malinconico che provoca in chi lo coglie:

E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.

Il fumo dei comignoli delle fabbriche, con il suo odore artificiale, disorienta le betulle. È un’immagine concreta, semplice (ancora un tratto della “linea lombarda”), ma proprio per questo densa, carica di un’ineffabile malinconia che si respira, ma non si manifesta in maniera esplicita. La stessa reticenza si ritrova pochi versi dopo, nel tramonto periferico che rimane sospeso, che non riesce a cedere alla parola: le fabbriche incendiate / ululano per il cupo avvio dei treni…

Antonia Pozzi in abiti maschili, accompagnata da uno dei suoi cani.

Antonia Pozzi in abiti maschili, accompagnata da uno dei suoi cani.

Questa è la migliore Antonia Pozzi, quella che tutti dovremmo ricordare. L’Antonia Pozzi del biennio 1936-1938, che rinnova non solo la sua personale poesia, ma quella italiana del tempo. In questi anni la poetessa frequenta, insieme a Dino Formaggio (di cui è innamorata), il quartiere operaio di piazzale Corvetto, la “Casa degli sfrattati” di via dei Cinquecento, e si avvicina incredibilmente ai toni e ai tratti di quella poesia che si troverà in Frontiera, la raccolta di Sereni edita nel 1941, tre anni dopo la sua morte. I tratti rapidi, la percezione di essere sulla soglia (o alla frontiera) della vita, i riferimenti precisi alla geografia cittadina (i comignoli, i treni, le biciclette), il desiderio di una realtà dura purché vera e autentica, l’incapacità di adeguarsi al mondo.
Ma anche il sentimento della fine, la perdita di un’incontro, la negazione inespressa di un amore, forse di un sogno. Ognuno di questi aspetti è compiutamente presente nelle ultime poesie di Antonia Pozzi, ma c’è dell’altro, dell’altro che, unito a questo, fa la voce di Antonia Pozzi e la rende riconoscibile, unica, isolandone e insieme valorizzandone l’esperienza poetica nel contesto “banfiano”: il calore, il senso del corpo e delle emozioni, l’espressionismo forte, dal cromatismo intenso, al servizio della charis ellenica (da intendersi non tanto come la pietà di sé, infinita pena e angoscia di Montale, quanto come la compartecipazione umana alla vita di tutti gli esseri, specialmente degli umili). Quest’espressionismo “di denuncia”, che nella poesia pozziana si interseca alla “linea lombarda”, si trova, per esempio, nella splendida Via dei Cinquecento:

Pesano fra noi due
troppe parole non dette
e la fame non appagata,
gli urli dei bimbi non placati,
il petto delle mamme tisiche
e l’odore –
odor di cenci, d’escrementi, di morti –
serpeggiante per tetri corridoi
sono una siepe che geme nel vento
fra me e te.

Ma fuori,
due grandi lumi fermi sotto stelle nebbiose
dicono larghi sbocchi
ed acqua
che va alla campagna;

e ogni lama di luce, ogni chiesa
nera sul cielo, ogni passo
di povere scarpe sfasciate
porta per strade d’aria
religiosamente
me a te.
27 febbraio 1938

È nella fame non appagata negli urli dei bambini che non vengono placati da nessuno, nel petto delle mamme tisiche, nell’odore di cenci, d’escrementi, di morti, in questo linguaggio forte e colorito che non ha niente a che vedere con quello di Pudore, il carattere della sua voce. E insieme, quello della sua poesia, che si muove dentro luoghi intrisi di silenzio, dentro tempi scanditi da un quotidiano basso, a contatto con la Natura. Ma era già presente nelle quattro strofe di Periferia, del 19 gennaio 1936:

Lampi di brace nella sera:
e stridono
due sigarette spente in una pozza. 

Fra lame d’acqua buia
non ha echi
il tuo ridere rosso:
apre misteri
di primitiva umanità. 

Fra poco
urlerà la sirena della fabbrica:
curvi profili in corsa
schiuderanno
laceri varchi nella nebbia. 

Oscure
masse di travi: e il peso
del silenzio tra case non finite
grava con noi
sulla fanghiglia,
ai piedi
dell’ultimo fanale. 

In questo componimento a struttura circolare, con attacco e chiusa che mettono a fuoco un’immagine, un frammento fotografico, i curvi profili in corsa richiamano la fuga degli operai dalla fabbrica, finito il turno sfiancante, e la visione delle case non finite indica una geografia urbana precaria.  Siamo in una zona prossima alla campagna in cui non ci sono fanali, come suggerisce l’aggettivo ultimo, e il soggetto collettivo appare disorientato. Il silenzio che grava e coinvolge anche i soggetti, sembra suggerire un momento, un’occasione sfumata.  Anche il sinestetico ridere rosso che non ha echi sembra alludere a un suono che resta inascoltato, a un messaggio che rimane implicito. Eppure apre misteri / di primitiva umanità, cioè apre a un sentimento di umanità puro, genuino, autentico, che ha in sé la vita. Interessante, in questa poesia, è proprio il ridere rosso, ch’è l’unico suono “umano” della poesia pozziana. A fare rumore – un rumore ch’è sempre assordante, inquieto, ringhioso – sono sempre gli oggetti, e così avviene anche nella poesia più affine a Periferia per costruzione formale e situazione:  Treni. Ecco il testo:

A notte
un lento giro d’ombre rosse
alle pareti avviava i treni: tonfi
cupi d’agganci
al sonno si frangevano.

E lavava
lieve la corsa della pioggia il fumo
denso ai cristalli: sogni
s’aprivano continui, balenanti
binari lungo un fiume.

Ora ritorna
a volte a mezzo il sonno quel tuonare
assurdo
e per le mute vie serali, ai lenti
legni dei carri e dentro il sangue
chiama
lunghi fragori – e quell’antico ardente
spavento e sogno
di convogli.
Torino, 1° maggio 1937

Questo componimento, scritto a Torino, cioè in città e non in periferia, somiglia a un’elegia funebre. Al di là del gusto per l’eufonia delle parole, senza dubbio di derivazione ermetica, si tratta di parole ridotte al «minimo di peso», per dirla con Montale, che raccontano, dipingono immagini dal gusto espressionista, inquietanti e languide. La composizione sonora del testo rievoca il passaggio del treno notturno (consonanze, assonanze, ripetizioni di suoni, endecasillabi franti e settenari) con i suoi suoni cupi, ma soprattutto il rumore dell’inquietudine che interrompe, insieme al silenzio, la pace dell’io. Le prime due strofe raccontano un viaggio notturno, del passato, con un lento giro d’ombre rosse che sembra indicare i movimenti di manutenzione e le luci di sosta del treno su cui si trova l’io poetico. Poi la partenza, nel fumo denso del vapore del convoglio, con lo stato di veglia che si alterna allo stato di sogno e i frammenti di paesaggio dietro il finestrino. Infine, nell’ultima strofa, uno spazio diverso, forse domestico, e un tempo presente in cui torna l’inquietudine, quell’antico ardente / spavento e sogno / di convogli.

In entrambe le poesie vi è un mondo moderno e industriale percepito da una spettatrice che ne analizza la freddezza e l’ostilità, ma mentre nella prima vi è ancora qualcosa di umano (le sagome, il suono di una risata, un tu), nel secondo c’è solo un tuonare assurdo, ci  sono solo i convogli e il soggetto spaesato e spaurito. La realtà della fine degli anni Trenta, una realtà terremotata, scossa da violente trasformazioni (storiche, politiche, sociali e urbane), genera in Antonia Pozzi un interrogativo esistenziale profondo, che pretende una risposta lucida e insieme spietata. Dove collocare lo spirito, in una realtà in cui la spiritualità, l’umanità sta scomparendo? E come, soprattutto, a che prezzo? In una pagina del suo diario, la risposta:

Il contrasto fra geist e leben non va inteso nel senso che l’artista è colui che non arriva alla vita, ma colui che va oltre la vita. Infatti, come potrebbe comprendere, veder chiaro, riflettere su ciò che non ha vissuto? […] Ha voluto mostrare  [Thomas Mann] a costo di che sangue ci si fa chiamare poeti. È l’errore di chi crede che si possa – cogliere una fogliolina sola dell’alloro dell’arte – ‘sans la payer de sa vie’.

Si tratta di questioni e luoghi, di domande che toccano tutta la generazione dei “banfiani”. Ma mentre Sereni recepisce l’insegnamento di Banfi e impara a guardare il mondo come una realtà in continuo mutamento, come un’entità fluida in cui due poli, uno negativo e l’altro positivo, si oppongono, Antonia Pozzi dà alla realtà un valore assoluto e immutabile, ed è per questo che non riesce a sopravviverle.

A lei e al valore irreversibile della sua realtà è idealmente dedicata una poesia di Sereni inserita in Frontiera e intitolata 3 dicembre, che riprende, come a omaggiarla, sintagmi ed espressioni della sua poesia:

All’ultimo tumulto dei binari
hai la tua pace, dove la città
in un volo di ponti e di viali
si getta alla campagna
e chi passa non sa
di te come tu non sai
degli echi delle cacce che ti sfiorano. 

Pace forse è davvero la tua
e gli occhi che noi richiudemmo
per sempre ora riaperti
stupiscono
che ancora per noi
tu muoia un poco ogni anno
in questo giorno.

Come Sereni, stupisco anch’io, anno dopo anno, che Antonia Pozzi muoia un poco ogni anno, poetessa ora inascoltata e ora inflazionata, detta male  – ch’è peggio di maledetta.
Antonia Pozzi è una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite della poesia lirica italiana del ventesimo secolo. La voce leggera che brucia le sillabe nello spazio bianco della pagina, la purezza del suono e la nettezza dell’immagine già ammirate da Montale, l’espressionismo visionario e vitale, la corporeità delle immagini quotidiane, la crisi personale ch’è voce di una crisi collettiva, quella degli anni Trenta del Novecento, la rendono una delle voci più impopolari eppure più straordinarie, più vive e per questo disperate, più lucide e per questo più appassionate del primo Novecento. Una voce che rimane, e che attraversa – superandoli – il tempo e le critiche, come  avviene per i poeti migliori.

Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’altra scogliera
di stelle.
Desiderio di cose leggere, 1934

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.