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Mezza luce mezzo buio, quasi adulti – L’esordio di Carlo Bertocchi

L’estate che si appiccica addosso, gli orizzonti bassi e regolari, i campi di grano e di mais, i cieli grandi sotto cui lo sguardo si può perdere: è inutile dirlo, l’Emilia-Romagna ha un fascino tutto particolare, forse perché i suoi paesaggi risuonano nella nostra mente come un’eco che viene da lontano, oltreoceano, in una sorta di America nostrana versione ridotta. Affascina a tal punto che potremmo quasi parlare di una categoria letteraria di “romanzi ambientati in Emilia-Romagna”: basti pensare a quelli di Enrico Brizzi e Cristiano Cavina, ai rimandi di Marco Missiroli, all’esordio sorprendente di Roberto Camurri, A misura d’uomo. E come non citare Paolo Nori? Proprio lui ha trovato, ne Gli scarti, una definizione brillante e incisiva per una tipologia precisa di scrittori, ossia “quelli emiliani che scrivono come si parla”.

Ecco, oggi vi voglio raccontare di Mezza luce mezzo buio, quasi adulti, il romanzo d’esordio di Carlo Bertocchi, fresco fresco d’uscita per TerraRossa Edizioni: Bertocchi emiliano non è, ma romagnolo sì, e possiamo dire che anche lui fa parte di quegli scrittori che scrivono come si parla. E lo fa molto bene.

Era la tremenda estate del 1989, quella che ci si appiccicò addosso. Tirava la pelle come il fango che si seccava tra la prima peluria delle gambe.

La scuola era finita da poco e il paese sembrava uscito da un film western.

Potevamo fare quello che ci pareva, gli adulti erano ancora al lavoro e quelli in divisa spariti: le macchine di vigili e polizia partivano presto la mattina e rientravano tardi la sera. Nessuno ci rompeva le scatole per i motorini elaborati. Stavano nelle campagne a cercare il tipo dei tg e a noi andava benissimo così.

Siamo alla fine degli anni ’80, è estate.

Bert, il protagonista, è un ragazzino che non può vedere film violenti o dell’orrore (ma fa finta di sì per non passare da sfigato), ama girare in motorino e che ha un debole per le lentiggini, specialmente quelle di Matilda, seconda classificata al concorso Culetto D’oro 1989, “mica chiacchiere”. Insieme ai suoi amici dai soprannomi improbabili, si muove tra la casa e il bar della Casa del Popolo – quello dei comunisti, l’unico dove ci sono i biliardi – a sperperare la giovinezza tra scontri tra bande, questioni che richiedono la loro massima serietà (come capire chi ha vinto le gare di volate), e le prime, indimenticabili cotte.

Incrociai lo sguardo di lei e fui sicuro che ci fissammo per almeno tre secondi. I fatidici Tre Secondi.

Avevo ancora qualche difficoltà a comprendere quella regola, ma i miei amici più preparati in fatto di donne mi avevano ripetuto allo sfinimento: se una tipa ti sluma per tre secondi o più, è evidente che ne voglia.

Io non capivo il “ne voglia”, ero ancora nella fase “meglio giocare con lego-calcetto-motorino, limonare fa schifo con tutta quella saliva”. Però, qualsiasi cosa Matilda volesse, ero sicuro che avrei cercato il modo di dargliela.

Quell’estate potrebbe essere un’estate qualunque di un qualunque paese di provincia, ma non lo è, perché in realtà, qualcosa si muove nell’aria, o meglio nei campi: c’è un mostro che infesta la zona, sconvolgendo gli equilibri del paese. Un albanese accusato di omicidio e fuggito chissà dove. Non si parla d’altro di quella oscura vicenda e – in uno stato di crescente paranoia che ricorda il fatto di cronaca vera di qualche anno fa di Igor, il killer di Budrio – anche qui tutti gli adulti sono impegnati nella ricerca, battendo strade e organizzando ronde. Quindi, da una parte, c’è il mondo degli adulti, distante, preso dai suoi problemi così enormi e seri; dall’altra, c’è quello di un gruppo di ragazzini che pensa alle ragazze e alle corse in motorino e beve chinotti e cedrate.

Sembrava di vedere una testuggine romana che scendendo dalla collina si apprestasse a distruggere le linee di difesa nemiche. Giulio Cesare a noi ci avrebbe potuto pulire i cerchioni.

I vecchietti intorno ai tavolini intanto bestemmiavano facendo aerosol di benzina e maledicendo i giovani d’oggi.

Cosa succede, però, se quelle due realtà si scontrano all’improvviso?

È quello che accade a Bert che, senza volerlo, si ritrova nel posto sbagliato al momento sbagliato e così, eccolo invischiato in una situazione che non ha voluto o cercato. Ma la curiosità e l’eccitazione superano ogni paura, e, infischiandosene delle regole e degli adulti, Bert prende una decisione: agire. Coinvolgendo prima Matilda, poi i suoi amici, il suo mondo di ragazzino quattordicenne prende una piega inaspettata, e lui si butta a capofitto in un’avventura che d’avventura sa poco. In un qualcosa troppo grande per lui.

Perché, diciamolo, a quattordici anni, ci si sente invincibili.

Si è in uno stato di grazia, niente sembra poterti toccare o ferire davvero, ci si può muovere fregandosene delle regole del mondo e fare ciò che si vuole. Andrà sempre tutto bene. O almeno, è ciò che si crede: perché la verità è un’altra, che nessuno è invincibile e quello stato di grazia è solo apparente. E il problema è che, a quattordici anni, queste cose non le puoi sapere, come non puoi sapere che quel periodo sarà probabilmente uno dei migliori della tua vita. Che poi si cresce, e crescendo si perde quell’aura magica di meravigliosa ingenuità e purissima incoscienza, ci si scontra con un mondo duro e freddo, in cui le regole sono regole e non si possono più infrangere. Bertocchi ci racconta di quel passaggio, di quel superamento della linea d’ombra, in cui quello stato di grazia s’incrina e perde un po’ della sua luminosità, un po’ del suo incanto, per guadagnare qualcos’altro. Cosa? Per cosa si baratta la propria innocenza?

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Potrebbe essere un’estate qualunque di un qualunque paesino di provincia, ma non lo è, perché quella è l’estate del 1989, quella prima del crollo del muro di Berlino, quell’estate che cambierà il volto dell’Europa. Tra i richiami a Il corpo di Stephen King (contenuto nella raccolta Stagioni diverse) e certe atmosfere alla Ammaniti, tra le fortissime connotazioni ideologiche e un linguaggio ironico, preciso e scorrevolissimo, che tocca il suo punto massimo nei dialoghi – Bertocchi scrive un’opera prima che fa sorridere il nostro io quattordicenne che si sentiva invincibile e riflettere l’adulto che è diventato. E nonostante le conclusioni che ho trovato forse un po’ troppo frettolose, questo libro è, a ragione, consigliato a “chi dubita che un buon romanzo possa appassionare sia gli adulti sia i ragazzi”. Io, aggiungo: a chi vuole tornare indietro nel tempo e giocare con la propria nostalgia. Non se ne pentirà.

Garantito al limone.

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