Di rete e vulcani: Herzog e l’inesauribile amore per la tragicità dell’uomo

Werner Herzog è una figura che già in vita si riveste di caratteri mitici, come Lutero, Beethoven o Holderlin e Wagner prima di lui;  sguardo e cinema si identificano, uno sguardo distante e penetrante come quello del Ritter dureriano e del visitatore alieno. Fin dal suo primo documentario, il Paese del silenzio e dell’oscurità, ingresso nel misterioso e complesso mondo di ombre dei sordociechi, o l’impietoso Anche i nani hanno cominciato da piccoli, Herzog ha investigato e portato in vista realtà sociali e naturali che restano fuori dall’orbita, facendo emergere – attraverso la tecnica e il suo ormai celebre inglese teutonico fuori campo – una visione umana che supera romanticismo e nichilismo, nella consapevole meraviglia di un esistenza sospesa tra l’ironia del dolore e la rassicurazione della morte.

Col passare degli anni il tormento e la fame giovanile hanno lasciato il posto a un più quieto osservare che non è smorzamento di una vitalità esplosiva, nell’anno che va a tramontare Herzog ha presentato due nuovi documentari che restano esempio del suo cinema, presentando da una parte l’aspetto prorompente e tragico della natura in Into the Inferno, dall’altra quello altrettanto fertile e drammatico dell’umano ingegno in Lo and Behold, Reveries of the Connected World.

ceahuykw0aatp-iIl primo documentario è naturalismo estremo, una discesa nei crateri dei più grandi vulcani attivi dai quali si sollevano e snodano colonne e fiumi di lava. Indonesia, Etiopia, Islanda, Corea del Nord, per ciascuno di essi Herzog ci inonda di immagini sublimi, ma il documentario non è pura geologia, per quanto a fare da Virgilio ci sia l’amico vulcanologo Clive Oppenheimer – fantasioso e affascinato, perfetta controparte del regista – piuttosto è un corredo di ricerca sugli usi e costumi degli esseri umani che vivono e operano nelle vicinanze di questi giganti sputa fuoco, siano essi scienziati che fanno analisi sulle pendici dei crateri o religiosi abitanti di villaggi. L’inconciliato rapporto tra uomo e natura di fronte a una forza tanto possente da eclissare il sole si coniuga così in differenti interpretazioni nel culto del vulcano e le sue propaggini: spolverare il deserto rovente attorno all’Erta Ale alla ricerca di pezzi di cranio appartenuti all’homo sapiens; visitare grigie statue, concrezione dell’ideologia di un autoritario regime politico-religioso che si appropria del possente mito del monte Paektu;  rinvenire in un credo aborigeno novecentesco la millenaria necessità umana di un Redentore.

Il regista bavarese nella sua ricerca dei confini tra fato e natura aveva già portato la macchina da presa sulle pendici di vulcani attivi, nel fortunatamente breve La Soufrière e in Encounters at the end of the world di cui nel nuovo film ci presenta stralci di pellicola, ma qui la potenza del vulcano si manifesta nella sua più viva rappresentazione, nell’unitaria ambivalenza di creazione e distruzione, di acqua e di fuoco; una danza elementale fatta di movimenti eonici e esplosioni improvvise che la statura dell’uomo può solo testimoniare o interpretare.

Il secondo documentario, Lo and Behold, Reveries of the Connected World, sposta invece lo sguardo su lobeholdun mondo totalmente umano, anzi quel mondo che l’uomo ha creato a prova di zampa, il regno della mano che supera il suo stesso controllo: la rete. Il film si apre sulle note di una ricerca, un preludio di brama d’oro e potere custoditi da un fiume, spumeggiare di corni iperuranici che ci introduce alla stanza dove avvenne il primo LOgin, la prima sillaba interrotta di una cascata di interconnessioni che ha portato alla più grande rivoluzione dell’uomo moderno. Se il tema è il più attuale, presente e invasivo che ci sia, Herzog riesce a scrollarsi di dosso con un solo movimento tutto ciò che di banale e retorico può esserci in un’indagine sulle nuove tecnologie, andando a interrogare personalmente pionieri, ricercatori, pirati e sfruttatori dell’Internet penetrando, attraverso domande portentose, negli occhi di chi sogna, spera e odia attraverso gli schermi e le tastiere; e in quei secondi di ripresa mantenuta dopo che l’ultima parola del dialogo si è spenta, nel serrarsi di labbra e di sguardi, si racchiudono le verità di chi sta parlando.

Partendo dall’origine si arriva alle prefigurazioni future, imponderabili per un passato che non aveva predetto un tale movimento, previsioni presentate in un trepido equilibrio dove progresso e apocalisse si scambiano di posto nell’espansione di possibilità travolgenti. La spettacolarità qui è affidata solo ai limiti dell’immaginazione umana che ha aperto una strada della quale stiamo affrontando le prime caotiche curve, un percorso che ci vede già affiancati da alter ego virtuali, intelligenze artificiali e stazioni orbitanti. Un tentacolare supporto artificiale il cui infinito potenziale si annulla quando il regista si fa nuovamente interprete, facendo scorrere la camera su un consesso di scienziati ed amici che si stringono attorno a un fuoco e al calore sprigionato da un banjo.

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