Wu-Tang: an American Saga – Recensione di Camere Oscure di Will Ashon

Perché i biografi musicali parlano sempre al loro lettore come se questo sapesse già tutto? Perché scrivono frasi inutilmente criptiche sperando che qualcuno le colga?

È come se cercassero di svelare un segreto dando solo qualche indizio, costringendo il lettore davvero appassionato ad andarsi a cercare le informazioni mancanti e il lettore pigro ad abbandonare la lettura.

Will Ashon nel suo Camere Oscure – Il mondo del Wu-Tang Clan (EDT, traduzione di Roberta Scarabelli) commette lo stesso peccato, ma glielo si perdona per la sua bella prosa e per la sua conoscenza enciclopedica, ed emotiva, del mondo del rap, del jazz, del gospel. E anche perché la storia che vuole raccontare è accattivante come un thriller, coinvolgente come una storia di realizzazione sportiva, coi toni seppia di un film sulla malavita dei bassifondi americani.

Il Wu-Tang Clan. Un clan di rapper con una storia fondativa emozionante: due gruppi di malavitosi rivali, appartenenti a due quartieri di case popolari di Staten Island, New York, uniscono le forze e creano il collettivo artistico che cambierà le regole del rap. 

Non è un caso che Hulu abbia deciso di fare una serie Wu Tang: An American Saga, in cui si racconta – romanzando ampiamente – la nascita del gruppo.

Ashon ha il merito di non indorare mai la pillola, né di cercare di rendere più romantica o drammatica la storia, né desidera raccontare ogni dettaglio. Camere Oscure è una narrazione divisa in 36 camere, capitoli, tanti sono i pezzi del primo album dei Wu-Tang.

Ogni camera analizza un pezzo, raccontandone la genesi musicale. 

Non solo quindi come è emerso quel pezzo, ma da quanto lontano arriva. È così che nelle pagine di questo libro arrivano Little Richard e James Brown con i loro urli, apparentemente estemporanei, sul palco.

Perché l’hip hop non è solo la manifestazione ultima della cultura musicale della diaspora degli schiavi africani, secondo Ashon, ne è la sua “forma più alta e realizzata”, come dice nella Quinta Camera, “un tardo rinascimento piuttosto che una discesa nella decadenza”. 

Certo, agli amanti del jazz, quelli della generazione precedente, non è piaciuto troppo l’hip hop, con tutti quei campionamenti, l’assenza quasi totale di strumenti musicali, la parola – spesso sputata, graffiante e a regnare sull’armonia. Ciò non toglie la ricchezza infinita dei testi, dei Wu-Tang e poi di tutti i loro successori.

Will Ashon ci porta indietro nel tempo, ci prende per mano e si lancia con noi in un tuffo profondo, per cercare di raccontare tutto, di non tralasciare niente. Così ci accompagna anche nella scoperta di uno dei tanti volti degli Stati Uniti, un volto che forse non eravamo riusciti a inquadrare perfettamente, perché ancora troppo vicini.

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