Parhelia: i tre soli di Virginia Woolf

Ci sono tre romanzi in particolare, tra tutti quelli scritti da Virginia Woolf, che a ogni rilettura mi appaiono sotto una luce diversa, perché sembrano essi stessi emanare raggi luminosi che spingono fino alla superficie della pagina nuovi aspetti, nuovi rimandi, nuove suggestioni. È nientemeno che Calvino a dirlo, in un suo famosissimo saggio: «D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima».
I tre personaggi che abbiamo già incontrato ne L’ultima onda di Virginia Woolf non sono (più) solo creatori di senso, ma anche portatori di luce. Come fonti luminose ed energetiche, esattamente come il Sole, splendono fino a noi attraverso le parole scritte e orientano i sentimenti e i movimenti degli altri personaggi del romanzo, che più o meno consapevolmente si organizzano attorno a loro. Sembrano emettere delle vere e proprie onde di luce dal loro modo di entrare in una stanza, dalle loro parole, dai loro sguardi, onde che si propagano e si possono vedere. Mrs Dalloway, Mrs Ramsay e Percival incarnano davvero e con forza il senso della presenza nel mondo e della vita, anche se due di loro spariranno prima dell’ultima pagina: sono tre personaggi luminosi e ardenti, al punto che costituiscono a tutti gli effetti «il cuore generativo del loro stesso romanzo»². Le apparizioni sulla scena lo confermano, e non parlo di “scena” a caso. Compiono tre ingressi teatrali, in medias res, forti e assertivi proprio come sono loro: «La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei» (Mrs Dalloway); «“Sì, certamente, se domani è bello„ disse la signora Ramsay» (Al faro);  «[Percival] eccolo lì seduto ben eretto, tra i piccoli. Respira profondamente dal naso dritto» (Le onde).

Agli altri personaggi non resta che riconoscere o prendere atto di questo loro potere, gravitare ammaliati intorno ai tre soli, sperare di esserne illuminati, a loro volta resistuirne il riflesso − ma pallido, non abbastanza intenso, non altrettanto autentico. Enrico Testa individua il prototipo di questo personaggio che ha bisogno del supporto di altri per essere creato nella Recherce di Proust, che la Woolf leggeva e ammirava: «Il protagonista e, con lui, gli altri personaggi si evolvono e si costruiscono in un movimento di trasformazione continua. Il loro senso è, insomma, nelle loro relazioni e nel loro carattere eminentemente temporale»³. Nel momento in cui la luce li colpisce, ecco che esistono. E la luce è incarnata ed emanata da questi personaggi potenti−prepotenti. È leggendo Freud nel 1939  che la Woolf trovò la conferma alle sensazioni che aveva già reso in romanzo: esiste  nell’animo umano un impulso a dominare che si accompagna a quello d’ammirazione per chi domina. Gli invitati alla tavola dei Ramsay un poco compatiscono quella signora incolta e materna, ma non possono che desiderarne l’approvazione e l’attenzione proprio perché in lei riconoscono la madre; tutti sono agitati se Clarissa abbandona la festa e si ritira nelle sue stanze, sparendo oltre l’orizzonte; il sole si ferma quando Percival muore.

Solo l’autobiografia è letteratura, i romanzi sono la scorza, e alla fine si arriva al nocciolo: o io o tu. VW

Virginia Woolf stessa è un centro di gravità: con Bloomsbury prima e con la Hogarth Press poi, crea e mantiene un circolo di amici e intellettuali destinati a influenzare la cultura del loro tempo, ma era soprattutto nota tra i non addetti ai lavori per le feste che dava a casa, le passeggiate in compagnia degli amici attraverso tutta Londra, i picnic in campagna, la sua passione per la moda (vi immaginereste mai una Virginia Woolf in costume da bagno?), tanto che comparve perfino su Vogue per tre volte. Memore della vita culturale che regnava nella casa dei genitori, frequentata da personalità come Henry James, Virginia e i suoi fratelli mantenevano come valore, negli incontri che organizzavano, la varietà, favorendo uno scambio e una circolazione di idee che fosse paritaria e fertile, che trasbordasse dagli studi universitari e contagiasse ogni campo, dall’etica alla pittura. Non dobbiamo dimenticare che fu uno del gruppo di Bloomsbury, Roger Fry, a organizzare a Londra la prima mostra di quegli artisti che raggruppò sotto il nome di “Post-Impressionisti”: Cézanne, Gauguin, Van Gogh, Derain, Picasso e Matisse. Virginia Woolf stessa fu in contatto, assieme alla sorella Vanessa, con Picasso e fu fotografata in più di un’occasione da Man Ray. Davvero, non dobbiamo pensare a Virginia come a una donna scura e oscurata dalla malattia, chiusa nella sua stanza in preda a qualche attacco, ma a qualcosa di molto più vivo, energico, incandescente e brillante, che certo qualche volta poteva eclissarsi: ancora Nadia Fusini mi soccorre, nella sua introduzione al Meridiano dedicato alla Woolf, chiamandola «Virgo, la stella».

«Rimanevano seduti a parlare fino alle due o alle tre del mattino. La stanza si riempiva di fumo, tazzine di caffè, bicchieri di whisky venivano abbandonati ovunque. […] All’interno del mondo più vasto dei balli e dei pranzi, le due sorelle avevano creato un piccolo mondo di idee e di pensieri condivisi; pensieri e idee che diventavano vita, e la cambiavano. Bloomsbury fu questo: l’invenzione di una vita nuova.»  (Nadia Fusini, Possiedo la mia anima)

"Garsington visitors" by Lady Ottoline Morrell, 1923 © National Portrait Gallery, London Lord David Cecil, Goldsworthy Lowes Dickinson, Leslie Poles Hartley, Philip Edward Morrell, Edward Sackville-West, Lytton Strachey, Julian Ottoline Vinogradoff e Virginia Woolf.

“Garsington visitors” by Lady Ottoline Morrell, 1923
© National Portrait Gallery, London
 (non in un preciso ordine) Lord David Cecil, Goldsworthy Lowes Dickinson, Leslie Poles Hartley, Philip Edward Morrell, Edward Sackville-West, Lytton Strachey, Julian Ottoline Vinogradoff e Virginia Woolf (al centro)

Splendente Clarissa
Mrs Dalloway si svolge in un’unica giornata: da quando il sole è alto nel cielo fino a quando ormai è  tramontato da ore. Durante il giorno, Clarissa si muove per Londra svolgendo tutte le sue piccole attività di donna che sta per dare una festa, godendosi i fiori, i passanti, le architetture. I ricordi fluiscono insieme ai nomi e ai visi, creando piccole costellazioni di cui detiene la lettura e che appaiono svelate durante la festa serale. Insisto sulle fasi del giorno perché, «col suo sorgere e tramontare, [è] come se la luce ripetesse quel ritmo in battere e levare nel quale Virginia sente condurre la danza della vita», come afferma sempre la Fusini nell’introduzione del Meridiano.  Mrs Dalloway è infatti un romanzo giocato sulle coppie oppositive: vita/morte, festa/suicidio, Peter/Richard, Clarissa/Septimus, piccole cose scintillanti/trauma della guerra.
Il rischio dell’opposizione è che non ci sia la sintesi: Clarissa è in grado di fare anche questo, lei è in grado di abbracciare; ma questa è una rivelazione che le arriverà solo alla fine del romanzo. Prima, anche Clarissa soffre, si sente debole, si sente come sfuggirsi tra le dita, oscura a se stessa, divisa e incompleta, eppure prende queste sue parti di io che sembrano cozzare e «soltanto per il mondo così ricomposte intorno a un centro, un diamante, [era finalmente] una donna che, seduta nel suo salotto, costituiva un punto fermo, un centro di luce, non c’è dubbio, per alcune vite, un rifugio in cui ripararsi per i solitari, forse».  Lo sforzo di essere se stessa per gli altri, per dare luce a loro: una missione, vera e propria, che Clarisse compie con gioia perché ama le persone. Gli altri lo sanno, se ne rendono conto: «“E tuttavia„ disse Sally “quando ho saputo della festa di Clarissa, ho sentito che non potevo non venire − dovevo vederla di nuovo„» e, poco dopo, quando finalmente sono tutti al party «non poteva fare a meno di sentire che era lei che faceva accadere tutto questo». Ma in cosa consiste questa forza d’attrazione così potente, quasi ineluttabile? Clarissa ha più di cinquant’anni, non è bella e ha il naso un po’ adunco ma sa cammuffarlo con un grande gusto nel vestire (chi ci ricorda?), non è nemmeno così intelligente, ma il suo potere «era qualcosa dentro, che si irradia dal centro; un calore che spacca le superifici e increspa gli orli». Eccola: una donna che per celebrare la vita organizza una festa mondana, per tenere chi ama e chi conosce presso di sé, perché con lei accettino il mondo e lo vivano, davvero, fino in fondo. Fino all’abbraccio con l’opposto della vita: «Oh! pensò Clarissa, nel bel mezzo della mia festa, ecco la morte, pensò»; fino all’opposto della luce:  «Ora tutta la casa era al buio e tutto continuava, ripeté, e le vennero alla bocca quelle parole, non temere la vampa del sole». Clarissa non teme la luce e non teme la notte, chiama tutto presso di sé perché nel momento in cui le cose, anche le più terribili, anche le più piccole, si congiungono scaturisca l’energia che può irradiare sugli altri.

«”Vengo” disse Peter, ma rimase seduto un altro momento. Che cos’è questo terrore? che cos’è quest’estasi? pensò tra sé. Che cos’è che mi riempie di una tale, straordinaria emozione?
È Clarissa, disse.
Perché, eccola, era lì.»

illustrazione di Catherine Green (X)

illustrazione di Catherine Green (X)

Il calore della signora Ramsay
Il tempo sicuramente migliorerà domani, il vento cambia così spesso, domani il sole brillerà; presto, prendete le candele, otto, prendete otto candele e mettetele sul tavolo perché si faccia un po’ di luce. Due scene di Al faro in cui la signora Ramsay parla di rischiaramento: questo è il suo compito in tutto il romanzo, non brillare sicura come Clarissa ma dissipare le tenebre che gli altri personaggi continuano a far calare. Anche in questo romanzo, infatti, continue coppie sfilano e si contrastano, a volte si complementano: la signora Ramsay/il signor Ramsay, Lily Briscoe/la signora Ramsay/Lily Briscoe, la vita/l’arte, la vita/la morte, la morte/l’esorcismo, l’esorcismo/l’arte. Al centro di tutto questo, lei, la signora Ramsay, mette in atto il vero spirito dei personaggi della Woolf: la loro volontà e capacità di stare «al centro del mondo, e fare mondo intorno a sé, legando e cucendo ogni relazione, con gli altri e con le cose, con un lavoro minuto, costante»².
È durante la cena della sezione La finestra che il lavoro di tessitura (anche Clarissa tesseva, nel suo romanzo) che opera la signora Ramsay ogni giorno: «Ma che ho fatto io della mia vita? pensò la signora Ramsay […] “William, vicino a me” disse. “Lily” ripeté stanca, “laggiù”. […] Charles Tansley − si sieda qui, prego; Augustus Carmichael, lei lì, grazie. […] L’intero sforzo del legare e del fluire e del creare poggiava tutto su di lei […] se quello sforzo non lo faceva lei, non lo avrebbe fatto nessuno». E subito dopo cominciano i pensieri di tutti gli altri personaggi, che si affollano e dominano il resto della cena. Auerbach in Mimesis lo mette bene in chiaro, che noi lettori durante questa (s)cena non conosciamo con esattezza lo stato d’animo della signora Ramsay, ma  «il riflesso di questo su diversi personaggi: sul signor Bankes, […] sulla gente che fa congetture su di lei». Il primo momento condiviso dopo gli affari separati intorno a cui ci si è affacendati per tutto il giorno può diventare un corpo a corpo complicato e rischioso, un gioco di forze maschili in competizione; quindi l’azione materna e pacificatrice portata avanti con caparbietà dalla signora Ramsay, che rispetta tutti, che concede uno sguardo e un sorriso a ciascuno, è indispensabile perché venga alla luce il piccolo miracolo quotidiano dell’armonia.
Il potere di questa armonia è tale che, perfino durante la caotica cena, Lily Briscoe riesce a sentire che il quadro che ha nella mente può giungere alla composizione definitiva: sarà compito della terza sezione del libro dimostrarci la fatica di realizzare poi effettivamente quel quadro. È in questa terza parte che bisognerà fare i conti con l’eclissi del sole, tanto per i personaggi quanto per Virginia stessa, se la signora Ramsay è immagine di sua madre: «La presenza avendo ceduto all’assenza, la scrittura si muoverà in quel vuoto», condensa la Fusini. Chi rimane continua a fare i conti con lei che non c’è più, con il suo fantasma, con la sua immagine dipinta, con il ricordo del calore che continua ad aleggiare sulla pelle: anche nell’assenza, sono perennemente «convergenti su di lei» (Auerbach).

Percival l’ardente

The sea blazed gold. (The Waves)

Come un eroe entra in scena il Percival delle Onde: bello, forte, sicuro, la natura si inchina al suo passaggio. A presentarlo per la prima volta al lettore è Neville, proprio come se stesse introducendo un nuovo attore e lo indicasse mentre avanza sulla scena:
«Ora mi chinerò di lato, come per grattarmi la schiena. Così vedrò Percival. Eccolo lì seduto ben eretto, tra i piccoli. Respira profondamente dal naso dritto. Gli occhi azzurri stranamente inespressivi fissano con pagana indifferenza la colonna di fronte. Potrebbe essere un mirabile uomo di chiesa. Starebbe bene con un frustino in mano per battere i bambini disubbidienti. È parente di quelle frasi latine incise nel bronzo. Non vede nulla: non sente nulla. È lontanissimo da noi, in un universo pagano. Ma ecco – con uno scatto della mano si sfiora la nuca. Per un gesto così, ci si può innamorare tutta la vita. Dalton, Jones, Edgar e Bateman fanno uguale, ma non è la stessa cosa.»
La stessa scena la offre anche Louis, secondo uno schema tipico delle Onde, ma con la sensibilità e l’insofferenza che gli sono caratteristiche e che da subito fanno innescare il confronto ora speculare ora antagonistico con Percival, che intratterrà per tutto il romanzo:

«Eccoli, seguono tutti Percival. È grande e grosso. Cammina senza grazia per il campo in mezzo all’erba alta, fino ai grandi olmi. Ha però, la magnificenza di un condottiero medievale. Una scia di luce sembra cadere sull’erba al suo passaggio. E noi, quasi fossimo un gregge, gli andiamo tutti dietro in schiera, come servi fedeli pronti a morire, perché certamente tenterà una qualche impresa disperata e morirà in battaglia. Il cuore mi si irruvidisce, mi raschia il petto con una lama a due tagli: da una parte, adoro la sua magnificenza; dall’altra, disprezzo i suoi modi trasandati – io che gli sono di tanto superiore – e sono geloso.»

Forse ancora più che i personaggi degli altri due romanzi, quelli delle Onde esistono sì, ma per vivere davvero hanno bisogno degli altri, se non come compagni di vita almeno come testimoni del loro esistere: Rhoda confessa che «sola cado spesso nel nulla», Bernard soffre la solitudine, perché «il mio essere sfolgora solo quando in tutte le sue sfaccettature si espande alla gente. Se non c’è nessuno, non sono più niente, mi disfo come la carta col fuoco […]  per essere me stesso (noto) ho bisogno della luce che viene dagli occhi altrui, e perciò non sono affatto sicuro di chi sono veramente.»
Ma tornando a Percival:  non è d’altronde un caso la natura mondana della sua grande scena  nelle Onde, esattamente come il culmine di Mrs Dalloway si trova nella festa e in Al Faro nella cena. Quando Percival fa il suo ingresso al ristorante, è come se l’occhio di bue (abbiamo parlato di scena e teatro, la Woolf definisce Le onde un play-poem) si dirigesse improvvisamente su di lui, inondandolo di luce e stagliandolo contro il fondale, che rimane indistinto: «“[…] Ma, eccolo”. “Ora, – disse Neville, – il mio albero fiorisce. Il cuore batte più forte. L’oppressione scompare. Ogni impedimento è rimosso. Il regno del caos terminato. Lui riporta l’ordine. I coltelli tagliano”. “Ecco Percival, – disse Jinny, – non si è agghindato”. “Ecco Percival, – disse Bernard, – si liscia i capelli”». Egli, con la sua forza, la sua noncuranza, il suo essere terribilmente se stesso, è in grado, semplicemente entrando in una stanza, di offrire agli altri di nuovo armonia, tenendoli insieme presso di sé: «È Percival,  – disse Louis, – […] è lui a farci capire la falsità di ogni tentativo di dire: “Sono questo, sono quello”, quando, quasi fossimo parti separate di un sol corpo, ci ritroviamo». Facendosi nomoteta, Percival permette a ognuno degli altri sei personaggi di perdere l’identità e semplicemente essere presenti, partecipare, esistere. Brillare. Ma una tale autorità non può passare inosservata e scatena gelosie: ci sembra che sia Neville ad amarlo, ma improvvisamente è Susan la prescelta, Louis non lo può soffrire ma gli si sottopone continuamente – Percival è questo: «il dittatore che è in noi, il segreto padrone che tutti vorremmo»¹.

Il potere di Clarissa Dalloway, della signora Ramsay e di Percival è di fungere da cardine intorno a cui tutti gli altri personaggi possono crearsi, da fonte luminosa per dare agli altri la parvenza di vivere davvero; il loro compito è quello di illuminare la strada appianando le ombre (non cancellandole) e di dare vita, non solo un esempio di vita − nessuno dei personaggi che ammira i tre soli proverà a essere come loro, a mettere in pratica il loro esempio, perché è impossibile, così come il parelio non è il sole. Ma sapranno riconoscere e cogliere il loro dono che questi soli portano, quello di mostrare illuminandola la cosa-così-com’è, «facendo della quotidianità un miracolo di relazioni sensate»².

Bibliografia
Woolf, Virginia   Gita al Faro, trad. di Anna Laura Malagò, NewtonCompton, Roma 2011
Woolf, Virginia   Le onde, trad. di Nadia Fusini, Einaudi, Torino 2002
Woolf, Virginia   Mrs Dalloway, trad. di Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano 2011
¹Fusini, Nadia   Possiedo la mia anima. Il segreto di Virginia Woolf, Mondadori, Milano 2006,
Rampello, Liliana   Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura. Il Saggiatore, Milano 2005
Testa, Enrico   Eroi e Figuranti. Il personaggio nel romanzo, Einaudi, Torino 2009

L’immagine di copertina è opera di Marta Spendowska, illustratrice e designer, a cui appartengono tutti i diritti | verymarta.com

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