Silvina Ocampo. L’opera estetica, metamorfosi del primordiale umano e linguistico

Buenos Aires, Argentina

Buenos Aires, Argentina

Quando penso all’opera di Silvina Ocampo – all’insieme dei suoi racconti e dei suoi romanzi brevi – immagino un sofisticato geranio rosso, i cui petali smaltati rappresentano la delicatezza ossimorica delle storie raccontate da questa scrittrice argentina, tradotta in Italia grazie alla mediazione culturale di Italo Calvino. L’intensità dell’arte dell’autrice richiederebbe molte pagine di approfondimento; prenderò in rassegna, per ora, i tratti di distinzione della sua ispirazione che, innegabilmente, si è concentrata profondamente sui tempi tragici dell’infanzia, sulla crescita sessuale intesa come acuirsi del sentire e del patire, esplosione passionale ma già stanca. Una zona primitiva emotiva e intuitiva che si trasforma sadicamente in impulso mentale distruttivo, in momento di pura aggressione, di pura forza espansiva. Potententemente naturale è l’infanzia ed il suo processo che si manifestano come inevitabilità cosmica, corrente dal soffio etesio, atto vitale che vira in maturanza della germinazione e da cui cade come frutto maturo un individuo che non è più sé o che, forse, per un istante e unicamente quello, è stato assolutamente, impossibilmente, sé, morbosamente sciolto, tremendamente pericoloso, pienamente in pericolo.

I tempi della narrazione di Silvina Ocampo sono spesso legati a tempi corti ma relativamente lunghi, tempi spesso morti come nel corso eterno dell’infanzia, appunto, ce ne sono tanti; in quella fase della vita in cui si è come contenuti nella visceralità della casa, nell’anonimità dei genitori e da lì ancora più dentro a spazi dilatati come un’estate trascorsa al mare, in villeggiatura, quando tutto scorre senza azione per non tornare mai più: questo ci svela il famosissimo ed inquietante Diario di Porfiria Bernal[1].

Il professore spagnolo Ugo Gallo ha definito questa inclinazione come fonte tipica della letteratura e della cultura latino americane, da intendersi quale tracimazione poetica dai picchi lirici dell’essere in potenza, «un fenomeno di pubertà continuo, di vicenda sessuale, un panteismo che trapassa fatale e invitto dalla selva all’uomo, dalla terra all’uomo, quasi fulmineo, e costante»[2]. Questa poetica è effettivamente rintracciabile nello stile di Silvina Ocampo, persino in racconti che non trattano dell’infanzia, ma dell’età adulta: penso al conturbante L’espiazione. Questo racconto breve dal titolo originale Las invitadas, scritto nel 1961, tradotto in italiano da Beniamino Vignola e raccolto nell’Antologia della letteratura fantastica, è una storia d’amore che si consuma nella gelosia e nella scoperta delle radici misteriche degli Indios. La narrazione è affidata agli occhi di una sposa che assiste impotente ad un rito di vendetta che non sarà in grado di capire, mentre prende forma e rispetto al cui svolgimento si troverà spettatrice fuori gioco e poi protagonista scalzata da un inesprimibile dolore. In questo testo, come nell’opera intera di Silvina, brillano come fari elementi di accentuato simbolismo estatico, ritorna la figura tanto cara all’immaginario sudamericano dei canarini e la funzione degli occhi, occhi che osservano e registrano impietosamente ogni emozione per poi trasmetterla al corpo intero.

«Non credo che i nostri occhi possano confondersi. Non sono un ladro di occhi. Le mie lacrime portano la firma delle pupille» (in E così via)

Occhi, organo più sensibile e più esposto, avanguardie di collegamento carnale al mondo, capaci di trasmettere impulsi violenti al cuore e al cervello tanto da poter scatenare il rogo dell’anima, la perdita della ragione, al punto da desiderare la cecità.

«Quando smisi di baciare Antonio e staccai il mio viso dal suo, notai che i canarini erano sul punto di beccare i suoi occhi.» (cit. L’espiazione)

Ancora crudeltà, ancora istinto puro senza freni, educato al buon senso e corrotto dal dolore che porta alla follia. Una crudeltà eroica, intesa come evento progettato, pianificato, curato, in precisione e eccesso, frigido pacatoque animo a partire dal suo contrario simmetrico e speculare, ossia una passione incontenibile che prosciuga ogni empatia. Sempre un impulso legato alla sessualità dunque, ma se nell’infanzia esso si esprime come reazione all’esclusione dal mondo maturo, nelle relazioni d’intimità adulte diventa invece estrema rabbia, impeto che nasce dal terrore incomunicabile di non poter preservare l’esclusività sull’altro.

– Non mi ami abbastanza, – le dicevo. – Talvolta debbo aspettarti.

– Cos’è amare? – mi domandava.

–  Amare è una cosa sempre diversa, – le rispondevo.

– Ma che sapore ha? Che aspetto?

– Sa di miele, di pioggia, di polvere, di fango quando piove. Il suo aspetto è vario, meraviglioso oppure orribile, dipende.

– A che ti servirà?

– A niente.

– Perché vuoi che ti ami, allora?

– Per poterci parlare.

– Non ci parliamo?

– Non facciamo altro.

–  Allora ti amo?

– Certo che mi ami.

 

(cit. Fedeltà in I giorni della notte)

L’ombra oscura della sessualità piuttosto, quel mistero insondabile che fa tremare i nervi e oscura la ragione, quell’impressione atavica legata all’appartenenza ed al territorio, al sangue che può anche essere versato quando esplode l’incontenibile desiderio che tutto resti per sempre com’è, l’incontenibile male nel rischio di perdere tutto. L’ossessione della purezza che porta a macchiarsi.

«Non era uno scherzo quello che sembrava uno scherzo.» (in Il Destino)

Ritengo, inoltre, che il racconto in questione sia emblematico in generale: oltre a mostrare il pathos vibrante e tellurico di cui la scrittura di Silvina Ocampo è capace, esso – anche per la scelta di collocarlo nell’Antologia dei racconti fantastici – permette di smarcare l’interpretazione del genio letterario sudamericano dalla convenzionale etichetta che la critica gli assegna tanto d’ufficio quanto monoliticamente, ossia l’usurato ricorso al concetto di realismo magico. Innanzitutto come ha scritto chiaramente Bruno Arpaia – scrittore e traduttore italiano di Ortega y Gasset – in un elzeviro apparso nel 2011 nell’inserto domenicale de Il Sole 24 Ore, il continente sudamericano non è riducibile a semplice un’unità teorica, ma è estremamente disomogeneo e proprio per questo affascinante: ogni nazione sudamericana è un patrimonio autonomo e diversificato di storia e evoluzione culturale. «Già, il realismo magico: altro enorme abbaglio di noi europei e nordamericani. (…) perché noi ansiosi di situare in un qualunque Altrove le nostre utopie non realizzate, piaceva di più l’immagine di un’America latina esotica, magica, tanto vicina alle origini da confondere mito e storia, l’immagine di un mondo selvaggio e innocente come il primo giorno della creazione. Così abbiamo addomesticato l’alterità, del Nuovo Continente e l’abbiamo trasformato in un mondo di inoffensivi sognatori a spasso tra prodigi, banani e mangrovie».

Queste considerazioni di Arpaia – già anticipate nella prefazione al volume Racconti fantastici del Sudamerica curato da Lucio D’Arcangelo[3] – tengono seriamente in conto la polemica scatenata dallo scrittore messicano Jorge Volpi sul suo blog elboomeran. Volpi contesta, infatti, le semplificazioni accademiche spiegando lucidamente che «il danno provocato dall’interiorizzazione del realismo magico come paradigma unico fu enorme. Primo, perché diventò l’unico strumento per interpretare la realtà latinoamericana; secondo, perché oscurò l’immensa varietà immaginativa della letteratura latinoamericana in generale».

Queste riflessioni che valorizzano il particolarismo identitario e comunitario mi trovano d’accordo, perché la sfumatura che sembra ignorata è, invece, la qualità più affascinante e più caratteristica dell’invenzione creativa di molti scrittori latinoamericani, ossia la fantasia, che è il molteplice irriducibile per eccellenza: quel prezioso mondo parallelo, autonomo e inespugnabile a cui solo pochi sanno come accedere e ancora meno sanno, con le parole, far penetrare al lettore, quell’estraneo che la scrittura invita e ospita.

«Non conoscete la storia del cappello metamorfico? Esistette nel sud dell’Inghilterra, nel 1980. Raccontano che fosse di velluto verde e assai appropriato sia per gli uomini sia per le donne. Una piumetta montata su un anello di madreperla era il suo unico ornamento. Questo cappello apparve per la prima volta nella casa di un signore inglese, alle otto di sera di un mese di marzo. Nessuno riconobbe, né reclamò il cappello. Il giorno dopo, quando lo cercarono per esaminarlo, non era in nessun angolo della casa. Un’altra volta apparve nella casa di un medico, alla stessa ora.» (cit. Il cappello metamorfico)

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Ebbene, Silvina Ocampo ha sì scritto capolavori che contengono elementi di mistero, di magia, folklorici per certi tratti, opere che conservano e rispettano la cultura di tutte le componenti della popolazione latinoamericana ed in particolare, è bene ricordarlo, della società argentina, nondimeno va sottolineato che lo stile è quello proprio al genere fantastico. Nelle trame di Silvina Ocampo è vero che il realismo sembra spandere magia, ma il rapporto è ribaltato, ossia la realtà si mostra insufficiente, cieca, la realtà è un miraggio e una presunzione dell’umanità e dell’intellettualità, perché la realtà semplicemente non esiste. La realtà è una vita che si intreccia ad altre vite, esperienze calate in un tempo ed in uno spazio che non sono solidi o stabili, ma sfere fragili in cui ogni certezza crolla davanti alla constatazione che si tratta di bolle precarie contenute in una materia incontrollabile, un’intelligenza superiore e organica che possiamo chiamare fantasia, non afferrabile, non comprimibile. Nella terza prefazione all’Antologia, datata 1965, Casares scrisse:

«Neanche il racconto fantastico è scalfito dallo sdegno di coloro che reclamano una letteratura più seria, che dia una risposta alle perplessità dell’uomo, – non si fermi qui la mia penna, scriva la parola prestigiosa: – moderno. Difficilmente la risposta significherà una soluzione, che è fuori dalla portata dei romanzieri e narratori; insisterà semmai in commenti, considerazioni, divagazioni, forse comparabili all’ato di ruminare sul tema di attualità: politica ed economia oggi, ieri o domani l’ossessione corrispondente.

A un anelito dell’uomo, meno ossessivo, più stabile lungo la vita e la storia, risponde il racconto fantastico: immarcescibile anelito di sentire racconti; lo soddisfa meglio di qualsiasi altro perché è il racconto dei racconti, quello delle collezioni orientali e antiche, e come diceva Palmerin d’Inghilterra, il frutto d’oro dell’immaginazione.»

racconti argentini

La realtà può essere la somma di frammenti che, poi, inesorabilmente, si affinano in schegge perché non c’è modo di fermare il corso delle storie, le quali ci fanno scoprire che c’è un altrove in cui siamo calati, in cui le realtà stesse sono radicate, sradicate e contenute, senza che nessuna scienza possa proteggerci. Gli squarci non possono essere cicatrizzati, ma solo custoditi nel ricordo, onorevolmente, come ferite che ci corrompono con la vita tutta che è magma, che è imprevedibile, che è un istante. L’istante è una differenza che fa segno. La differenza che fa segno è un istante. Per lasciare quel segno ci può volere una vita o, all’improvviso, siamo costretti a inciderlo mentre cerchiamo di aggrapparci allo strappo. Questo ci è concesso anche se tutto sembra somigliarsi nell’indistinto, come una nebulosa. Il linguaggio è conseguenza del tempo. E allora, il linguaggio lo misura, il tempo.

«Oggi in argentina, nel 1945, è stata scoperta una poesia in una rivista letteraria, attribuita a George Selwyn. Un lasso di tempo così lungo fra la vita di George Selwyn e la poesia pubblicata si rivela incongruo. Nessuno può crederci; per quanti sforzi si facciano non si è potuto spiegare se davvero gli appartenga e chi fosse la donna che lo aveva ispirato. Il linguaggio non si confà a quello dell’epoca, appartiene piuttosto all’epoca preraffaellita. È tanto lungo il tempo, tanto somiglianti i suoi cambiamenti.» (cit. George Selwyn)

Cosa resta di comune negli individui che attraversano le fasi della crescita? Io credo la ricerca della realizzazione del sogno d’amore. Un sogno d’amore fusionale frustrato nell’infanzia – necessariamente -, spasmodicamente bramato in età matura. La funzione pedagogica del sogno d’amore legato all’affettività ed alla sessualità può manifestarsi anche nella dipendenza. La dipendenza d’amore, la dipendenza dalla passione perpetua che è garantita dalla continua distruzione, da quel momento eroico che sta nelle trame di Silvina Ocampo, nel momento in cui tutto è metamorfosi: dall’acerbo al punto di maturazione, poi la morte e la decomposizione che è passiva, a cui non possiamo partecipare volitivamente, coscientemente viviamo solo la caduta di cui non siamo responsabili e che – quando non accettata – attiva una disperazione che è muta e cieca. La perdita insomma di quel momento di bellezza massima che nella vita dura un tempo non eterno ed è fugace ed è relativa ed è irripetibile. Il dolore di non poter ripetere è un’altra ossessione umana che si cristallizza nella nostalgia, come ricordo che tormenta, anche questo è un tema ricorrente del punto di vista narrante nell’opera della Ocampo che solo grazie alla fantasia solleva la propria scrittura dal solco del romanticismo che passa il punto di maturazione nel nichilismo.

Il miraggio di superare distruggendo si presenta come oggetto di studio e dedizione nella poetica di Silvina che affida ai suoi personaggi trame fatali, scacchi che terminano nella disfatta, una disfatta che tenta di rendere senza tempo il lutto, quel tempo della vita che è limbo, anticamera dell’attesa di vederci restituito ciò che non tornerà più, ciò che siamo stati. Allora, sta proprio nell’opportunità del “non essere mai più”, cioè nel privarsi del “poter essere qualcosa d’altro”, che si sublima la promessa di fedeltà a ciò che si è amato e che non si può trattenere. Il dolore, insomma, nell’opera di Silvina Ocampo non si compone, non viene ri-composto, ma servito su un altare, cristallizzato nel gesto di smettere per poter continuare a affermare la fine, come se la negazione diventasse l’unica forma di vero dominio sull’esistente, per difendere un passato che tanto si continua ad abitare senza poterlo materialmente ripercorrere.

«Ho capito che mi sarebbe per sempre sembrato strano non avere l’età che ho» (cit. Lezione di disegno in Un’innocente crudeltà)

Di qui, la funzione della bellezza come potenzialità artistica e creativa in cui traghettare immortalmente ciò che muore; le storie diventano oggetti d’arte nate da momenti resi ferali per poterli afferrare e replicare. La forza traumatica che incide l’interiorità si fa opportunità di farsi statue viventi. Il male provato o inferto diventa il simulacro del “non scordare-scordarsi mai”, del “trattenere”, del “non attraversare”, della trascendenza ultraterrena che può manifestarsi nell’occulto, come nell’invisibile, come nell’inconscio e che viene testimoniato come religioso ossequio, prova di fedeltà, promessa di memoria, un sacramento. Così si sancisce la sacralità della bellezza, spiritualità beghina e icona laica, puramente umanistiche si sposano.

La scrittura di Silvina Ocampo ci permette di intendere la narrazione stessa come opera filosofica mimetica: è osservando che si assorbe spugnosamente il mondo organico interno a noi ed è scrivendo che la parola diventa l’unica fissazione possibile. La scrittura come chiodo che si conficca per togliere il peso al dolore. Fissare un tempo storico che è destinato, per sua natura, a mutare e ad inghiottire quella che crediamo essere una costante. Questa variabilità inaddomesticabile permette di contenere tutte le differenze. Le differenze sono un elemento naturale fondamentale affinché la dinamica amorosa accenda la vita. Le differenze, anzi, oserei dire la benedizione dell’alterità, si esprime nel linguaggio come unica via praticabile per poter amare e per poter continuare a farlo, soprattutto per potersi riconoscere nello scarto che provoca l’attrito dall’ “altro da sé”. Un riflesso.

ocampos

Mi diede il nastro con cui tentai di legarle i capelli. Chiese: «L’influenza era buona o cattiva?»

«Buona… e cattiva. E quella che ho avuto su di te?»

«Cattiva… e buona.»

Sentivo che il buona lo aggiungeva per bontà. Proseguì:

«Tutto quello che hai imparato te l’ho insegnato io.»

«Non sei modesta, lo confesso. Ma hai proprio ragione! Posso amarti. Non posso amarmi.»

«Io non ho mai potuto amarti. Non sapevo com’eri.»

(cit. Lezione di disegno)

«Si allontanò come un essere umano si allontana da un fantasma, tentando di non essere vista. Sfumò come un disegno, ma intuii che sarebbe apparsa di nuovo come una decalcomania appiccicata alla notte, che sarebbe sempre stata lì, come le cose che si perdono e che ci restano accanto, non viste.»

 

Silvina Ocampo è una scrittrice, ma la sua ascendenza d’avanguardia sta nel fatto che ha trattato la letteratura e la sua lingua madre – lo spagnolo – come un’artista plastica. Silvina Ocampo, benché poliglotta e traduttrice, conoscitrice sopraffina della letteratura europea, scrisse sempre e solo in spagnolo, ritenendo lo spagnolo parlato nel Sud America l’idioma più fluido e flessibile e ricco esistente, divino per eccellenza. La lingua fu dunque un vero e proprio materiale letterario per lei, con esso costruì architetture di linguaggio. Pensiero, anima, fantasia, parola, visione, compassione e libertà si sono fusi nella bellezza. La sua scrittura è un’esperienza estetica. Silvina Ocampo è un’artista che ha lavorato con la vita e poi con la scrittura metonimica e ha plasmato linguisticamente l’opera d’arte del racconto come un ricamo di macramé che è artigianato, arte, trama, manualità, ispirazione, eleganza, purezza, vuoti e pieni, fili, equilibrio, armonia ed estremo talento.

«Leonora doveva stirare una camicia nuova, doveva aggiustare i fiori di carta nel vaso che era nella sua stanza su di una tovaglia di macramé» (cit. da Speranza a Flores in Viaggio dimenticato)

La complessità della bellezza chimica che trasforma il pesante in leggero, il solido in liquido, il corporeo in incorporeo. Quell’istante che va in frantumi e che lascia la sua essenza. Fantasmi. Sabbia di una clessidra. L’atmosfera e il monumento.

Laura Testoni


[1] Lucio D’Arcangelo, Racconti fantastici argentini, Milano, 1997

[2] Ugo Gallo, Storia della letteratura Ispano-Americana, Milano, 1954

[3] Lucio D’Arcangelo, Racconti fantastici del Sudamerica, Milano, 1999

Testi letti e consultati

Silvina Ocampo, Un’innocente crudeltà, Roma, 2010

Silvina Ocampo, E così via, Torino, 1989

Silvina Ocampo, Viaggio dimenticato, Roma, 1989

Silvina Ocampo, I giorni della notte, Torino, 1976

Borges, Ocampo, Bioy Casares, Antologia della letteratura fantastica, Roma, 1997

Ernesto Sábato, Approssimazioni alla letteratura del nostro tempo. Borges, Sartre, Robbe Grillet, Roma, 1974

[Tres aproximaciones a la literatura de nuestro tiempo. Robbe-Grillet, Borges, Sartre, 1974]

Hubert Herring, Storia dell’America Latina, Milano, 1971

Mario Di Punto Rosa Rossi, La letteratura spagnola dal Settecento a oggi, Milano, 1974

C. Samonà e G. Mancini, F. Guazzelli, A. Martinengo, La letteratura spagnola e i secoli d’oro, Milano, 1973

 Approfondimenti

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