Anni luce – Se per gli anni Novanta proviamo nostalgia…

Sono nata negli anni Novanta e li ho vissuti da bambina eppure negli ultimi anni ho notato una nostalgia che si è estesa a macchia d’olio: un ritorno dei vecchi programmi televisivi, reunion di band come le Spice Girls, articoli in cui ci si ricorda dei film, dei cartoni animati, addirittura dei giocattoli che hanno segnato gli anni Novanta, come se fosse stato un decennio d’oro, di quelli che mancano a tutti (magari politica a parte). Sono nata negli anni Novanta quando il protagonista di Anni luce di Andrea Pomella, edito da add editore, ne aveva venti. Allora lui sì che li ha vissuti gli anni Novanta e per tutto il romanzo l’autore trasporta il lettore tra le strade di Roma, dal centro alla periferia fino ad arrivare alla Sapienza e racconta com’è stato vivere in quegli anni di spaesamento, di ricerca di se stessi, di rivolte cominciate e mai portate a termine, tentativi di rivoluzioni discendenti del disambientamento tra anni Settanta e Ottanta. Eppure, sembra che il disambientamento che tanto attanagliava gli studenti bolognesi di cui ci parla Gianni Celati in Alice disambientata ritorni prepotentemente nel narratore di Anni luce e in Q, un amico che non sente da circa vent’anni. E, poi, Q ritorna, silenziosamente. Commenta una recensione musicale del protagonista e gli dice «Ti seguo, scrivi di più. Sono un tuo lettore. A presto.» e la storia comincia.

Il protagonista di Anni luce ha vent’anni, studia Lettere alla Sapienza e non si riconosce nei suoi coetanei, è un sognatore che scopre Roma camminando e che legge gli autori della beat generation: «credevo che non anni-luce_WEBpotesse esserci niente di più sano che scegliere di allontanarsi dalla civiltà, dalle corruzioni del mondo, dai patimenti della retta via. Non mi interessava il denaro, non mi interessava avere un lavoro, farmi una famiglia, costruirmi una posizione sociale. Tutto ciò che desideravo si trovava nei libri e nella strada. Ero cresciuto in periferia, e l’unico modo che conoscevo per godere di Roma, del suo centro, delle sue fontane gongolanti e delle sue piazze flemmatiche, era vagare come un mendicante, passando ore seduto su un marciapiede a sfottere i turisti o a leggere le poesie beat, senza sentirmi in colpa di nulla, cullato solo dalla mesta, inquieta felicità della gioventù.»

Al centro di tutto ci sono i Pearl Jam, gruppo grunge degli anni Novanta. Il protagonista li scopre, li ascolta, suona le loro canzoni con Q, personaggio misterioso e silenzioso con cui il narratore diventa amico perché negli occhi di Q si riconosce e comprende che i loro pensieri sono sulla stessa lunghezza d’onda.

Credo che questa malinconia, questo rimpianto per le vite degli altri, per epoche della storia mai vissute, sia un aspetto della malattia di cui allora soffrivo, e di cui continuo in buona parte a soffrire ancora oggi. È una malattia che nelle sue varie manifestazioni e concatenazioni impedisce di godere del presente, tanto più di eludere il futuro e le sue possibilità. A pensarci bene si tratta di una grande rovina, una delle più grandi che possano toccare un uomo. Io ne ero contagiato e, come dicevo, penso di non esserne ancora del tutto immune. Soprattutto scartavo con decisione i fenomeni contemporanei, e guardavo con sospetto alle novità del presente. Ecco, con i Pearl Jam – e con il grunge in generale – feci un’eccezione.

Sullo sfondo c’è la musica come rifugio e come sfogo, ma non solo. C’è la ricerca del divertimento, sono gli anni in cui gli acidi scavalcano l’eroina, sono gli anni in cui «i giovani nichilisti che si muovono negli ambienti metropolitani underground scoprono i prodigi del viaggio». Sono gli anni della ricerca dell’ubriachezza, del vino scadente e delle serate passate nei parchi con gente sconosciuta. Pomella descrive accuratamente tutte queste situazioni e il suo protagonista, proprio una sera, si accorge che i vagabondi, le persone che dormono nei parchi di notte con accanto una bottiglia di vino scadente, non sono poi così diversi dai vecchi che si trovano alle poste. Parlano degli stessi argomenti sterili e il protagonista sa di non essere come loro, così come lo sa Q, l’unico con cui riesce a parlare, nonostante gli interminabili silenzi che intercorrono fra loro. Q è il fratello che il protagonista non ha mai avuto, così diversi eppure così simili al tempo stesso.

Andavamo in cerca degli angoli di città più squallidi e sotterranei in cui rintanarci e godevamo nel constatare quanto poco del raggiante edonismo degli anni Ottanta fosse sopravvissuto. Anni, quelli, in cui ero passato dall’infanzia alla giovinezza, in cui avevo visto la mia famiglia disgregarsi, in cui avevo patito a causa di privazioni materiali e affettive, e che avevano piantato in me le radici della cupezza e dell’oscurità. Grazie al grunge tutto ciò che accadeva intorno alle nostre vite trovava un terreno disposto ad accoglierlo, delle sensibilità in grado di condensarlo, e un bisogno capace di restituirlo.

Un senso di vuoto aleggia intorno a Roma, si sprigiona dentro la gente che Q e il protagonista frequentano. Forse è per questo che scappano, programmano un Interrail per l’Europa, convinti di essere diversi dalAndrea_02 resto del mondo. Ma alla fine incappano anche loro in quel senso di smarrimento che caratterizza i loro coetanei, come quando decidono di tornare in giornata a Roma solo per comprare del whisky. Allo stesso tempo, però, vedono volti nuovi, conoscono gente, respirano l’aria delle stazioni e degli ostelli, suonano raccogliendo qualche moneta che gli serve per comprare del cibo. Il viaggio è scoperta di sé, lo sguardo di due giovani che attraversano l’Europa per vivere il presente e non pensare a nient’altro.

Assecondando un’antica e feroce legge di natura, sembrava che tutta la fame e la miseria del mondo ci stessero assalendo per divorare i nostri resti. Rientrammo in Italia all’alba del giorno seguente, il mare della Liguria brillava terso, il cielo color lapislazzulo era un enorme accumulo di luce, la luce che avevamo dimenticato in quelle ultime settimane trascorse sotto le coltri nuvolose dell’Europa del nord. Non riuscivamo a pensare a cosa sarebbe successo dopo. Sapevamo di aver scoperto il nostro luogo ideale. Non era una città o una terra. Era un movimento, un andare. Sul taccuino che tenni durante quel viaggio avevo segnato ogni tappa: avevamo percorso undicimilatrecento chilometri, la distanza che c’è tra Roma e Tokyo, o tra Roma e New Orleans. Un quarto della circonferenza che corre intorno al mondo.

Attraverso una prosa asciutta e densa, Pomella riporta il lettore negli anni Novanta, gli fa rivivere gli anni dei Pearl Jam e dei Nirvana, racconta di un’epoca in cui per parlare con qualcuno ti dovevi trovare da qualche parte: non c’erano gli smartphone, non c’era internet, ma in compenso c’erano i bar, le panchine le feste a cui imbucarsi. «Gli anni Novanta sono stati nichilismo, rifiuto, autodistruzione, oscurità, ipnosi. Se dovessi dire che sono stati anni bellissimi è solo perché hanno coinciso con i miei vent’anni. Gli anni Novanta non sono una categoria temporale, non si possono cioè rinchiudere entro due termini cronologici, 1990-1999, ma forse rappresentano qualcosa che va oltre.»

Ma è la figura di Q il vero protagonista ed è la sua mancanza a far parlare il narratore e a rendere la sua voce malinconica, non si sa se sia per i tempi andati o per l’amicizia interrotta. Le parole trasportano indietro nel tempo, è un rimpianto o un rimorso avere vissuto gli anni Novanta? E mentre ci si pensa, si corre a cercare una playlist dei Pearl Jam e magari anche Q.

Forse abbiamo fatto semplicemente un pezzo di cammino insieme, ci siamo trovati nello stesso posto e nello stesso tempo, un tempo in cui le strade notturne riecheggiavano delle nostre voci e delle nostre chitarre, e i giorni e le notti trascorrevano nella malinconia giovanile e nello sprezzo della morte. O forse, nel nostro piatto della bilancia, non avevamo posto la giusta quantità di granelli di torto.

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