Ma cosa aspetta? Tropismi

Chiunque conosca e ammiri l’eccellenza di Nathalie Sarraute si domanda, Ma dove è finita Nathalie in Italia?

La si ricorda poco, la si “insegna” ancora meno, a volte passa inosservata, mentre si tratta della personalità che ha cambiato il volto della letteratura novecentesca e contemporanea. Allora riscopriamo la cifra della sua poetica che fa tutt’uno con una parola chiave, quella parola che Sarraute ha messo al centro della scena della scrittura: tropismi, ossia moti, movimenti naturali e spontanei che sono la fonte segreta della nostra esistenza, foce delle nostre azioni, delle nostre scelte, fatali omissioni o misteriose attese. Il magma della coscienza che ci anima singolarmente, individualmente, flussi di energia dalla carica elettrica determinante.

La scrittura di Nathalie – fluida, labile – tenta di captare tali formicolii, fourmillements segreti e interni, il nostro sottofondo: una specie di sotto-conversazione di cui non ci rendiamo conto ma in cui siamo immensi, uno stato atmosferico psichico che scava, che sta dietro e sul fondo – con i suoi antagonismi e le sue ambiguità – dirompendo nei dialoghi umani, nessuno escluso, comprese le conversazioni in apparenza banali, insignificanti, innocue, in apparenza tali, appunto. La forma tradizionale del dialogo – la punteggiatura, trattini, virgolette, i punti di sospensione – troppo strutturata salta, scoppia così come esplodono i personaggi che crollano e si dissolvono e si inabissano nelle forme impersonali e vaghe del pronome “lui” e “lei”. Non solo terza persona, piuttosto: i tropismi come la scrittura sono androgini, oltre ogni tipizzazione.

Tropismes. Questo libro – piccola raccolta di racconti brevi, di attimi – nella sua riedizione – aumentata – del 1957 giustappone 24 testi di cui i protagonisti – agenti piuttsto – sono designati dai pronomi personali della terza persona singolare e plurale. Una folla che si pressa davanti a delle vetrine; un uomo torturato dalle banalità del linguaggio; nel quartiere del Pantheon dei personaggi solitari senza ricordi senza avvenire felice; uno strano balletto verbale crudele e ludico tra un uomo e una donna; una donna paralizzata nell’attesa di qualcosa; una donna imperiosa che parla e soffre di sentirsi giudicata da un uomo che non parla; un nonno a passeggio col nipote; un uomo che parla a una donna perché sia lei a non parlare; delle donne in una sala da thé; una donna assettata di intellettualismo; un professore razionalista del Collegio di Francia; delle donne indaffarate a fermare un pezzo di stoffa; una donna sensibile e credente che si attira l’asprezza dei conoscenti; una ragazza infastidita dalle inezie di un vecchio uomo che ammira; una vecchia coppia; una giovane coppia che passeggia con il figlio; la quiete di un cottage inglese; un debole che viene malmenato e che si lascia fare; un uomo rassicurato e soffocato dalle donne che lo circondano dalla sua infanzia; una donna troppo troppo saggia attraversata dal desiderio improvviso di fuggire e shoccare; un uomo che nega di essere attirato dagli oggetti; una donna che nonostante tutto raggiunge il cerchio familiare che disprezza; un uomo spiato.

«Rimaneva là, sempre raggomitolata, senza fare niente. La minima azione, come andare in bagno a lavarsi le mani, aprire l’acqua del rubinetto e farla scorrere, sembrava una provocazione, un salto brusco nel vuoto, un atto pieno di audacia. (…) Tutt’al più si poteva, stando attenti a non svegliare nessuno, sccendere senza guardare la scala scura e morta, e avanzare modestamente lungo i marciapiedi, di fianco ai muri, giusto per respirare un po’, per mettersi un po’ in movimento, senza sapere dove si va, senza desiderare di andare da nessuna parte, e poi tornare a casa, sedersi sul bordo del letto e di nuovo aspettare, ripiegarsi, immobili.» (Tropismi, V)

Ma cosa aspetta? Un segno, un impulso, un segnale, una convinzione, il buon momento. E Sarraute ha detto tutto. Ha detto tutto di una società e dei suoi affetti, della borghesia – ma anche di altre classi sociali – come dell’individuo singolo, una entità che non può essere conosciuta se non a partire dalle relazioni che intrattiene – per forza o per volontà – con gli altri, con chi gli sta intorno. Al momento della pubblicazione l’opera è passata quasi inosservata.

Di origine russa, trapiantata in Francia, avvocato, Nathalie Sarraute inizia nel 1932 una serie di testi brevi ultimati nel 1937 che compaiono in volume due anni dopo, accolti da un’indifferenza generale. Tropismi – preso in prestito dal vocabolario della biologia – è un termine che designa, negli organismi vegetali e animali, delle reazioni d’orientamento o locomozione causati da degli agenti fisici o chimici. Si tratta di seguire le “sensazioni allo stato nascente” e cercare di ricreare “sotto una forma condensata” questi movimenti essenziali nella misura della loro impercettibilità, poiché essi sono il lampo, la scintilla che si accende all’origine dei nostri comportamenti. Sono dei “drammi microscopici (…) sempre interni, nascosti, non si può che indovinarli attraverso la superficie a partire delle nostri conversazioni e azioni, delle azioni del tutto banali” che l’autrice illustra nello sforzo concomitante di tirarvi fuori una realtà tangibile.

D’emblée il tono è assegnato: dietro ai cliché del chiacchiericcio quotidiano, i luoghi comuni delle convenzioni sociali, i conformismi delle maniere, i ruoli stereotipati che ciascuno gioca e veste appena si è in presenza di qualcun altro. In quel momento preciso – catturato – Nathalie svela – letteralmente, toglie il velo da – l’universo della sotto-conversazione che è in atto simultaneamente, perché questo strato in ombra è il luogo autentico, dove risiedono le passioni e le complessità dell’ essere vero.

Il momento prima o senza – il filtro. Sarraute continua a seguire delle cause giuridiche fino alla fine del 1940, quando fu radiata dall’Ordine degli Avvocati di Parigi in ragione dell’applicazione delle leggi anti-ebraiche di Vichy. Incoraggiata dal marito, altrettanto appassionato di letteratura, Nathalie abbandona definitivamente il diritto e inizia – nel 1942 – la redazione del suo primo romanzo Ritratto di uno sconosciuto che non avrà alcuna risonanza al momento della sua pubblicazione nel 1948, ciò nonostante il concorso di Sartre autore della prefazione; ivi affermò: “visione protoplasmatica dell’universo” in cui delle fughe di coscienza vanno a tentoni sui brandelli di un reale tentacolare che segue sempre questi stessi “movimenti segreti, questi sentimenti allo stato nascente che non portano nessun nome e formano la trama dei nostri rapporti con gli altri e ogni istante.”

La stessa fredda accoglienza toccò al romanzo  Martereau (1953), fatta eccezione per l’interesse suscitato in qualche iniziato sensibile a un’opera così platealmente novatrice tanto da porsi volontariamente a monte dell’osservazione psicologica; viene in questo modo sorpassato il caratteristico genere del romanzo tradizionale. Dopo l’opera di Sarraute, le grandi classiche orchestrazioni romanzesche possono essere relegate al rango di epifenomeni.

Di discendenza dostojeskiana, i personaggi di Sarraute non sono degli ideal-tipi, bensì “portatori di stati ancora inesplorati“. Strati. Dal 1947 al 1956, Sarraute pubblica anche una serie di articoli critica in Les Temps Modernes che insieme alla redazione dell’opera L’era del sospetto attirano l’attenzione di Butor e di Robbe-Grillet. Si cerca di cogliere l’elemento psichico allo stato puro in quegli anni, e in quel momento Sarraute pubblica l’edizione rivista e aumentata di Tropismi, raccolta definitiva che Claude Mauriac segnalerà come un appel al Nuovo Realismo.

La coincidenza della contemporanea pubblicazione di La gelosia di Robbe-Grillet fa sì che Émile Henriot consacri questi due autori – in un articolo comparso su Le Monde – ascrivendoli nella costellazione del Nouveau Roman: loro, i fondatori e gli ispiratori della rivoluzione nelle Lettere. In effetti, si apre il periodo dell’effervescenza letteraria e L’era del sospetto sarà un vero e proprio manifesto. E sarà sempre un fatto di dare la caccia ai tropismi, di stanarli, di stenderli su una pagina, di esserci quando partono, di riconoscerli in mezzo al resto, di vederli prima che si dissolvano, dall’indagine sui tropismi nasce il Nuovo Romanzo.

Balzac, Zola e Tolstoj hanno fanno la storia, ma anche il loro tempo. Il romanziere come come il lettore entrano in una nuova fase. Nessuno dei due sa più niente: dubitano di tutto e si inquietano. Il tempo delle certezze epistemologiche e romanzesche è compiuto, sorpassato. Infatti, mentre alla fine del secolo precedente il positivismo trionfante pretendeva di conoscere per sempre le leggi dell’universo, il XX secolo in generale e il Secondo Dopo Guerra in particolare segnano l’epoca della messa in questione ed il problematizzare più angosciato sull’angoscioso significato di Mondo.

Si scopre non solo che tutta apparenza non è che il compimento di un processo oscuro, ma soprattutto si rileva che esso sfugge alla cognizione perché non identificabile nella sua completezza, per la sua velocità e per la sua molteplicità. Resistendo alle teorie esaustive e generaliste, compatte dei valori prestabiliti Sarraute è ben consapevole che si tratta di conformismi inestirpabili, permanenti e li sintetizza bene il cielo artificiale del Planetarium (1959). Tutte le “verità censorie” sono altrettante illusioni dietro le quali gronda il vero mondo, fantasmagorico di cui la materia è fatta, tropismi: pizzicori, nulla più che grattements apparentemente insignificanti e indecifrabili e che non possibile catturare; scosse che sfuggono alla comprensione e lasciano delle lacune nelle definizioni e tra le nozioni ricevute. Vuoti attraversati da lampi.

Le solide “poltrone di cuoio” inutilizzabili simboleggiano bene questo quotidiano falsamente rassicurante che versa nell’opacità della mareggiata al minimo impulso emesso dalle reti intermittenti della vita psicologica, nella moltitudine dell’infra-cosciente e del subliminale. “I più infimi drammi reali” ricordano un disordine fondamentale istintivo totalmente estraneo all’ordine che pretendono di instaurare gli argomenti di autorità “di una intelligentsia intrisa d’orgoglio”, affermerà Sarraute in I frutti d’oro d’oro del 1963.

Più che mai la satira dell’arrivismo sociale diventa strumento di demistificazione. Come? Sempre grazie alla chiave di lettura dei tropismi: continuando a esplorare questa sostanza fluida che circola in tutti, passa dagli uni agli altri, “sormonta delle barriere e delle frontiere arbitrariamente tracciate”, l’esame delle interazioni tra l’individuale e il collettivo si lega a una riflessione sul senso e la possibilità stessa della scrittura che rifiuta la teorizzazione formalista.

A partire da Tra la vita e la morte del 1968 l’ispirazione di Sarraute, si allontana progressivamente dall’eredità prosutiana molto presente nei suoi primi testi narrativi. Secondo Nathalie, anche Proust aveva trattato i tropismi. In L’essere del sospetto, scrive: «L’opera di Proust ci mostra (…) come questi stati (bisognerebbe dire movimenti) complessi e sottili – che nella sua ricerca ha ansia di captare attraverso tutti i suoi eroi -, come queste infime screziature sono ciò che sussiste di più prezioso e di più solido, mentre gli involucri forse un po’ troppo spessi di Swann, Odette, Oriane de Gurmantes o anche i Verdurin prendono già il cammino verso questo vasto Museo Grévin in cui sono relegati presto o tardi tutti i tipi letterari.»

Nel rinnovamento della scrittura, dal punto di vista sintattico e stilistico la frase ampia cede il posto a una sintassi dal ritmo sincopato inframmezzato da numerosi silenzi. I punti di sospensionne, caratteristici dello scrittore marcano allora una figura di reticenza che lega il lettore ingiunto a decifrare l’implicito e il non detto, l’inespresso che fa significato. Il linguaggio è in scacco ed entra in stallo nella ripetizione insistente del monologo interiore, l’opera cerca una via d’uscita nel dialogo.

Ora, va detto che il conflitto fra le generazioni può rendere impossibile questo scambio – è il caso di Li sentite del 1972 – a meno che non si svolga sul mondo della sordità, un teatro sul quale ciascuno resto trincerato dietro l’immagine che vuole dare di sé. L’auoinganno e l’autoconvincimento. Quando spesso siamo noi stessi a – sentirci obbligati di – imporci il lavaggio del cervello.

«Che cosa mi è successo? Di nuovo una delle mie crisi? Può essere che io abbia emesso questi gemiti, questi gridolini impudichi, indecenti, ridicoli… Ne arrossisco… (…) io che non sono niente … Attenzione qui: pericolo… Io non sono niente.  Soprattutto non devo dire queste cose. “Niente” può portarmi di nuovo… No. Sono… ecco, ci riesco… Mi ritrovo… grazie a lui… Io non sono lui… Non lui?… No. Non lui. Ritrovo piano piano il mio equilibrio. Non ho scritto queste lettere. Non ho tenuto questo libro contabile. (…)» (Dicono gli imbecilli del 1976)

Autrice di brani radiofonici, dai titoli evocatori (Il Silenzio, La menzogna 1966) Sarraute sperimenta i malintesi de la comunicazione nel teatro più elaborato. Dà forma moderna al classicismo latino del qui pro quo, per un sì o per un no, per un tono di voce frainteso, per una paura, per poco o niente – che può significare tanto quando è interpretato al contrario – un dramma può scatenarsi.

sarraute-n1Il potere del linguaggio, la violenza delle parole, i malintesi del non ascoltarsi. Scambiare parole senza cercare di comunicare, o non comunicare con gli stessi presupposti, o le emozioni che imbrogliano, i fantasmi che ci infestano. Questa è la doppia qualità delle parole: ambigue esse possono essere portatrici di caos o essere, invece, rivelatrici.

Anche qui, tropismi declinati che sfociano nel linguaggio, nella lingua corrente: la corrente linguistica non trasmissibile che tra due poli distinti, se non addirittura opposti diventa coro di voci contraddittorie che scrivono – ora insieme ora una contro l’altra – il racconto autobiografico Infanzia (1983). Tropismi ribaltati: all’opposto di voci contraddittorie, il dialogo filosofico e polifonico di Tu non mi ami (1989) arriva alo stesso risultato, ovvero la scissione del soggetto e l’impossibilità della pienezza. Infine, il dramma interno a L’uso delle parole (1980) dove le parole, sconnesse da referente, diventano portatrici autonome della fiction romanzesca.

«Andando a tentoni, cercando, ma cosa? Non ne sa molto, non ne sa niente. Non ha nome…» (Tra la vita e la morte)

Sarraute ha scelto la parola riveltrice. Scegliendo tropismi ha detto tutto su ciò che non ci spieghiamo, su ciò che ci ha preceduti, su ciò che che ci condiziona, su ciò che non dobbiamo per forza capire, su ciò che viviamo. Si svela e si è consapevoli, ma intanto la coscienza si rivela ed è al riparo da sguardi indiscreti che i tropismi lavorano nuovi stimoli per portare alla luce un altro orizzonte, la sintesi del percorso fatto per arrivare sulla soglia di quel nuovo, di ciò che non si conosce. Ma… non confondiamo vita e letteratura!

Simone Benmussa: Tu mi hai detto un giorno che qualcuno ti aveva fatto appunto notare che si sentiva paralizzato davanti a te perché le cause di questi tropismi sono le piccole frasi anodine, o dei gesti della vita di tutti i giorni. Il fatto di mettere sotto la lente di ingrandimento e di esaminare da molto vicino, anche senza giudizio morale, non ha in sé qualcosa di impudico che può fare paura?

Nathalie S.: Sì, può essere molto possibile.

S.B.: Mentre tu non sei per niente così nella vita. Tu ti servi degli elementi di osservazione così precisi solo quando scrivi, ma in molti non lo sanno.

naticaricaturaNathalie S.: Sono le persone che confondono la vita con la letteratura. Tra la vita quotidiana e la letteratura (…) c’è un immenso abisso. Non si potrebbe vivere in mezzo ai miei libri, né di tropismi. Non si potrebbe vivere sotto il microscopio e al rallentatore. Si diventerebbe pazzi. Non ci sarebbe più vita sociale né comunicazione possibili, né azioni.

S.B.: Sarebbe l’invivibile. I tuoi libri pongono delle situazioni d’esperienza. Si tratta di “reale” ma non di realtà sociale quotidiana. Piuttosto, è come se si prendesse una goccia d’acqua su di un vetrino da laboratorio per analizzarla. Si tratta sempre di acqua reale, ma capiamo la differenza.

Nathalie S.: E si tratta di acqua che non ha niente a che fare con l’acqua che beviamo tutti i giorni. Nel mio caso, i tropismi mi seguono. Quando cerco. Quando, ad un certo punto, una frase mi sovviene e quando cerco di fare intorno ad essa una costruzione immaginaria. Per esempio, quando qualcuno vi dice improvvisamente: “Non parlatemi di questo!” L’ho sentita spesso questa frase. Sono stata shoccata sul momento, colpita, ma non più di qualcun altro. Solo dopo del tempo, quando cerco qualcosa attorno a cui i tropismi potrebbero organizzarsi, un perno, ecco è in quel momento che la frase mi ritorna alla mente: “Non parlatemi di questo!” Ah, guarda –  è divertente, mi dico! Credo che ci sia qualcosa attorno a cui potrei fare una costruzione.

S.B.: Se intorno ad una frase come – “Ah! Non parlatemi di questo!”  – tu puoi costruire tutta una architettura di tropismi, forse è perché tu li percepisci in modo particolare.

Nathalie S.: Sicuramente. Ma voglio dire che, quando si dice davanti a me una frase di quel genere, non reagisco diversamente dagli altri che la ascoltano. Sul momento passa, scivola via. E dopo un lungo lavoro, dopo molte ricerche mi dico: “Vorrei costruire qualcosa. Ma attorno a cosa? Quale frase?” E mi torna in mente improvvisamente: “Guarda! C’è qualcosa che si disegna di interessante.” Ma nella vita quotidiana reagisco esattamente come chiunque altro e ti assicuro che reagisco anche meno intensamente di altri. Qualcuno mi ha detto: “Lei ha una pelle d’elefante per quel che riguarda le critiche!”. Ho risposto: “E per fortuna, se non l’avessi, non avrei potuto continuare a scrivere.”*

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Per una biografia essenziale consultare il sito delle Edizioni de Minuit.

*Simone Benmussa, Entretiens avec Nathalie Sarraute, éditions Paroles d’Aube, La Renaissance du Livre, Paris, 2002

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