la vita perfetta di william sidis recensione

Ambizione anonimato: La vita perfetta di William Sidis

Morten Brask, giornalista e scrittore danese, è conosciuto in Italia per il suo debutto letterario La vita perfetta di William Sidis, pubblicato nel 2014 da Iperborea. Quest’anno la casa editrice ha deciso di riportare il titolo nelle librerie con una seconda edizione – senz’altro perché le storie dei personaggi geniali ci interessano. Siate sinceri: chi è che non pensa, nel proprio intimo, di avere un’eccezionalità inascoltata?

La vita perfetta di William Sidis è la storia romanzata di una delle persone più intelligenti che si crede siano mai esistite, un matematico e linguista vissuto negli Stati Uniti nella prima metà del Novecento. Ma se la sua vita davvero fosse stata perfetta adesso lo conosceremmo come conosciamo Newton e Einstein, e di libri su di lui ne sarebbero stati scritti così tanti che Brask avrebbe dovuto scegliere un altro personaggio per la sua storia.

I capitoli del libro non sono legati fra loro dalla scansione cronologica: Brask accosta una di seguito all’altra scene separate da anni, come se spargesse sul tavolo tante fotografie di William per cercare di cogliere il senso di un’esistenza, rintracciare il punto preciso in cui questa perfezione si è incrinata.

A dieci anni lo troviamo a giocare con la neve, mentre il padre lo rimprovera: la conferenza alla Harvard Matematica Society sta per iniziare, rischiano di fare tardi. Le più grandi menti matematiche di tutta America sono lì per verificare con i loro stessi occhi la notizia in prima pagina sui giornali. Dentro la sala, William è oppresso da tutte quelle voci grandi che pronunciano incredule il suo nome. Se fosse per lui tornerebbe a giocare con la neve, ma il padre gli ricorda che è il momento e allora sale sul palco. A William viene da ridere: visti da lassù quei professori sono proprio ridicoli. Sa però che il padre si arrabbierebbe; quindi si volta, cerca un gesso ed espone alla lavagna la sua teoria sulla quarta dimensione. Non è questo ciò che la sala si aspetta da lui?

Chiunque conosca William lo definisce con un unico, certo, aggettivo: intelligente. I genitori, Boris e Sarah Sidis, raccontano che a un anno conosceva l’inglese, a quattro imparò da solo greco e latino, a cinque scrisse il suo primo libro, un trattato di anatomia. Quando i giornalisti li intervistano i genitori rispondono però che il figlio non è un genio ma, al contrario, un bambino come tutti. La sua curiosità insaziabile e le sue doti eccezionali sono il frutto di un’educazione oculata, pensata apposta per sviluppare pienamente ogni capacità intellettiva.

I genitori di tutto il mondo accorrono in aiuto dei figli per qualsiasi cosa: li imboccano, li vestono, li puliscono. Come se non bastasse, parlano loro in falsetto e con frasi illogiche. Boris Sidis, forte dei suoi studi in medicina e psicologia, è convinto che i primi anni d’età siano fondamentali per lo sviluppo intellettivo e che non possano essere sprecati trattando il bambino come un incapace. Lui e la moglie Sarah si rivolgono al figlio con linguaggio adulto, gli impediscono i giochi futili e mai si sognerebbero di semplificargli la vita, a costo di fargli rompere tutte le tazze e i bicchieri che hanno in cucina.

A undici anni troviamo William al primo giorno di università. Davanti alla facoltà di Harvard, il padre risponde ai giornalisti e sorride fiero ai fotografi. L’attenzione di William, invece, è su un gruppo di futuri compagni che lo guardano dall’angolo opposto del cortile. Sghignazzano e bisbigliano parole l’uno nell’orecchio dell’altro. Il più piccolo fra loro ha dieci anni in più di William.

C’è anche chi lo vede aldilà del suo genio. Come Sharfman, l’unico compagno di dormitorio con cui la differenza d’età non impedisce di saltare assieme le lezioni, condividere pensieri sull’origine dell’universo e un certo sdegno per l’ambiente universitario. E poi c’è Martha. Con lei William conosce il socialismo e l’uguaglianza fra gli esseri umani che cerca da tutta una vita. Conserverà sempre una sua foto nel portafoglio.

È in una cella di prigione che William incontra una forma di libertà inaspettata. Per la prima volta, partecipando a una manifestazione socialista, è stato lui a decidere della sua vita. Da quel momento, della libertà non ne farà più a meno: la cercherà nell’anonimato, nelle scale infinite dei grattacieli di Boston, in un lavoro ben al di sotto delle sue capacità, nella ricerca intellettuale svolta alla sera, in silenzio e solitudine.

La storia di William Sidis si inserisce all’interno di una tema contemporaneo: quello sulla specialità di essere come tutti. Un tema che stona con l’ideale di grandiosità che rincorriamo e, che proprio per questo, abbiamo probabilmente necessità di leggere, guardare, ascoltare.

Negli ultimi mesi il tema è stato portato con successo sugli schermi da Wim Wenders con Perfect days. Di Hirayama, il protagonista del film, non conosciamo doti speciali se non una profonda sensibilità verso gli altri e un grande amore per la lettura. Ci viene spontaneo pensare che non nutra ambizioni perché non può permettersele. Di William, invece, per tutta l’infanzia e la giovinezza non facciamo altro che conoscere doti speciali. Di lui ci stupiamo che falsifichi i test attitudinali per ottenere un punteggio standard di intelligenza e un lavoro da contabile e che, ogni volta in cui gli viene proposta una mansione più elevata, si licenzi. Noi che vorremmo essere eccezionali come lui non capiamo cosa ci trovi di interessante a voler essere normale come noi.

La scelta di Iperborea di far uscire quest’anno una seconda edizione di La vita perfetta di William Sidis coglie le contraddizioni e le inquietudini che animano il desiderio che oggi abbiamo di fama. E ci apre alla domanda: ma se la nostra eccezionalità venisse riconosciuta, la nostra vita sarebbe migliore?

Giada Finucci

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