La distrazione di Dio, Alessio Cuffaro

Sgretolare il tempo e le barriere. Intervista ad Alessio Cuffaro

– Perché se non ce ne andiamo in tempo, rischiamo di rimanere inchiodati qui a sentire la mancanza di tutto il resto.

La distrazione di Dio è, prima di tutto, una bellissima storia. E già questo potrebbe bastare. In un’epoca dove lo stile è tutto e sotto, a guardar bene, rischi di non trovarci più nulla, il primo romanzo di Alessio Cuffaro si affida alla forza della narrazione, ad una macchina narrativa che emoziona e trascina. Un grande, generoso affresco che unisce la storia di Francesco Cassini, e di Jacques, Josef, Zoe e tutti gli altri, alla Storia. La Storia delle prime automobili, delle due guerre mondiali, degli U.S.A. come modello.

La distrazione attribuita a Dio è quella di un uomo, Francesco Cassini, che non riesce a morire, a chiudere il cerchio. Ad ogni morte, Francesco si reincarna nel corpo di un altro. Una chiave, questa, che rende La Distrazione di Dio una grande e malinconica invocazione al tempo e alla vita, con le sue infinite possibilità. Lo stile asciutto, elegante di Cuffaro ci regala vite diverse, storie diverse che si dipanano tra Torino e Praga, Parigi e New York, in quella cosa inspiegabile che è l’esistenza umana. Un’esistenza che Francesco è costretto a ripetere più volte, rimanendo se stesso e cambiando ogni volta.

Ne parliamo con l’autore, Alessio Cuffaro, che ringraziamo.

Alessio Cuffaro

Alessio Cuffaro

Il vero, grande coprotagonista del tuo romanzo è il Novecento. La storia di Francesco è anche un enorme affresco corale di un mondo che cambia fin troppo velocemente. Mi è venuto in mente uno dei miei film preferiti, Forrest Gump. Come cambia l’approccio alla scrittura in un periodo di tempo così ampio e denso?
La distrazione di Dio poteva essere ambientato in qualsiasi tempo, nel passato come nel futuro. Ho scelto di ambientarlo nel Novecento perché è un secolo in cui si sono prodotte le basi sociali, economiche e culturali del tempo che stiamo vivendo. Ma è anche un secolo che abbiamo archiviato in un attimo, l’attimo dello schianto del secondo aereo sulle torri gemelle. Le soluzioni di continuità hanno questo effetto collaterale: immagazzinano ciò che le precede in un luogo nascosto della memoria. Non torniamo più al Novecento per capire, eppure non capiamo granché di ciò che siamo e di cosa ci sta succedendo. Quindi ho scelto di far dimorare il lettore in quel secolo. Ma questo non è un romanzo storico. Gli eventi storici entrano in maniera discontinua nella narrazione e con intensità variabile. È la vita che sta vivendo il protagonista a concedere maggiore o minore spazio alla Storia. Che poi è quello che capita a tutti noi: alcuni eventi storici ci trovano in un momento di vita in cui siamo ricettivi, influenzabili, pronti. Altri sembrano scorrere via senza lasciare traccia. Ho cercato di assecondare il tempo narrato piegando lo stile perché mutasse di decennio in decennio. Volevo che la parola scritta suonasse in sintonia col tempo che descriveva.

La distrazione di Dio è un romanzo di formazione molto atipico, che si sviluppa su piani e periodi diversi. Quale insegnamento può dare una vita così lunga, così diversa nelle sue manifestazioni?
Il romanzo esplora il conflitto tra integrità e impostura, tra corpo e psiche, tra identità e ruolo. Francesco è obbligato allo stesso compromesso cui siamo obbligati tutti. Ma nel suo caso le istanze del mondo sono molto più forti, perché provengono da una vita non sua. Questo aiuta anche il lettore a vederle con maggiore forza. Francesco impara ad avere più rispetto per se stesso, impara ad affrancarsi dal senso di colpa, si libera, pagina dopo pagina, di una forma mentis scientifica per abbracciare pian piano un modo di pensare capace di accogliere anche i desideri, le meschinità, l’irragionevolezza delle emozioni e, infine, la poesia.

La distrazione di Dio

La distrazione di Dio

Francesco, nelle ultime pagine del romanzo, decide di trascrivere tutta la sua vita, con i suoi ricordi e le sue emozioni. Come a dare un ordine, un senso a quello che gli sta succedendo. Sulla Trilogia della città di K., Agota Kristof scrive “ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia”. Che valore ha per te la scrittura?
Scrivevo già da piccolissimo. Roba illeggibile, ovviamente, ma non ricordo un giorno della mia vita in cui io non abbia desiderato scrivere. Ho studiato narrazione. Ho lavorato per alcune case editrici. Non ho fatto altro per una vita che guardare film o ascoltare canzoni o ammirare fotografie prestando attenzione quasi unicamente alla storia che vi era raccontata e pochissima alla tecnica (non c’è verso, nel mio mondo interiore, che un’inquadratura meravigliosa possa essere più interessante di un grande dialogo). Non faccio però parte di coloro che sostengono che la lettura di un libro possa cambiarti la vita. 500, 1000, 2000 libri cambiano la vita in maniera irreversibile. Anche scrivere un libro, uno solo, cambia davvero la vita. Non sapevo di avere capito alcune cose della mia vita prima di averle consegnate alla pagina. Kafka diceva: “si fotografano (scrivono) le cose per allontanarle dalla propria mente. Le mie storie sono un modo di chiudere gli occhi”. Frase bellissima, ma non credo che sia per tutti così. Prima dicevo che il mio romanzo è una ricerca dell’integrità che si svolge per mezzo di un’incessante impostura. Da quando l’ho scritto non passa un giorno senza che io mi interroghi sulla mia integrità, sulla quantità di verità che riesco a dispiegare ogni giorno. Altro che chiudere gli occhi!

Dio è presente fin dal titolo. Ma è costantemente messo in discussione dal contenuto del romanzo, che potrebbe testimoniare la presenza di Dio come allo stesso tempo evidenziare la sua assenza. Che tipo di personaggio è Dio nella tua opera?
Devo dire che la domanda mi piace parecchio. Qual è il ruolo di Dio nella narrazione? Che si creda o meno (e io non credo), che lo si chiami Dio o destino, non vi è dubbio che Dio è presente in ogni racconto. Ogni volta che tramite la storia di un personaggio suscitiamo una riflessione sull’essere umano, in qualche modo interpelliamo il destino (si legga Dio per i credenti) di tutti gli esseri umani. Nel mio romanzo Dio viene negato già dal titolo. Ci sono gli uomini e sono in balia di un Dio distratto (di un destino ingovernabile). Quindi bisogna far da soli.

Dalla Torino di fine ‘800 alla New York di fine secolo, sono tante le città dove si ambienta la storia di Francesco. Le descrivi con molta cura, si può dire che sono la cartina tornasole delle varie vite del protagonista. Come le hai scelte? Per il loro valore simbolico, affettivo o cos’altro?
Sono tutte città che ho scelto: Torino è la città in cui ho scelto di vivere 21 anni fa. Parigi è la città del mio migliore amico, quindi è casa. Praga ha un fascino che non riesco a spiegare e che mi costringe a tornare a visitarla di tanto in tanto. E New York è la città che per tutti gli occidentali, volenti o nolenti, offre domicilio all’immaginario collettivo. Poi ognuna ha anche un valore simbolico per la vita che il protagonista sta incarnando: Torino è la ragione, Parigi è il sentimento, Praga è l’ingenuità, New York è la libertà.  

Il protagonista, sempre più vecchio rispetto al mondo che avanza, pensa di non riuscire più a interpretare i giovani d’oggi. Deve costantemente adattarsi, inseguire quello che nella sua vita precedente era soltanto il futuro. Un conflitto generazionale che è attualissimo, la cifra narrativa di questo decennio. Come si sarebbe trovato Francesco nel 2016?
Male. Davvero male. Non perché sia un tempo più difficile di quelli che Francesco vive nel romanzo, tutt’altro, ma perché è completamente saltato un modo di pensare. È già difficile per uno come me che è nato nell’ultimo quarto del Novecento, figuriamoci per uno come Francesco che nasce nell’Ottocento. Non riuscirebbe a fidarsi di tutto ciò che abbiamo “disintermediato”. Impazzirebbe all’idea che il falso, quelle che chiamiamo bufale, possa diventare il vero per il solo fatto di suonare meglio alle orecchie di molti. Francesco invecchia pur abitando corpi giovani, perché quale che sia la tua energia residua, a un certo punto diventi vecchio tuo malgrado. Le cose che hai pensato e il modo in cui le hai pensate per una vita si sedimentano e finiscono col formare una barriera che non ti lascia intravedere il presente. Ecco leggere serve a questo: sgretolare la barriera.

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