Adorno, New York e gli albori dell’industria culturale

Arrivando a New York nel 1938 Theodor Wiesengrund Adorno, intellettuale ebreo-tedesco neomarxista in fuga dal regime, deve aver provato i sentimenti contrastanti che caratterizzano chiunque metta piede sul suolo di un paese straniero: la speranzosa energia che trasmette il trovarsi in un mondo nuovo dove mettere alla prova le proprie capacità e l’immediata nostalgia per la casa ormai lontana dove si sono piantati i semi dischiusi di queste stesse capacità. Nel suo particolare caso questi sentimenti saranno stati eccezionalmente forti sia per il suo trovarsi negli Stati Uniti per lavorare ad un progetto ben definito, ponte tra la ricerca statunitense e quella europea, che per l’essere in fuga dalla propria stessa terra tanto più amata perché lasciata in preda a forze inquietanti e distruttive.

Il giovane sociologo ed esteta, grazie al lavoro maturato in patria e all’intercessione del collega Max Horkeimer dell’Istituto di Ricerca Sociali di Francoforte, si trova a ricoprire il ruolo di direttore della sezione musicale del Princeton Radio Research Project (PRRP) sostenuto dalla Rockfeller Foundation sotto l’egida di Paul Felix Lazarsfeld, austriaco anch’egli emigrato in America e posto a capo del progetto in gemellaggio con l’Istituto. Sono gli albori del mezzo radiofonico e qui si originano le dinamiche di diffusione e informazione che dagli Stati Uniti hanno preso dimora su scala globale, alla sua nascita la radio svolgeva il proprio ruolo riuscendo come mai prima di allora a raggiungere e unire i gusti del cittadino di qualunque estrazione sociale e fascia di reddito; grazie alla sua capacità di insinuarsi fin dentro le case dei cittadini americani e il poterli chiamare direttamente in causa con questionari telefonici, il PRRP aveva teorizzato e messo in pratica la costruzione di programmi a partire dalle statistiche collezionate dagli scrutatori che, vagliando e filtrando il gusto della popolazione, proponevano poi nel palinsesto il frutto delle preferenze della maggioranza degli stessi contribuenti, in quello stile di attenzione al consumatore che è tutt’ora un marchio di fabbrica americano. Cultura e mercato si stringevano così calorosamente la mano, consapevoli che il soddisfacimento dei bisogni di entrambi erano delegati a procedimenti scientifici in grado di creare il lattice democratico necessario a far sì che svago e cultura fossero il più possibile fruibili dal cittadino.

Questa sfida di accordare la teoria europea con l’empirismo americano poteva essere alla portata del neodirettore, gravido di sapere mitteleuropeo e conscio del sostegno economico derivante dalla più ricca fondazione nordamericana, eppure col passare del tempo si rivelerà più ardua del previsto: l’intero procedimento di riduzione di una molteplicità a un dato standard a scopo commerciale e la gerarchizzazione del culturalmente valido in base al criterio della maggioranza di giudizi di gusto positivi infatti rappresentarono per Adorno il materializzarsi dei propri incubi sia a livello sociale che estetico. Recitano caustici appunti del periodo: «Quando mi trovai di fronte all’idea di “misurare la cultura” pensai che la cultura poteva essere proprio quella condizione che esclude una mentalità capace di misurarla. […] In America sono stato liberato da una certa fiducia naive nella cultura, acquisendo insieme la capacità di vedere la cultura dal di fuori. Al di là del primato dei fattori economici avevo sempre ritenuto la mente come di fondamentale importanza. Il fatto che questa non fosse una conclusione scontata l’ho imparato in America».

Le difficoltà sorsero con il crescere della sfiducia da parte del superiore austriaco nella capacità di Adorno di comprendere e applicare il metodo di verifica empirica di una supposizione ipotetica, una reticenzia che rappresenterà per il francofortese la scoperta di quelle stelle che lo porteranno a comporre la sua più fortunata teoria, quella scritta assieme all’amico Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo, il noto concetto di Industria Culturale. Poter sbirciare dietro le quinte di un contesto di creazione e comunicazione artistico-culturale massiva come la radio svilupperà  la necessità di una critica che mettesse in guardia dall’invisibile tendenza totalizzante di una società amministrata al controllo della popolazione abolendone l’individualità in modo desiderabile e legittimo, non attraverso il terrore e il lager ma col desiderio generato dalla patina glitterata della rivista di opinione e costume presente alle cassa del supermercato: un regime dove è l’industria a dettare i tempi della vita guidando il gusto del singolo nell’illusione di essere parte di una totalità rassicurante.

theodor-adorno4-e1291159397661Si svelavano così le potenzialità di un nuovo impero capace di trasformare in merce e guadagno qualunque aspetto della vita, assoggettando tanto la sfera politica quanto quella culturale e riuscendo a snaturare persino il libero reame dell’arte. Se quest’ultima, scrive Adorno, poteva restare autentica mantenendo fede a una promessa di felicità a cui tendere costantemente rappresentandone l’impossibilità, l’industria culturale era in grado di fornire il gadget e l’intrattenimento seriale necessario a convincere il consumatore che la felicità fosse già tangibilmente presente nella sua esistenza, nonostante la stessa industria culturale negasse l’autentica gratificazione corporea «defraudando continuamente i suoi consumatori di ciò che continuamente promette» ed allontanando l’uomo dai suoi bisogni più intimi, profondi e immateriali.

L’idea di cultura, e specialmente di arte, che il sociologo ed esteta tedesco considerava come autentica rifuggiva invece qualunque staticità e strumentalizzazione: il rapporto tra opera, artista e società doveva essere un rapporto dinamico fatto di conflitto e non di accettazione o, peggio ancora, di dissimulazione. Un conflitto produttivo in cui arte e filosofia fossero egualmente implicate nell’additare le contraddizioni dell’oggettività (il mondo fisico-politico-sociale in cui ci muoviamo) tramite un processo critico che rifiutasse una totalità che fosse identificazione pacificatrice di soggetto e oggetto. Riconoscendo piuttosto tra questi un incastro imperfetto, un’inadeguatezza avvertita dell’uno verso l’altro, l’opera d’arte riesce a rappresentarne la dolorosa consapevolezza trascendendo così uno status quo inaccettabile.

L’artista che non scende a patti col meccanismo dell’industria culturale e riesce a mantenere la promessa di felicità è perciò colui che riesce a non guardarsi indietro per paura del dolore del presente rifugiandosi in convenzioni correnti o in forme arcaiche da rinnovare, ma fa sì che la forma stessa della sua opera sia la voce di questo disagio.

Ciò che vale per la vita istintiva, vale anche per quella spirituale: il pittore o il compositore che si vieta questa o quella combinazione di colori o serie di accordi perchè la giudica dozzinale e di cattivo gusto, lo scrittore a cui determinate forme linguistiche dànno sui nervi perchè gli sembrano pedantesche e banali, reagisce così vivacemente contro di esse perchè anche in lui ci sono, per così dire, degli strati che sono attirati in quella direzione. Il rifiuto dell’andazzo dominante della cultura presuppone che si partecipi ad esso quanto basta per sentirne, per così dire, l’attrazione sulla propria pelle, ma che si siano tratte d’altro canto, da questa partecipazione, le forze necessarie per liberarsene. (Adorno)

Per sfuggire al pericolo di essere sfruttata dal sistema l’arte, secondo tale dialettica, deve rendersi da esso difficilmente comprensibile, oscurando la corrispondenza tra il contenuto e l’esterno interferendo con la percezione della coerenza nei suoi elementi strutturali e sintattici. Questa necessaria oscurità è uno dei sigilli che Adorno ha impresso più a fondo nell’intera struttura del suo pensare e che più avvincono e affascinano il suo lettore, un approccio che origina uno stile – critico, musicale, poetico – che sembra ripiegarsi in se stesso per trovare quelle verità con cui poter costruire una complessa matrioska, una struttura infinita, piena di simboli poetici e ambivalenze, così da essere difficilmente comprensibile in superficie ma rivelatrice e devastante a una riflessione approfondita. Oscurità critica illuminata da una necessità utopica quasi impossibile, pensare a un futuro di cui non si vede l’orizzonte ma in cui non si può non sperare, dove l’uomo sarà in grado di darsi un tipo di conoscenza libero dalle costrizioni della soggettività collettiva sottilmente imposta dall’oggettività.

Una speranza disperata, dato che nell’analisi di Adorno non c’è una forza o una norma o una struttura sociale che si possano opporre alla totalità del potere amministrato – per non parlare della politica, priva di qualunque energia sovversiva che non sia destinata a trasformarsi in meccanismi strumentalizzati al fine di conservare lo status quo – né una matrice psicologica tetragona agli interventi della società esterna: l’unico alfiere possibile della redenzione impossibile rimane l’arte.

Tali oscurità e speranze sovversive rendono Adorno avverso a una società che crea e ricerca contenuti artistici con fini strumentali e commerciali e che costruisce a tavolino standard di genere che impoveriscono l’individualità e che vengono riproposti attraverso i suoi mezzi di diffusione a tamburo battente seguendo la regola aurea per cui c’è bisogno solo di ripetere qualcosa per far sì che essa venga ricordata e infine accettata. Procedimenti economici che creano un’arte intesa come divertimento fruibile da una popolazione incapacitata a trovare momenti di riflessione attiva perché immersa in meccaniche giornate lavorative che si concludono in un bisogno di rilassamento e distrazione, un riposo comunque funestato dalle preoccupazioni legate al salario, alle fluttuazioni economiche, agli affari esteri; una fame di distrazione e ripetizione che genera la noia che l’industria costantemente provvede a cullare fornendo nuovi stimoli da lei già masticati e appropriandosi di ogni momento della vita fornendo passa-tempo che alleggeriscano il momento del ritorno al lavoro.

La vita quotidiana tra le strade a griglia geometrica e i grattacieli di una megalopoli in crescita costante come New York deve essere stato un cantiere privilegiato per elaborare teorie sulla ragione umana come volontà organizzatrice e dominatrice, là un uomo singolo può sfiorare tutta la sofferta complessità dello sradicato che, come Robinson Crusoe, è costretto a costruirsi da solo gli strumenti per resistere alla marea. Con l’inasprimento dei suoi rapporti in seno al Princeton Radio Research Project Adorno ne verrà allontanato per l’evidente impossibilità di collaborare con chi, fuggito dalla Germania nazista, è in grado di criticare il medium più democratico nel paese più democratico, la radio americana. Le sue epistole di emigrato neomarxista nell’era McCarthy finiranno sulla scrivania di J. Edgar Hoover, vagliate anche dalla F.B.I. perché potessero essere giudicate innocue.

Ciononostante la permanenza di Adorno negli Stati Uniti rappresenta un esempio di come l’esportazione della critica continentale nel milieu anglo-americano abbia provocato uno scontro di paradigmi, quello “metafisico” europeo contro l’“empirico” americano, dando un nuovo impulso a una riconsiderazione della società che ha portato ai movimenti sociali del dopoguerra e che sembra non essersi ancora esaurita, per quanto sotto guise completamente differenti dagli intenti originari. L’affermazione di Tolstoj in Guerra e Pace per cui è «necessario rinunciare a una libertà di cui abbiamo coscienza e riconoscere una dipendenza che non siamo in grado di avvertire» potrebbe essere il filo rosso di questa ricerca, intesa come riconoscimento dell’impronta che la cultura imprime sulle individualità e viceversa. Depositario della più alta educazione tedesca, osservata mentre si annichiliva nella macina del nazismo, e costretto alla fuga in un paese alla ricerca di una cultura propria attraverso i medium di democrazia e controllo, Theodor Wiesengrund Adorno ha saputo gettare un occhio nel baratro nascosto provando con ostinata lucidità a descriverne l’aspetto. Il suo lascito è stato raccolto poco dopo la sua morte dai nuovi movimenti critici statunitensi ed ha permesso di risvegliare dal torpore un pensiero che doveva trovare nuova forza per poter andare al di là della superficie.

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