Merda d'artistia

Il potere di scandalizzarci: ritratto di Piero Manzoni

Nell’Agosto del 1961, in una piccola cittadina in provincia di Savona, Piero Manzoni espone 90 scatolette di Merda d’artista, di un peso di trenta grammi per una, che vende al loro corrispondente peso in oro.

Dopo, il mondo dell’arte non sarà più lo stesso.

Manzoni, nobile da parte di padre e borghese da parte di madre, passa la sua infanzia in giro per le ville di famiglia del Nord Italia e poi la giovinezza a Milano dove, a parte un breve intervallo a Roma, passerà il resto della vita.

C’è una presunzione nella sua arte, fin da subito.

Si vede già nelle prime opere: quadri con sopra forme difficili da identificare, spesso senza nome. Si vede nei manifesti teorici sull’arte che scrive a 24 anni, come L’arte non è vera creazione, in cui afferma che “si deve giungere ad immagini che sono le immagini prime, i nostri totem, nostri e degli autori e degli spettatori”.

Si vede anche nelle tele completamente bianche che espone e che chiama Achromes, nelle Sculture viventi (modelle nude su cui mette la firma) , nel palloncino gonfiato da lui, che chiama Fiato d’artista.

Influenzato dall’idea dell’arte ready-made dell’americano Marcel Duchamp, secondo cui oggetti che esistono nel mondo possono essere promossi allo stato di arte solamente grazie alla volontà dell’artista — è famoso l’orinatoio che Duchamp espone a New York nel 1917 con il nome di Fontana — , Manzoni esercita il potere che sente di avere come artista, fino a spingere gli spettatori a consumare centocinquanta uova con la sua impronta digitale nella performance che chiama Consumazione dell’arte, dinamica del pubblico, divorare l’arte.

Ma nell’Agosto del ’61 si spinge un passo più in là.

Manzoni vuole dirci qualcosa che ha a che fare con il potere, e forse anche con la fiducia. Ci sta dicendo che quando ci interessiamo ad un’opera d’arte stiamo dando all’artista il potere di farci sentire qualcosa.

Quando la Merda d’artista viene esposta per la prima volta, le reazioni più comuni del pubblico sono il disgusto e la rabbia.

Dino Buzzati dice sull’opera che: “le intenzioni ironiche o rivoluzionarie non bastano a riscattare la volgarità e il cattivo gusto di stampo goliardico”.

In qualche modo Manzoni ha deluso le aspettative degli spettatori, li ha sottoposti ad un sentimento che non volevano provare: il disgusto.

Gli è stato dato potere e lui ne ha abusato.

Pretendere che l’arte ci faccia provare solo emozioni positive è come fidarsi di qualcuno e pretendere che non ci ferisca: possiamo sperarlo, ma non possiamo impedirglielo. Con l’arte, specialmente con l’arte di Manzoni, che ha un rapporto così diretto con il mondo fisico, non possiamo decidere di evitarla.

Manzoni, con il suo modo di fare arte, ci costringe a percepire le sue opere, e rimaniamo infastiditi quando quello che percepiamo non ci fa sentire come vorremmo.

Ma, purtroppo, queste sono le regole del gioco, e Manzoni le aveva capite molto bene: fruire dell’arte significa mettersi, in qualche modo, alla mercé di qualcun’altro.

Quindi la prossima volta che siamo davanti ad un’opera d’arte — che sia un libro, un film, o una scatoletta ben sigillata — ricordiamoci che stiamo dando a qualcuno il potere di scandalizzarci, o peggio, di deluderci.

Paola De Pasquale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.