Call me by your name – Quando tutto è troppo bello

Finalmente arriverà anche in Italia, seppure con discreto ritardo, il tanto atteso Call me by your name. Si tratta di uno dei titoli più acclamati della scorsa stagione e, come spesso avviene quando si parla di omosessualità, la pellicola è già da mesi oggetto della curiosità di molti. Curiosità, almeno in questo caso, più che giustificata. Certo molto dell’interesse deriva proprio dal tema in questione, ed in fondo è anche giusto sia così, ma la qualità di questo lavoro, come quella di qualsiasi altro, dipende esclusivamente dalla sua messinscena. E quella del regista, Luca Guadagnino, è impeccabile.

1020 (3)Tentare l’anatomia di quest’opera sarebbe tuttavia poco utile, oltre che pedante, e il film, fortunatamente, non si presta ad essere analizzato in frammenti. Ci troviamo infatti davanti a una scultura declinata in immagini, non dissimile dai bronzi che compaiono nei titoli di testa: una visione al tempo fluida e possente. Non stupisce che tra i luoghi ricorrenti ci sia quindi il fiume, elemento eracliteo per eccellenza, del quale si dirà che «lo scorrere non significa che tutto cambia e quindi non possiamo riviverlo, ma che alcune cose restano uguali solo attraverso il cambiamento». A parlare è Oliver, ventiquattrenne americano in visita in Italia, dove è ospite nella villa del suo relatore: il professor Perlman. In questa oasi privilegiata della campagna cremasca, dove tutti parlano almeno tre lingue e il tempo sembra trascorrere tra un ricevimento e l’altro, il ragazzo incontra Elio, giovane figlio dei padroni di casa. Senza che quasi ce ne si accorga, tra i due si innesca subito un’attrazione reciproca, che lo studente, non potendo più dissimulare, cerca con fatica di rinnegare come può. Tuttavia, come l’acqua nella quale li troviamo spesso immersi, anche il sentimento è difficile da contenere, e sarà lo stesso Oliver, una volta superate le proprie insicurezze, a cercare il giovane da lui prima rifiutato. Il suo atteggiamento, e più generale l’intera vicenda, sembra obbedire pertanto a due impulsi, opposti ma complementari tra loro: paura e desiderio. Vero protagonista è dunque il perturbante, il timore di ciò che in realtà ci attrae, e che riguarda non solo la coppia formata dai due ragazzi, ma anche i personaggi che con loro hanno a che fare. Quasi tutti, senza volerlo, finiscono per ferire chi li ama, e qui risiede appunto la lezione di questo film, ammesso che sia giusto volerne individuare una. Se però un messaggio esiste, questo è appunto da leggersi nel discorso che il padre rivolge al figlio, nell’invito ad accettare le sofferenze che la vita ci impone. Invito di per sé banale, se non fosse che, come ammonisce lo stesso professore, “soffochiamo tanto di noi per guarire più in fretta, che ci troviamo prosciugati all’età di trent’anni”.

1020La sceneggiatura, non a caso firmata da James Ivory, è senz’altro notevole, ma altrettanto lo è il modo in cui si cerca di dar voce all’inespresso. È grazie alla prova degli attori, Timothée Chalamet e Armie Hammer sopra tutti, che il romanzo di André Aciman trova infatti la sua concreta realizzazione, resa possibile dall’esuberanza dei corpi e dalla timida solennità dei gesti. Certo la sensualità della statuaria ellenistica appartiene da sempre all’immaginario omoerotico, da Yukio Mishima a Bruce Weber, ma Guadagnino arriva a contaminare, ed è forse il suo merito maggiore, la bellezza classica con la cultura pop degli anni Ottanta. Bach convive con i The Psychedelic Furs e, come questi si risolvono nelle musiche di Sufjan Stevens, così la lezione di Peter Cameron si coniuga col cinema di Bertolucci. Innumerevoli sono le influenze che potrebbero essere citate, da Rohmer a Pialat a Téchiné, ma quella del regista parmense rimane la presenza più pervasiva. Non tanto per le ambientazione padane o per i riferimenti alla realtà politica, là il PCI e qui il pentapartito di Craxi, quanto per la sua capacità di tradurre la letteratura in immagini, di adattare la classicità e calarla nel contingente. Gli amori di Prima della rivoluzione, ricavati da quanto si narra nella Certosa di Parma, non sono dissimili da quelli qui descritti e forse, anzi, ne condividono la matrice. È indicativo che l’unica lettura di Olivier, se si escludono Eraclito e Heidegger, sia proprio un romanzo di Stendhal, Armance, tratto a sua volta da un racconto dal titolo emblematico: Olivier, ou le secret. Il segreto di Madame de Duras allude a una presunta impotenza, ma in questo film, che giustamente mette in atto ciò che recita il suo titolo, è giusto identificarlo con l’omosessualità. Sarebbe infatti stupido fingere che la condizione dei protagonisti non condizioni la loro vita, così come sarebbe ingiusto, ma purtroppo ancora accade, che ci si vergogni della propria sessualità.

1020 (1)Se una critica dev’essere fatta questa è da rivolgersi al cinema italiano, più che a Guadagnino, ed è quella di rappresentare la questione omosessuale escludendone la militanza, dando cioè risalto alla sola dimensione individuale. Ciò non toglie che Call by your name sia un film necessario, oltre che splendido, e che il suo valore risieda propria nella capacità di subliminare il dolore in arte. Siamo ovviamente lontani dai risultati di Milk, Pride o 120 battiti al minuto, ma è anche vero che in Italia dobbiamo ancora imparare questo: a chiamare le cose col loro nome.

Photocredits: http://www.vogue.co.uk/gallery/call-me-by-your-name-review

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