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Pop Corno: Il prodigio


Il 28 dicembre 2020 il cinema ha compiuto 125 anni: in quello stesso giorno del 1895, infatti, venivano proiettati pubblicamente i 46 secondi di quello che è considerato il primo film della storia, creato dai fratelli Lumiére. Io invece, di anni ne sto per compiere trenta e ho visto pochissimi film: Pop Corno è il mio pubblico tentativo di fare ammenda.


Ho un debole per Florence Pugh, specialmente quando recita in costume. Quando nel trailer di The Wonder – Il prodigio (2022) l’ho vista apparire in un blu molto simile a quello che indossava in Lady Macbeth (2016), subito dopo aver avuto uno svenimento sapevo che sarebbe stato il ritorno di Pop Corno.

Tratto dal romanzo omonimo della scrittrice irlandese Emma Donoghue, pubblicato in Italia prima da Neri Pozza e poi da BEAT, Il prodigio segue da vicino Elizabeth Wright (Florence Pugh), un’infermiera inglese che viene chiamata in Irlanda per risolvere – o almeno portare chiarezza su – un mistero che si perpetua da quasi un mese: una ragazzina ha smesso di mangiare e continua a vivere.

Formatasi in una delle scuole più eccellenti e veterana della guerra in Crimea, dove ha curato i soldati feriti sul campo di battaglia, Wright è stata convocata per dare un parere d’esperta da un comitato composto anche da un prete e dal medico locale. Ad alternarsi a lei nel controllo («the watch»), che durerà quattordici giorni, ci sarà suor Michael, chiesta dalla famiglia per affiancare la fredda infermiera: le due non dovranno conferire tra loro durante l’osservazione, per non influenzarsi a vicenda.

La ragazza da osservare ha da poco compiuto undici anni e si chiama Anna O’Donnell (Kíla Lord Cassidy), vive con i genitori in una casa a due piani immersa nella brughiera irlandese e riceve continue visite da parte di devoti, medici e curiosi per lo più sconosciuti, che si interrogano su cosa tenga in vita la ragazza: magnetismo? Forze sovrannaturali? L’aria? Le preghiere? C’è qui, da qualche parte, la fonte della giovinezza?

Le persone che stai per incontrare, i personaggi, credono completamente nelle loro storie. Non siamo nulla senza storie: ti invitiamo a credere in questa.

Inizio di The Wonder – Il prodigio

La santità del non mangiare

Immersa in un’atmosfera profondamente religiosa, la vita di Anna non può che essere interpretata come un miracolo divino: l’Irlanda è un Paese colpito da continue carestie, in cui l’aspettativa di vita è bassissima – lo stesso fratello di Anna è venuto a mancare prematuramente –, e la notizia di una persona che non ha bisogno di mangiare per continuare a vivere viaggia veloce con il vento. Quando viene interrogata su cosa la tenga in vita, risponde che è merito della manna dal paradiso («manna from Heaven») e nonostante le continue perquisizioni dell’infermiera Wright, sia alla stanza che alla sua persona, non si trovano tracce di cibo da nessuna parte.

Il digiuno imposto non è un episodio raro nelle comunità religiose, anzi, ma è storicamente osservabile soprattutto nelle donne di fede cristiana e cattolica. La costrizione nel mangiare, fino all’anoressia e alla bulimia, fu utilizzata come forma di autocontrollo da sante e martiri sin dagli inizi del cristianesimo e riproposta nel tempo come esempio di vera fede – Anna ha infatti nella propria stanza varie immagini di sante che dispone sul pavimento e ammira. Non ricordo il nome di una ragazza cristiana che per sfuggire a un matrimonio pagano decise di non smettere di mangiare, cosicché il promesso sposo la rifiutasse e potesse così continuare a professare il cristianesimo (credo di averlo letto in Campo di battaglia di Carolina Capria) ; Santa Caterina, matrona d’Italia, fu anoressica e bulimica.

La mortificazione dell’appetito come valore e rituale di fede è il vestito che indossa Anna quando qualcuno entra nella casa, ma che Elizabeth Wright vuole toglierle, per vedere cosa ci sia davvero sotto.

Dovere e doveri

Una ragazza poco più che bambina viene osservata mentre muore di fame, mentre le carestie che colpivano l’Irlanda costringevano le persone a barricarsi in casa per evitarsi la vergogna di morire per strada, come fecero i genitori di Will (Tom Burke).

Quello a cui si trova davanti l’infermiera è un bivio: svolgere il proprio dovere di donna di scienza osservando, come da richiesta, oppure svolgere il proprio dovere di infermiera e intervenire, curando una paziente che non fa che peggiorare pericolosamente. La diffidenza nei suoi confronti è molteplice: è una donna, è inglese, non è cattolica. Perché quindi il comitato dovrà credere al suo parere rispetto a quello della suora? Perché credere che stia agendo nel bene e nell’interesse non solo della ragazza ma della comunità?

Eppure è proprio nel momento in cui Lib Wright si rende conto che non può essere creduta che decide di costruire una storia: sceglie la protagonista, le dà un nome, crea un racconto che possa sopravvivere alle fiamme.

Attenzione: da qui in poi ci sono spoiler

Centrali in questo film sono le storie: quella che Lib racconta agli altri sulla propria vedovanza, quella che il fratello racconta ad Anna per persuaderla, quella che la famiglia O’Donnell decide di raccontare al mondo, quella che accompagna la fine dell’osservazione.
E a guidarci attraverso queste storie è una voce, che sposta la videocamera con le sue parole in due momenti fondamentali, quello iniziale («Ciao. Questo è l’inizio di un film che si intitola Il prodigio») e quello finale («Dentro, fuori. Dentro, fuori»). La ritroviamo più volte durante il racconto, instaurata nella casa e nella comunità, anche come tramite del mondo fuori dal villaggio nella lettura dei giornali, di come gli altri danno parole a questa storia, che cambia a seconda di chi decide di raccontarla.

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