Malice Recensione

Aurora e la strega. Storia di un’oppressione che deve finire

Qualche anno fa sono andata a Disneyland Paris. Era un raro periodo di bassa frequentazione, il parco era quasi vuoto, non c’era molta fila neanche alle attrazioni più gettonate. Un solo padiglione segnava rosso, e un cartello all’entrata avvisava i temerari avventori che c’erano più di due ore di attesa. Ebbene, io ho atteso – non tanto per me, ma per tenere il posto a mio marito.

Quell’uomo di trent’anni, responsabile lavoratore e membro adulto della società, ha fatto l’ultimo quarto d’ora di fila con gli occhi scintillanti, insieme a bambine con corone di plastica, bambini in tulle rosa che agitavano bacchette, preadolescenti e anziani da ogni parte del mondo. Il serpentone della fila sembrava salire verso una magia così potente da non lasciare scelta, se non raggiungerla.

Alla cima della torre c’era la Principessa Aurora.

Due ore e mezza per fare una foto con la splendente Aurora, la principessa più amata, più odiata, più criticata, più vezzeggiata e rimodellata e rinarrata che abbia abitato le fiabe dal Quattordicesimo secolo.

Nonostante la pelle di marmo e i riccioli d’oro, Aurora è così vecchia da aver cambiato nome e storia più di tre volte. Nel Perceforest, una chanson del 1340, la giovane addormentata si chiama Zellandine. Nel 1643 diventa Talia nel Cunto de li cunti di Giambattista Basile. Solo Principessa – come la Kaguya che nasce dal bambù in Giappone – nei Racconti di Mamma Oca di Charles Perrault (1697). È il 1812 quando i fratelli Grimm la mutano in Rosaspina, nome con cui la incontreremo ancora, nelle sue vesti più famose. Italo Calvino la battezza Carola, nelle sue Fiabe italiane del 1956.

Gustave Doré, Public domain, via Wikimedia Commons

Ma il nome con cui è diventata la principessa più famosa d’Occidente non è il suo: nella versione di Perrault, Aurora è la figlia di Principessa, concepita insieme al gemello Giorno, con il principe che rompe il sonno incantato. Il nome Aurora viene trasferito da figlia a madre da Čajkovskij, nel balletto del 1889. Trama, musiche e scelte onomastiche vengono riprese dal celebre film Disney del 1959. Aurora diventa la Bella Addormentata per antonomasia, con il vestito cangiante, il carattere spigliato e allegro, curioso e ingenuo. E Aurora resta in tutti i retelling successivi, fino a diventare la determinata, indomita principessa lesbica in Malice di Heather Walter (Mondadori 2022, trad. di Silvia Costantino).

Aurora, dalla sua prima apparizione, ne ha passate veramente tante. I primi uomini, nelle prime fiabe medievali e rinascimentali, l’hanno violentata senza tanti complimenti, mentre giaceva addormentata in un castello abbandonato, sorvegliato solo da alberi minacciosi. Da Perrault in poi, che intendeva destinare il racconto a una dama, i toni si alleggeriscono: la sua è l’unica versione storica in cui Principessa non viene molestata, ma si sveglia casualmente all’arrivo del principe, e i due iniziano a chiacchierare fino a trovarsi simpatici e a innamorarsi.

Rosaspina dei Grimm viene di nuovo baciata nel sonno, e Carola di Calvino di nuovo violentata. Nelle versioni più atroci, il principe se ne va, dimentica del tutto l’avvenuto e lascia solo il corpo gravido, che viene assistito dalle fate. Il corpo della ragazza viene usato anche per mantenere in vita i gemelli, poiché produce latte. È solo un caso se uno dei due, a un certo punto, si attacca al pollice anziché alla tetta, e succhia via il rimasuglio del fuso stregato rimasto sotto l’unghia.

Gustave Doré, Public domain, via Wikimedia Commons

E di chi è colpa, tutto questo? Di principi che entrano in castelli abbandonati, ci trovano dentro una ragazza addormentata, e pensano bene di approfittarne?

No, dice la tradizione secolare: è colpa della strega.

Ricominciamo la storia da capo, dunque, ma dal punto di vista opposto.

Qualche anno fa sono andata a Disneyland Paris, ho fatto due ore e mezzo di fila per scattare una foto ad Aurora. L’infinita attesa era accompagnata da vetrinette incantate: in ognuna c’era un oggetto magico che qualche strega, in qualche fiaba, ha usato per danneggiare una giovane vergine ignara. Una mela avvelenata. Un fuso maledetto. Ogni passo, un avvertimento: attente, ragazze, c’è una vecchia rattrappita per ognuna di voi, là fuori, e non vede l’ora di maledirvi perché invidiosa della vostra freschezza.

Eppure non c’è alcuna strega nella Bella Addormentata nel bosco.

Ma come, e Malefica? direte voi.

Malefica non esiste fino al 1600, quando Charles Perrault ha deciso di scrivere una fiaba per bambine, che termina in questo modo:

Se questo racconto avesse voglia d’insegnar qualche cosa, potrebbe insegnare alle fanciulle che chi dorme non piglia pesci… né marito. (Perrault, trad. di Collodi, 1875)

Alle origini, la principessa veniva maledetta da una generica profezia, o addirittura da un voto della madre. Poi c’è stato un preciso momento, nella storia della letteratura, in cui uno scrittore ha deciso che parlare in modo diretto di giovanotti che stuprano ragazzine nel sonno era un po’ maleducato, e ha deciso di dare la colpa – a chi? – a un’altra donna. Anzi, al peggior incubo di un uomo: a una donna vecchia.

Nella sua prima apparizione, l’ultima fata – la settima per Perrault, la tredicesima per i Grimm – è un’anziana che il Re e la Regina hanno dimenticato d’invitare al ricevimento per il battesimo della neonata principessa. Il mancato invito viene rinfocolato da un’offesa all’apparenza minima, ma carica di simbolismo:

Il Re le fece dare una posata, ma non ci fu modo di farle dare, come alle altre, una posata d’oro massiccio, perché di queste ne erano state ordinate solamente sette, per le sette fate. La vecchia prese la cosa per uno sgarbo, e brontolò fra i denti alcune parole di minaccia. (Perrault 1697, trad. di Collodi 1875)

Dopo questo primo, storico insulto, la vecchia non si riprende più. Le versioni successive, tranne il recupero dall’originale di Calvino, portano in scena una donna anziana progressivamente più vendicativa e malvagia. La strega Carabosse di Čajkovskij condanna a morte la bambina per il semplice invito mancato, e Disney mantiene questa linea, consacrando la strega nell’immagine di Malefica.

Gustave Doré, Public domain, via Wikimedia Commons

Malefica: un nome, un programma. La donna algida con le corna, le ali di pipistrello, il corvo sulla spalla. Crudele e affascinante, elegante e rabbiosa. Un’icona.

La gente ha finito per innamorarsi di lei, invece che di Aurora, e Disney, che ha fiuto per gli affari, ha prontamente convocato Angelina Jolie per darle un volto. Ma per quanto la strega in carne e ossa fosse sensuale, e in certi tratti gentile, e materna, il pubblico ha continuato a preferirla quando diventava un drago viola e radeva al suolo il castello. I cattivi ci piacciono, e La bella addormentata nel bosco è giunta infine nel XXI secolo, dove i cattivi sono i protagonisti indiscussi dei retelling.

Questo, dunque, mi aspettavo quando ho iniziato a leggere Malice, ennesima riscrittura di una fiaba raccontata ormai, credo, da chiunque sappia tenere una penna in mano. Non che questo sia un male: la bellezza delle fiabe è che sono pietre antiche con molte facciate, e ogni riscrittura permette di approfondirne alcune in modi nuovi. Probabilmente, se Malice fosse stato l’ennesimo pamphlet volto a giustificare la malvagità della cattiva di turno con un passato strappalacrime, l’avrei chiuso a pagina 50.

Cover italiana di Malice

Ed è proprio così che inizia: Alyce, la Grazia Oscura, è la strega tra le fate, la sfigata tra le popolari, la macchia su una storia perfetta, e come tale viene maltrattata. Poi incontra Aurora, una principessa che non è più la ragazzina inerme del Perceforest, ma una donna dalle idee e dai gusti molto chiari. Come in ogni fiaba che si rispetti, è amore a prima vista. Amore che invece di consumarsi in molestia si sviluppa lento e inesorabile, con desideri e progetti comuni, con liti, incomprensioni, imbarazzi e sorprese. È una storia d’amore tra due giovani donne diverse nell’aspetto ma simili nel sentire, ed è qui che ho percepito per la prima volta una novità, in questa storia trita e ritrita.

Qui Alyce-Malefica non è la cattiva, ma non è nemmeno la povera cattiva resa tale dalle umiliazioni. Il re, sordo a qualsiasi precedente, persevera nel famoso sgarbo del piatto:

Un maggiordomo depone una portata davanti a ciascun ospite, e poi sollevano la cloche che la copre in un unico, snervante movimento sincronizzato. Carne di cervo marinata in burro alle erbe, tutta servita su piatti d’oro.

Tranne che a me.

Sento qualcosa che mi spinge da dietro agli occhi mentre contemplo il mio piatto d’argento. Non si sono nemmeno curati di lucidarlo. È ossidato ai bordi e offusca il mio riflesso. (Walter, trad. di Costantino, 2022)

E questo è niente rispetto a ciò che subisce Alyce, ma non è il motivo che spiega o giustifica le sue azioni. Niente lo fa. La storia, narrata in prima persona, non elargisce giudizi morali, ma ci sprofonda dentro un sentimento di impotenza, di reiterata ingiustizia, risultato di un sistema patriarcale creatosi con la violenza e gli inganni – e l’ignavia delle regine stesse – ai danni di numerose donne. Ci sono tre personagge importanti in questa storia: una è Alyce, una è Aurora, le altre sono innumerevoli Grazie, ovvero le fate.

Tutte loro, nessuna esclusa, vengono tenute prigioniere, i loro corpi sfruttati per il tornaconto della corona. E ben presto se ne rendono conto. E proprio come è nella realtà, purtroppo, non ne consegue automaticamente che si alleino.

Malice si conferma dunque un retelling particolare non tanto perché riscrive la storia in chiave LGBT+, ma perché esplora alcuni elementi perduti della storia tradizionale, come la molestia continua ai danni della principessa, la mancanza d’empatia dei reali, l’uso della magia delle fate a servizio di vanità umane.

Nel 1300 era normale raccontare di quel che avveniva sul corpo delle donne. Dal 1600 in poi sembrava brutto dirlo, e lo si è nascosto sotto il nome di strega.

È bello vedere come nel 2022 la storia possa ancora essere raccontata senza occultare le brutture, morali e fisiche. Ma per rimettere gli oppressori e gli oppressi al posto giusto.

Non è, come potremmo aspettarci, una storia di rivalsa. Il finale è amaro, e vi invito ad arrivarci, perché Malice è una saga, e a quanto pare non abbiamo ancora finito di raccontare questa storia.

Chiudo con una nota linguistica: la traduttrice, Silvia Costantino, fa piccole ma significative scelte nel testo italiano. L’inglese neutro kestrel diventa “gheppia”, per rispettare il genere dell’animale. Queste piccole cose, di questi tempi, scatenano polemiche d’ogni tipo, sul come la lingua italiana funziona in un certo modo e in quel modo va usata.

Una curiosità, dunque, sulla storia della Bella Addormentata: l’originale titolo di Perrault è Le belle au bois dormant, ovvero La bella nel bosco addormentato. Un errore di traduzione ha reso la fiaba iconica come la conosciamo. Che sia errore o scelta consapevole, a volte è un cambiamento inaspettato a fare la fortuna di una storia.

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